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Di solito gli eventi che fanno la storia sembrano infiniti, quando ci si vive dentro. Solo anni dopo gli elementi essenziali compaiono in prospettiva, condensati e riassunti in frasi facili per i libri di storia: «la Guerra dei Trent’anni», «la Restaurazione», «la Rivoluzione industriale». Nella vita vera, la maturazione della crisi che porta a un cambiamento nel governo, il corso dei negoziati e delle conferenze internazionali che modellano il destino di una generazione, gli alti e bassi delle battaglie che decidono il risultato di una guerra si svolgono in un folle ralenti, il significato decisivo di ciascuna fase viene spesso oscurato e sepolto sotto montagne di fogli di giornale, ipotesi, voci incontrollate, ripetizioni, articoli «ispirati», commenti pro e contro.

Non accadde così con l’offensiva tedesca contro l’Europa occidentale, quando fu finalmente scatenata. Il 9 maggio, un mese dopo che Chamberlain aveva scrutato nella sua sfera di cristallo offuscato per scoprire che Hitler aveva «perso il tram» e non era più capace di condurre una guerra d’aggressione, i tedeschi colpirono. L’offensiva avanzò a una tale velocità che nessun giornale riuscì a tenerle dietro; gli «speciali» erano già datati prima ancora di comparire per le strade. Una volta ancora, ci ritrovammo incollati alla radio. Ogni notiziario orario annunciava nuove tragedie e i programmi regolari erano disseminati di bollettini speciali dal fronte. Nel giro di poche ore i tedeschi avevano invaso l’Olanda, il cui tanto vantato sistema di dighe si era dimostrato un’arma difensiva efficace come il fossato del castello di sabbia di un bambino, e si diceva che il fronte francese fosse in pericolo mortale, forse già perduto.

Nella folle confusione di quei primi giorni dell’attacco, emerse un fatto solo: la pioggia di fuoco tedesca contro quei paesi mal preparati e disuniti aveva illuminato con un lampo enorme la vera natura del pericolo che l’Europa doveva affrontare, aveva messo sotto gli occhi di tutti e aveva permesso di capire la stupidità criminale degli anni di squallidi accordi e aggiustamenti alle ambizioni di Hitler. Nel giro di una notte, la politica dell’arrendevolezza fu sepolta per sempre. Il giorno dopo l’inizio dell’offensiva, Chamberlain annunciò le sue dimissioni e a formare il governo nazionale fu chiamato Churchill.

Per Esmond quello rappresentò la svolta, la fine di tutti i dubbi riguardo all’avanzare o meno della guerra, e il corso della politica inglese fu chiaro una volta per tutte. Per come la vedeva lui, l’avvento al potere di Churchill, accompagnato da un sostegno laburista senza precedenti, aveva messo il sigillo a questa politica. Le chiacchiere sul mancato funzionamento delle maschere antigas per i civili, i volantini mal concepiti da distribuire con l’aereo dietro le linee tedesche che avevano contraddistinto i primi cinque mesi dopo la dichiarazione delle ostilità, erano finalmente scomparsi.

Quando decise di tornare e combattere – decisione inevitabile dal momento in cui il corso della guerra stava diventando chiaro, in quei primi giorni dell’offensiva – Esmond fu mestamente conscio di ciò che stava per intraprendere. Non si sarebbe trattato di una replica della vicenda spagnola, di un’avventura eccitante nata da una scelta d’azione personale diretta contro gli oppressori. La macchina era stata messa in moto, una macchina in cui ogni ingranaggio era occupato da capoclasse di Wellington ormai cresciuti, dominata in ogni punto dai nemici, ex allievi dei college più prestigiosi, dei tempi di «Out of Bounds». Le classi superiori, anche le più hitleriane, si sarebbero schierate a fianco del re e dell’impero per svolgere il proprio dovere e senza dubbio si sarebbero ritrovate, in tutte le fasi della guerra, nel loro ruolo predestinato di leader. «Probabilmente mi affibbieranno come comandante uno dei tuoi orribili parenti» commentò cupo.

Non c’era dubbio che sarebbe stata una guerra ottusa e l’assenza dei comunisti, che annunciarono che avrebbero continuato a definirla «imperialista», l’avrebbe resa ancora più ottusa. Combattere quella guerra sarebbe stato un compito tremendo, oppresso dalla noia in ogni istante, ma tuttavia essenziale.

Come al solito, analizzando e dilungandosi su tutti gli aspetti più scoraggianti e spaventosi del conflitto, Esmond era pieno di ottimismo. Prevedeva che la necessaria rimozione delle macerie naziste avrebbe aperto la strada a enormi cambiamenti sociali ovunque, che nel corso della guerra sarebbe emerso ancora una volta lo «spirito di Madrid».

Era entusiasta all’idea di poter stabilire i dettagli della sua partecipazione. Se fosse caduto sotto la leva obbligatoria si sarebbe ritrovato alla mercé degli ufficiali, e non avrebbe potuto dire nulla sull’arma a cui fosse stato assegnato. In quella situazione, invece, era libero di restare il più possibile alla larga dai gruppi dell’esercito più legati alle tradizioni. Decise di partire immediatamente per il Canada e di arruolarsi volontario nell’aviazione.

Era dell’opinione che l’unica cosa davvero importante nella vita, ora, fosse la sconfitta delle forze dell’Asse. Gli orrori che affliggevano l’Europa rendevano impensabile non prendere parte alla guerra. Se avesse vinto Hitler, diceva – e, mentre passavano i giorni, le notizie dal fronte cominciavano a renderlo più verosimile – era improbabile che noi o i nostri amici saremmo sopravvissuti. Quindi, in vista di tutto ciò che sarebbe accaduto, non aveva senso soffermarsi sugli aspetti più squallidi e sgradevoli, sulle esercitazioni interminabili, l’insistenza sull’ordine, la sottomissione a ogni genere di routine inutile imposte da una legione di insignificanti tiranni appartenenti alla Classe degli Ufficiali, tutto ciò che si aspettava in una guerra in fondo gestita dai conservatori inglesi. Ma al di sopra di tutto questo c’erano i problemi in ballo; proprio gli stessi, secondo lui, della Spagna, solo su scala più grande, perché ora c’era in gioco la sopravvivenza dell’intera Europa.

Il suo atteggiamento era serio e pratico. Era preparato a sottomettersi di buon grado a qualunque cosa lo attendesse in Canada, a sopprimere ogni possibile tentazione di tormentare, stuzzicare o infastidire in ogni modo i suoi superiori nell’aviazione. Naturalmente per mantenere questa intenzione avrebbe dovuto rinunciare alle abitudini di una vita, ma era convinto che ci sarebbe riuscito.

Esmond era una persona complessa e ricca di sfaccettature, con una enorme capacità di cambiamento e quasi nessuna di autoanalisi. In quel periodo il suo cambiamento di umore fu tale che senza dubbio, se ci avesse riflettuto, l’avrebbe attribuito interamente ai problemi pratici, perché tali li considerava, della situazione esistente; proprio come avrebbe difeso tutte le sue abitudini passate sostenendo che erano state necessarie nelle particolari circostanze in cui si era trovato. Gli sarebbe parso del tutto logico che il suo punto di vista fosse ora influenzato da una sincera concentrazione sul problema di vincere la guerra, perché fondamentalmente era una persona che agiva a livello politico e questa qualità, latente quando non c’era bisogno di azione, ora era emersa in tutta la sua potenza.

Forse è inevitabile che, a coloro che entravano nella sua orbita, Esmond apparisse sotto molti aspetti diversi, perché la personalità di un uomo dai quindici ai vent’anni, anche se molto spiccata, è ancora in uno stato di flusso e sviluppo, e le diverse caratteristiche emergono a turno diventando preponderanti. Ho sempre pensato che la mia famiglia lo considerasse una specie di Pierino Porcospino («I capelli sulla testa/gli han formato una foresta»), un giovane ruffiano d’aspetto rozzo e dalle maniere ancora più rozze; anzi, una cugina una volta commentò: «Mi sembra così strano che tu e Esmond siate riusciti ad avere una bambina così dolce, ero sicura che vi sarebbe nato un piccolo mostro». Ai suoi amici coetanei, appariva come un personaggio piacevole ma formidabile, una compagnia sempre fantastica perché così prevedibilmente imprevedibile, a volte leader, ma più spesso troppo pericoloso per essere seguito. Per i Durr e gli altri che lo conobbero meglio dopo che fu entrato in aviazione, durante le sue frequenti visite negli Stati Uniti, sembrava incarnare tutto ciò che c’era di meglio, tutte le speranze della sua generazione: «Anche se in Esmond non c’è nulla di dolce» diceva sempre Virginia – perché lei amava la dolcezza, qualità molto coltivata dai suoi compaesani del Sud.

Non contava quale di queste caratteristiche contrastanti fosse più vicina alla realtà vera del carattere di Esmond, lui era tutto il mio mondo, il mio salvatore, il traduttore di tutti i miei sogni in realtà, l’affascinante compagno di tutta la mia vita adulta – già tre anni – e il centro di tutta la felicità.

Io e Esmond avremmo respinto l’idea che qualunque elemento della nostra condotta fosse anche solo lontanamente attribuibile all’ereditarietà o alla nostra educazione, perché, come la maggior parte della gente, ci consideravamo «fatti da noi», persone che agivano liberamente sotto ogni punto di vista, il prodotto delle nostre azioni e decisioni. Eppure il nostro comportamento durante gran parte della nostra vita insieme, la forte inclinazione alla delinquenza che trovavo così affascinante in Esmond e toccava in me una corda così sensibile, la sua intransigenza noncurante, perfino la sua suprema fiducia in se stesso – la sensazione di essere capace di attraversare intatto qualsiasi incendio – non sono difficili da far risalire a una genealogia e a un’educazione aristocratica inglese.

La pazienza, modestia, tolleranza e autodisciplina innata che il lavoratore mette nella sua lotta per una vita migliore, il rispetto istintivo per la dignità fondamentale di ogni altro essere umano – perfino il suo nemico – così spesso mostrati da negri o ebrei nella loro lotta per l’eguaglianza, ci mancavano completamente, o erano presenti soltanto in embrione.

L’intenso e autenticamente genuino amore di Esmond per il prossimo non somigliava certo a quello di San Francesco d’Assisi, e il suo odio per la guerra non era certo di stampo gandhiano. Il suo socialismo non era intorbidato da elevati sentimenti cristiani, perché come Boud sapeva odiare magnificamente, anche se, a differenza di lei, dirigeva il suo veleno verso i nemici dell’umanità, della pace e dell’amore.

I luoghi della nostra infanzia, percorsi da una ricca vena di follia, e nel caso di Esmond anche di brutalità, non potevano certo averci dotato dell’istinto per tendere alle vette dell’umanità e della cultura. Non c’è da stupirsi che gran parte della nostra ribellione contro il passato prendesse a volte una piega così fortemente personale. «Compagni, vi porto un messaggio dalla tomba!» sentimmo una volta dichiarare un oratore della domenica a Hyde Park. «Dalle tombe di Lenin, Marx e Nietzsche! La vedete, la roba, dietro quelle belle vetrine di Selfridge’s? Spaccatele, quelle vetrine! Prendete la roba!» Non scoprimmo mai cosa ci facesse Nietzsche in quella compagnia e anche se a quel discorso sconclusionato ci mettemmo a ridacchiare, provammo una certa simpatia per quel punto di vista. «Prendetevi la macchina! Mettetevi in tasca i sigari!» avremmo potuto parafrasarlo, ogni tanto, quando ci si presentarono le opportunità.

In altre generazioni la stessa educazione senza dubbio ha prodotto una certa quantità di gentiluomini abituati a cavalcare o a guidare auto, gentiluomini capaci di giocare con l’amore o con i soldi, e che spesso riuscivano, alla fine, a morire senza cavalli, senza auto, senza soldi e senza amore. Queste attività non presentavano alcuna attrattiva per la nostra generazione. Il dramma che catturava la nostra attenzione e quella di molti nostri coetanei era il dramma reale della politica, la visione di un mondo organizzato pieno di ricchezze e di una vita buona per tutti. Folle di persone provenienti dagli ambienti più disparati furono attirate dagli slogan più diversi, che si offrivano di aprire la strada verso una nuova vita.

Mentre quasi tutti, e credo che lo si possa dire, parteciparono alla lotta per i motivi più nobili, e avrebbero affrontato i sacrifici personali più ardui per la loro causa, alcuni, come noi, avevano un certo numero di conti da regolare lungo il percorso. Troppa sicurezza da bambini, abbinata a una disciplina eccessiva impostaci dall’alto con la forza o la minaccia della forza, aveva sviluppato in noi un alto grado di malvagità, una specie di estensione della cattiveria dei bambini. Non solo ci incitavamo l’un l’altro a infastidire e commettere oltraggi sempre più gravi nei confronti della classe sociale che avevamo abbandonato, ma ci compiaceva incrociare le armi con il mondo in generale; anzi, era il nostro stile di vita. Anni dopo, Philip Toynbee mi ricordò quella volta che avevamo rubato un mucchio di cappelli a cilindro dal guardaroba della cappella di Eton, e di quando avevamo portato via le tende di una ricca casa di campagna, in cui eravamo stati invitati, per abbellire le finestre di quella di Rotherhithe Street. «Non te lo ricordi?» continuava a ripetere. Quando gli confessai che rammentavo solo vagamente quegli episodi, lui commentò intristito: «Mi avevano fatto un’enorme impressione, ma immagino che per te e Esmond fosse normale amministrazione».

Eppure, alla fine della sua breve vita,1 Esmond aveva quasi completamente superato la violenza e la ribellione automatica contro l’autorità della sua adolescenza, e le aveva sostituite con una devozione più seria alla causa per lui più importante, e senza cui la vita non avrebbe più avuto senso: la sconfitta del fascismo. «Ormai i tuoi giorni da pirata sono finiti, Esmond» lo prendeva in giro Virginia Durr. «Mio Dio! Che aria rispettabile e ordinata hai, con quell’uniforme!»

Chiudere i nostri affari a Miami fu una questione piuttosto semplice, perché grazie a una di quelle coincidenze che così spesso sembravano scandire le nostre vite, la licenza di sei mesi stava per scadere e avevamo risparmiato quasi abbastanza per ripagare il debito di mille dollari. Meno semplice era imparare a vivere separati per un certo periodo di tempo – almeno per qualche mese, forse anche un anno, a seconda di quanto sarebbe durato il corso di addestramento dell’aviazione. L’indicibile tristezza di quella separazione incombeva minacciosa su entrambi, e ciascuno cercò senza successo di rassicurare l’altro che non sarebbe durata a lungo, e che presto saremmo stati di nuovo insieme in Inghilterra.

Durante il lungo viaggio in auto da Miami a Washington, che sarebbe stato il luogo di partenza di Esmond, discutemmo del futuro. Decidemmo di avere subito un bambino, che sarebbe stato per me un amico e un compagno per gli anni a venire. Alla fine della guerra avrebbe avuto l’età giusta – tre? quattro? cinque? – per apprezzare il nuovo ordine sociale postbellico che, ne eravamo convinti, sarebbe arrivato.

Intanto io avrei cercato lavoro a Washington e forse mi sarei iscritta a qualche corso – giornalismo? stenografia? – che mi sarebbe stato utile sia durante sia dopo la guerra. Progetti, progetti, progetti; Esmond era un progettista sopraffino e riuscì a mettere in queste discussioni tanta passione, a rendere tutto così divertente e costruttivo, che era impossibile avere una visione troppo cupa dei mesi futuri.

Mi incitò a cercare di capire se era possibile per me andare a vivere con i Durr, facendomi notare che l’atmosfera vivace di una grande famiglia e l’energia inesauribile di Virginia avrebbero ridotto di molto il pericolo che mi sentissi sola. L’idea mi piaceva moltissimo. Non solo i Durr erano al centro di tutto ciò che di affascinante accadeva a Washington, ma irradiavano calore e affetto – qualità che allora ci sembravano importanti. Vivere in quella famiglia sarebbe stata senza dubbio la sistemazione perfetta, qualcosa di completamente nuovo a cui puntare, un’avventura in sé.

Passammo a trovarli non appena arrivammo a Washington, per vedere se erano davvero così meravigliosi come li ricordavamo. Esmond mi fece notare che, nonostante Virginia avesse un po’ trascurato Sorellina la sera che eravamo stati a cena da loro, doveva avere una considerevole esperienza nell’accudire i bambini, esperienza che per me sarebbe stata preziosissima, quando fosse nato il nostro. In seguito Virginia mi ha raccontato spesso di avere avuto la sensazione che Esmond l’avesse scelta in anticipo a questo scopo. Ricordava di avere colto uno sguardo di approvazione nei suoi occhi, mentre si guardava intorno in casa loro. Aveva avuto l’impressione che non vi fosse nulla di casuale o improvvisato nel fatto che, quando poi lei mi aveva invitato a fermarmi per il fine settimana, io fossi rimasta per due anni e mezzo, aggiungendo nel frattempo un altro abitante alla sua già affollatissima casa.

A Washington ci furono migliaia di dettagli di cui occuparsi, informazioni da richiedere alla legazione canadese su come arruolarsi volontari, cartine da studiare per decidere come arrivare in Canada, l’auto da preparare per il viaggio. Esmond, tutto preoccupato che potessi soffrire inutilmente se alla sua partenza fossi rimasta inattiva, fece in modo che accompagnassi Virginia Durr a Chicago in auto, per il congresso dei democratici, che si sarebbe tenuto poco dopo la sua partenza. Il bambino, che già faceva sentire la sua ingombrante presenza, fu prontamente soprannominato The Donk, per via dell’asinello, donkey, simbolo dei democratici.

Alla fine, riuscimmo a fare tutto; non c’era ragione di rimandare ulteriormente. Lo strano bagaglio di Esmond fu ficcato nell’auto, un ultimo incendio al motore fu spento con il contenuto di uno shaker, tutti pronunciarono i loro goodbye e see you soon (not if I see you first!) e lui, al volante, si avviò lentamente lungo il vialetto dei Durr. Guardai l’auto svoltare l’angolo, con la vaga sensazione che un pezzo della mia vita fosse definitivamente finito, concluso e ormai dietro le spalle.

1. Fu ucciso in combattimento nel novembre del 1941, all’età di 23 anni.