CAPITOLO QUARTO

Il mozzicone masticato di un sigaro si mosse come se fosse dotato di vita propria nella bocca dell’energumeno dalle orecchie pelose. «Potrei tirarlo fuori a forza» proseguì l’autista «ma non vorrei essere denunciato. Ne ho già strapazzati fin troppi, di mocciosi. E fra dieci minuti devo essere alla stazione di servizio. Questo non è mica il mio unico lavoro, capo.»

Il preside annuì. «Mi faccia strada.»

Salem Brownmiller gli tirò una manica. «Signor Brimlow, posso venire anch’io? Sto scrivendo una storia sul primo giorno di scuola di una ragazza di prima media e questo potrebbe essere un intreccio secondario davvero interessante.»

Il preside la fissò severo. «Signorina Brownmiller, chiunque si trovi su quell’autobus è una persona, non un intreccio secondario.»

Per una volta, la ragazzina non ebbe la risposta pronta. «Non intendevo in quel senso, signor Brimlow» si giustificò dopo un momento, allargando ancora di più gli occhi.

Il preside si addolcì. «D’accordo. Però tieniti a distanza e non interferire.»

Il ragazzo era sul sedile in fondo. Aveva la testa leggermente inclinata e le mani strette sul sacchetto del pranzo che teneva sulle ginocchia. Le punte delle scarpe da ginnastica nuove di zecca erano rivolte l’una verso l’altra e non arrivavano a toccare il pavimento dello scuolabus.

Il preside si fermò a metà del corridoio. Il ragazzino aveva lo sguardo fisso su un punto a una trentina di centimetri da lui. Il signor Brimlow ricordò quella faccia… veniva dalla Brockhurst…

«Edward?» chiamò gentilmente. In lontananza sentì il suono della prima campanella, le grida degli studenti che passavano correndo accanto all’autobus. «Eddie Mott?»

Nessuna risposta.

«La Brockhurst? Ti occupavi dell’alzabandiera?»

La testa di Eddie Mott rimase immobile, però i suoi occhi si spostarono verso l’alto.

«Sono Brimlow, il tuo nuovo preside.» Si appollaiò sul bordo di un sedile. «Che ne dici di venire a sederti accanto a me?»

Nessuna reazione.

Il preside si spostò, avvicinandosi di un sedile. «Sai, Edward… i tuoi amici ti chiamano Eddie?» La sola risposta fu una scrollata di spalle. «Sai, Eddie, noi due abbiamo qualcosa in comune. Sai che cosa?»

Un’altra scrollata spalle.

«Be’, te lo dirò io. Questo è il tuo primo giorno alle medie, e il mio primo giorno come preside. Che ne pensi?»

La risposta arrivò dal posto di guida. «Penso che, se non vi date una mossa, questo sarà il mio ultimo giorno alla stazione di servizio. Laggiù c’è un meccanico che non può riparare le auto perché gli tocca vendere benzina perché io non sono là a manovrare la pompa.»

Il signor Brimlow si alzò e batté le mani. «Allora, Eddie, che mi dici? Sei pronto a scendere?»

Finalmente Eddie Mott parlò: «No.»

«Adesso basta» ringhiò l’autista. La portiera dello scuolabus si chiuse con un tonfo, il motore ruggì, e il veicolo partì rombando.

«Ehi!» esclamò il preside.

«Ci ha rapiti!» esclamò Salem Brownmiller, in tono non proprio preoccupato. Il bus schizzò fuori dal parcheggio della scuola e si fermò solo quando raggiunse la stazione di servizio della Texaco, sull’angolo fra la Grant e la Mudd.

Mentre saltava giù, l’autista agitò una mano verso i suoi involontari passeggeri. «Volete licenziarmi? Fate pure!»

Erano le 8.10, la prima ora del primo giorno di scuola era già iniziata da dieci minuti e alla Plumstead erano in parecchi a non sapere parecchie cose. Gli insegnanti di educazione fisica non sapevano dov’erano i palloni da calcio, l’insegnante di geografia non sapeva dove fossero le carte geografiche, i prof di matematica non sapevano dove cercare i gessetti. E nessuno aveva la minima idea di dove fosse il preside.

La signora Wilburham, la segretaria, era sull’orlo di una crisi di nervi. Continuava a ricevere chiamate sul suo interfono supermoderno, un vero capolavoro della tecnologia, ma non c’era verso di riuscire a capire come usarlo. Continuava a schiacciare interruttori sul pannello dal design raffinato, ma l’unico risultato che aveva ottenuto fino a quel momento era mettere in comunicazione la cucina con la sala-professori.

Per giunta, l’ufficio era sempre più affollato. Insegnanti, studenti… tutti avevano un problema da risolvere o qualcosa da chiederle, neanche fosse stata l’addetta alle informazioni. E neppure sapeva come usare il suo telefono d’avanguardia, sfavillante di pulsanti e lucine. Se ne fosse stata capace, avrebbe chiamato la polizia per denunciare la scomparsa del preside.

La prima ora volgeva alla fine, il professore di tedesco stava tentando di scoprire come funzionasse l’interfono, l’infermiera esaminava il telefono e l’intero dipartimento di storia aveva preso d’assalto il bancone chiedendo dove fossero finiti i loro libri… quando finalmente ecco arrivare il preside, fresco come una rosa, tallonato da un ragazzino e una ragazzina. E se la prendevano pure comoda: ridevano e chiacchieravano senza curarsi minimamente del fatto che l’intera scuola stesse crollando sulle spalle della segretaria.

«È in ritardo» sbottò la signora Wilburham, tralasciando di mascherare la propria irritazione.

Il preside lanciò ai suoi complici un’occhiata esageratamente sbigottita. «Siamo in ritardo?» Scrollò testa e spalle. «Ahimè» commentò «dovrà metterci in punizione.»

E scoppiarono a ridere tutti e tre. Poi il preside controllò l’orario delle lezioni dei due studenti, scrisse in fretta una giustificazione per entrambi e li congedò, non prima di avere stretto loro la mano e aver aggiunto, con una strizzatina d’occhio: «Ci vediamo a pranzo.»

La signora Wilburham si morse la lingua. Nel corso della sua vita aveva addestrato già cinque presidi. A quanto pareva, quest’ultimo le avrebbe dato del filo da torcere.

Però fu costretta ad ammettere che, una volta arrivato, le cose cominciarono a funzionare. Nel giro di cinque minuti gli insegnanti di educazione fisica ebbero i loro palloni, la professoressa di geografia la sua carta geografica, quelli di matematica i gessetti, e il dipartimento di storia i libri. Dopodiché il preside le spiegò come usare il telefono e si esibì sui tasti dell’interfono con la scioltezza di Mozart al pianoforte.

Mancavano appena cinque minuti alla fine della prima ora, quando il preside fece scattare l’interruttore contrassegnato con TUTTI GLI ALTOPARLANTI e indirizzò il suo primo annuncio all’intera scuola: «Buongiorno a tutti. Mi scuso per non avervi salutati durante l’appello, ma sono stato trattenuto da affari urgenti. Sia chiaro: questo non è il mio benvenuto ufficiale, che si terrà invece fra un paio di settimane, in occasione della nostra prima assemblea nel nuovo auditorium. Insegnanti e studenti si riuniranno al completo per conoscere la mascotte della scuola, nella cui scelta sarete coinvolti tutti.

«Nel frattempo, cerchiamo di conoscerci: voi e io e la Plumstead. Negli ultimi anni ogni tanto ci siamo sentiti un po’ abbandonati, giusto? Mai abbastanza banchi. Mai abbastanza aule. Turni per le lezioni. Non eravamo mai sicuri di quale fosse il nostro posto…

«Ma ora sono qui per dirvi che tutto questo appartiene al passato. Sono qui per dirvi che finalmente abbiamo un posto tutto per noi. Sono qui per dirvi: benvenuti a casa.»

Il preside abbassò l’interruttore, mise giù il microfono e si ritirò nel suo ufficio.

Qualcuno lo aspettava.