CAPITOLO OTTAVO
Eddie si fiondò attraverso la porta più vicina. Si ritrovò in un’aula ampia, spaziosa: l’aula di musica. Davanti a lui, diversi ragazzini soffiavano, pestavano e pizzicavano strumenti vari. C’era una porta aperta sulla parete alla sua destra e Eddie la varcò.
Dava in un ripostiglio. Era in penombra, ma la luce che filtrava dall’aula rivelò che si trattava di un deposito per gli strumenti musicali. Tonde bocche di ottone, simili a quelle di grossi pesci, si spalancavano minacciose come se da un momento all’altro potessero mettersi a strombazzare per tradire la sua presenza. Con la massima cautela, Eddie si fece strada fra strumenti e custodie fino a raggiungere l’angolo più buio, dietro una tuba. Si sedette per terra e si rannicchiò con le ginocchia fin sotto il mento.
Un paio di volte, durante l’ora, qualcuno aprì il ripostiglio per prendere uno strumento. Ma nessuno ebbe bisogno della tuba.
Nell’aula, l’insegnante continuava a ripetere: «Metti le labbra così… così… bene, ora… soffia.» Di solito seguiva un breve silenzio e poi un: «No… così!» e quello che sembrava lo strillo di un animale cui avessero pestato la coda.
C’erano anche altri suoni, ma nessuno prodotto da strumenti che Eddie avesse mai sentito: tonfi, schianti, trilli e squittii. Quella era musica?
Ma tutto questo faceva solo da sfondo alle emozioni che si rimescolavano dentro di lui. Non aveva più senso fingere di voler essere un tipo da scuola media. L’unica cosa che desiderava davvero era tornare alle elementari, alla Brockhurst. Voleva restare tutto il giorno nella stessa aula. Voleva avere stelle e tacchini incollati sui compiti di ortografia. Voleva mettere la sua spilla di Paperino. Voleva l’intervallo.
E ora, improvvisamente, voleva anche andare in bagno. Oh-oh. Strinse i denti. Si sforzò di pensare ad altro, come il baseball e l’alzabandiera tutte le mattine insieme a Roger Himes. Un tempo la vita era così semplice. Per andare in bagno bastava alzare la mano e un minuto dopo… sollievo! Adesso non osava muoversi fino al termine dell’ora. Non era d’aiuto che, appoggiato alla parete a neanche un metro da lui, si spalancasse la bocca invitante di un sassofono.
La campanella!
Eddie sfrecciò fuori dal ripostiglio e dall’aula di musica e in corridoio, girò l’angolo, scese di volata le scale e, una volta nell’atrio, si guardò disperatamente intorno, alla ricerca di una porta con la scritta MASCHI.
Là!
Entrò di slancio. Avvertì un suono, un suono familiare, che a volte lui stesso aveva fatto:
Crrrr-puh!
Fu colpito proprio nell’istante in cui decodificò il rumore di uno sputo. Lo beccò dritto sull’orecchio sinistro. Si bloccò, paralizzato.
«Ehi, quello non conta» esclamò qualcuno. «Il tappo si è messo in mezzo.»
«Altroché se conta» replicò qualcun altro. «Ora tocca a me… crrrr-puh!»
Un secondo sputo sfiorò il mento di Eddie.
Era finito nel bel mezzo di una battaglia di sputi.
«L’ho centrato nell’orecchio! Due punti per me!»
«Nessun punto! È solo un pivello di prima.»
«Stai barando!»
«Lo dici tu.»
«Così, eh?»
«Sì!»
«Crrrrr…»
«Crrrr…»
«PUH!»
«PUH!»
Eddie si rifugiò nel cubicolo più vicino e si chiuse a chiave. Ma non per fare pipì. La vescica gli era diventata un ghiacciolo. Ormai, la sua unica preoccupazione era uscire vivo da lì.
Strappò un po’ di carta igienica e si asciugò l’orecchio sinistro. Gli sarebbe piaciuto sapere di più a proposito dell’orecchio umano. Sapeva che da qualche parte c’era una cosa che si chiamava timpano. Se l’era sempre immaginato come un tamburo piccolissimo. Sarebbe riuscito a bloccare la saliva? O lo sputo lo avrebbe attraversato, affondando nelle catacombe del suo orecchio? Sarebbe diventato sordo? Gli vennero in mente scene spaventose… file di persone che, in attesa davanti alla cassa del supermercato, fissavano con smorfie insieme sbalordite e disgustate i titoli in prima pagina sui giornali:
RAGAZZO CON CERVELLO
IN POLTIGLIA!
LO SPUTO ASSASSINO!
DELITTO IN BAGNO!
I COLPEVOLI SONO
GLI STUDENTI DI TERZA!
Eddie inclinò la testa e si batté freneticamente una mano sulla tempia, tentando di rimuovere il resto dello sputo. Proprio allora, qualcuno colpì la porta del suo cubicolo con tanta forza da farla vibrare. Eddie abbassò lo sguardo e, tra il bordo inferiore della porta e il pavimento, vide una faccia sorridente e sottosopra. «Ehilà» salutò la faccia sorridente. Eddie alzò lo sguardo e scorse la punta di un paio di scarpe da ginnastica sul bordo superiore della porta. Uno degli sputatori si era appeso a testa in giù alla porta del suo cubicolo.
Eddie lo sentì inspirare a fondo, tirare su la saliva: «Crrrr…»
Riabbassò lo sguardo. Le labbra avevano smesso di sorridere e si erano arricciate. Per un istante lo fulminò il pensiero che una bocca pronta a sputare era uguale a una pronta a baciare, però era sicuro che a lui non fosse riservato nessun bacio.
«PUUH!»
Si portò il libro di lettere davanti alla faccia, appena in tempo per intercettare il missile. La campanella suonò, annunciando l’ora successiva. Faccia e piedi sparirono. Un muggito, un’urlo di Tarzan, un’ondata di chiasso quando la porta fu aperta sul corridoio, e infine il silenzio. Un silenzio misericordioso.
Eddie strappò un altro po’ di carta igienica e pulì il libro. Cominciava a temere di aver commesso un errore spaventoso. Forse quella mattina era salito sull’autobus sbagliato. (Così imparava a dire alla mamma di non accompagnarlo!) Forse era salito sull’autobus per l’inferno. E ora avrebbe saltato un’altra lezione.
«Sei tu, Eddie?»
S’irrigidì e trattenne il fiato. Chi lo chiamava?
«Eddie Mott?»
La voce sembrava venire da un altro cubicolo. Era una voce che aveva già sentito… ma dove? «Eddie.»
Eddie si chinò fino a sbirciare sotto il pannello laterale. A due cubicoli di distanza, vide una faccia sorridente, sottosopra, circondata da lunghi riccioli castani che strusciavano sul pavimento.
«Salem Brownmiller?»
«In carne e ossa.»
«Ma che… come…?»
«È una lunga storia. Prima però usciamo da qui.»
Lo fecero. A tutta velocità.