CAPITOLO VENTESIMO

Labbrone Hummelsdorf era soddisfatto, perfino compiaciuto. Compreso quel mercoledì, restavano solo due giorni per fare pratica, eppure era fiducioso che ce l’avrebbero fatta.

Gli elastici battevano un po’ la fiacca, ma per venerdì sarebbero stati perfetti. Le assi per lavare e i tamburi se la cavavano piuttosto bene. I fischietti andavano meglio del previsto, e quanto ai secchi-e-cucchiai, be’, conferivano alla sua musica una sorprendente energia primitiva.

Non restava che una domanda: lui, il professor Hummelsdorf, sarebbe stato ricordato come il primo direttore di banda a dirigere un’intera scuola… o un’intera scuola meno uno?

La signorina Wyler. Quella peste con il muso lungo. Continuava a rifiutarsi di battere i piatti, nonché a minacciare d’essere la sola e unica allieva in platea. E Labbrone temeva che facesse sul serio.

Quel giorno, mentre lavorava con i suonatori di bottiglie, che producevano una nota lugubre simile a quella d’un flauto, notò che la signorina Wyler non solo era immusonita come sempre, ma sembrava essersi trasformata in una specie di isola. I posti davanti e dietro di lei, come pure quello alla sua sinistra, erano vuoti. Solo il giovane Mott, il suonatore di trombone, le sedeva accanto.

Pochi istanti dopo, altri due studenti si spostarono ancora più in là, lontano da lei. Al di sotto della nota dolente dei suonatori di bottiglie, il professor Hummelsdorf avvertì una corrente misteriosa di sussurri, a tratti interrotta da un colpo di tosse o un mugolio soffocato. Un altro allievo cambiò di posto. Era come il rifluire della marea, una marea che si allontanava sempre più dalla Wyler. All’improvviso un suonatore di fischietto si alzò di scatto e raggiunse barcollando il capo opposto dell’aula, le mani premute sul viso.

Hummelsdorf fece un passo nello spazio ormai deserto attorno alla Wyler e a Mott, e capì. E poi capì anche il perché: la Wyler si era tolta le scarpe. E capì anche, senza bisogno di chiederlo, che il problema non era dovuto a una mancanza di sapone. Era una sfida deliberata.

Sunny Wyler aveva vinto.

«Wyler!» tuonò. «Fuori! In presidenza! All’istante!»

Sunny trotterellò nel corridoio senza rimettersi le scarpe, respirando il minimo indispensabile e solo con la bocca. Strada facendo, prima un insegnante, poi due, poi tre, lasciarono la lavagna per dare un’occhiata in corridoio. Ma bastò una zaffata per convincerli a chiudere in tutta fretta la porta dell’aula. In seguito, parecchi studenti avrebbero riferito ai genitori che quel giorno una puzzola era entrata nella scuola e si era aggirata nei corridoi.

Ma quando fu quasi davanti alla presidenza, Sunny rallentò. La casa del criceto… c’era qualcosa di diverso… qualcosa di sbagliato. La raggiunse di corsa. Il tetto di rete metallica era stato sollevato e adesso era appoggiato a una parete del terrario.

E il criceto – Humphrey – era scomparso!

Pochi istanti dopo, Sunny arrivò trafelata in presidenza e informò la signora Wilburham e il signor Brimlow della sparizione della bestiola. Entrambi si precipitarono in corridoio, lasciandola sola nell’ufficio. Sunny abbassò lo sguardo. Si era rimessa le scarpe, ma non riusciva assolutamente a ricordare quando.

Il preside fece diversi annunci. Non aveva intenzione di punire nessuno, disse. Chiunque avesse preso il criceto, avrebbe solo dovuto rimetterlo nel terrario. Non sarebbero state fatte domande.

Volarono accuse. Gli allievi di prima accusarono del rapimento quelli di seconda. Quelli di seconda accusarono gli allievi di terza. E tutti accusarono i bulli con la testa a pois. Che sgranarono gli occhi con aria innocente e osservarono che forse era stato lo stesso criceto a spostare la rete e a saltare fuori.

Il pranzo del mercoledì della Banda del Preside fu sostituito da una perquisizione a tappeto dell’intera scuola.

Quel giorno a mensa parecchi allievi del primo anno, ricordando il cartello comparso davanti al terrario, lanciarono un’occhiata agli hamburger e scoppiarono in lacrime.

Alla fine delle lezioni, Sunny procedette con le solite pulizie del mercoledì. Però stavolta non ebbe bisogno del barattolo.

Con le lacrime agli occhi, guardò la parete sopra il terrario. Gli allievi di prima aveva messo insieme con il nastro adesivo una dozzina di fogli per formare uno striscione. Sopra c’era scritto:

TORNA A CASA, HUMPHREY!

Quella sera, la scuola fu chiusa alle nove. La casa del criceto era ancora vuota.