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Crescere nella campagna inglese era un processo che sembrava interminabile. Un inverno glaciale lasciava il posto a una primavera coperta di brina, che a sua volta diventava un’estate frizzante – ma non accadeva assolutamente niente. La bellezza morbida e lirica del mutamento delle stagioni nelle Cotswolds ci lasciava del tutto indifferenti. «Ah, essere in Inghilterra/ora che è arrivato aprile!»1 o «Graziosi narcisi, piangiamo nel vedervi sciupati così presto...».2 Erano versi abbastanza evocativi, ma io non ero un’abile osservatrice del mese d’aprile o un’amante dei narcisi. Non mi sono mai sognata di accontentarmi di quello che piaceva ai miei simili. Conoscevo ben pochi bambini della mia età con cui confrontarmi e invidiavo i bambini della letteratura a cui succedevano sempre cose interessanti: «Oliver Twist era così fortunato a vivere in quell’affascinante orfanotrofio!».
Tuttavia ogni tanto c’erano dei diversivi. A volte andavamo a Londra e ci fermavamo a dormire nei nostri Mews a Rutland Gate per le spese natalizie (o rubare nei negozi, a seconda se eravamo accompagnate dalla tata o da Miss Bunting) e a volte, quando affittavamo Swinbrook per qualche mese, compivamo una migrazione su larga scala: tata, istitutrice, cameriere, cani, Enid, Miranda, colomba e tutte noi ci spostavamo a casa di mia madre alla periferia di High Wycombe. Ma quelle piccole escursioni servivano soltanto a enfatizzare la noia della vita a Swinbrook.
Era come se fossimo prigioniere di un angolo del mondo a prova di tempo, figlie adottate se non del silenzio, almeno di un tempo rallentato. Il paesaggio stesso, denso di storia, era pieno in maniera sconcertante di prove dell’immutabilità delle cose. La strada principale che portava a Oxford, costruita da Giulio Cesare duemila anni prima, era stata alterata soltanto da una superficie più moderna e comoda per gli automobilisti; monete romane, portate alla luce dagli aratri come se fossero state distrattamente lasciate cadere solo il giorno prima, erano lì pronte a farsi raccogliere. Come registro delle nostre lezioni tenevamo i Quaderni dei Secoli in cui, una pagina per secolo, annotavamo per data le battaglie principali, i regni di re e regine, le invenzioni scientifiche. Mentre giravi i fogli, la storia umana sembrava davvero tristemente corta. La Rivoluzione francese solo due pagine prima, e poi... eccoci al ventunesimo secolo, in cui tutti noi saremmo stati morti e sepolti – ma cosa sarebbe rimasto a testimonianza? «Molto poco, se siamo condannate a restare a Swinbrook per il resto della vita» meditavo, depressa.
Il grande e meraviglioso fine dell’infanzia – diventare Adulti – ci sembrava impossibilmente lontano. Non avevamo mete intermedie con cui riempire gli enormi e noiosi spazi vuoti; nessun esame di passaggio da un livello scolastico all’altro; nessuna «prima festa» da adolescenti verso cui tendere. Eri bambino, vivevi all’interno dei limiti e delle costrizioni dell’infanzia, dalla nascita fino a quando arrivavi a diciassette o diciotto anni, a seconda di dove cadeva il tuo compleanno rispetto alla stagione mondana londinese. La vita si frammentava in una serie infinita di dettagli sconnessi, i giorni segnati da lezioni, pasti e passeggiate, le settimane dalle visite occasionali di parenti o dei figli più grandi degli amici, i mesi e gli anni da eventi inattesi e imprevisti...
Spesso venivano a stare da noi zie e zii. Mio padre aveva otto fratelli e sorelle, e mia madre tre, quindi la rete delle nostre parentele si estendeva per tutta l’Inghilterra in lungo e in largo, dal confine con la Scozia a Londra. Molto occasionalmente una zia o uno zio si meritava l’allontanamento perpetuo dalla vista di mio padre e non bisognava nominarli mai più in sua presenza, a causa di qualche offesa, come aver divorziato o aver sposato uno straniero, ma si trattava di eccezioni.
Le zie appartenevano grosso modo a due categorie. Quelle sposate, madri di famiglie numerose, direttrici di enormi stuoli di servitù e inseguitrici di bambini. Donne indomabili dai lineamenti aspri e dai capelli di ferro, dagli abiti di tweed ruvido e dalla pelle screpolata, nelle giornate più fredde e ghiacciate ti stanavano nel tuo rifugio davanti al caminetto della Sala delle Chiusure. Armate di un grosso bastone da passeggio, ti sferravano qualche colpetto sulla schiena. «Leggi? In questa casa dall’aria viziata? Forza, forza, esci a fare una bella passeggiata, pigrona.» La tata suggeriva che fossero animate da forze che trascendevano il loro controllo – i tormenti fisici e psicologici della menopausa; quando una di noi commentava «Mi chiedo perché la zia X sia così spaventosamente odiosa», lei rispondeva in tono eloquente: «Per via della sua età, tesoro». (Secondo la tata l’età di una persona era alla radice di gran parte dei suoi problemi caratteriali: quando ci lamentavamo del comportamento di un cugino di tre anni o di una sorella adolescente, oppure di una nonna: «Devi tenere a mente, tesoro, che è per via della sua età»).
C’era anche la Zia Nubile, di tipo più dolce e fragile, che viveva sola a Londra in un piccolo appartamento con un’unica cameriera. Lo status della Zia Nubile era rimasto pressoché immutato sin dall’epoca vittoriana. Sopravviveva grazie a una rendita attentamente calcolata per fornire il minimo necessario, somma considerata sufficiente ma non eccessiva per le Figlie Non Sposate e per i Figli Minori dei nobili. Ma mentre i Figli Minori erano liberi di integrare le entrate arruolandosi nelle Forze Armate, nella Costruzione dell’Impero o perfino nel Commercio, quelle strade erano sbarrate per le Figlie Non Sposate, che con il passare del tempo sprofondavano nella condizione crepuscolare della ziità.
La Zia Nubile era spesso circondata da un’aura di leggenda, ancora più misteriosa perché quelle della sua generazione che, come mia madre, conoscevano i fatti non avrebbero mai rivelato tutta la verità. Gli indizi che ogni tanto Muv si lasciava sfuggire riuscivano soltanto a rendere il mistero più fitto e ancora più inquietante. «Ma perché non si è mai sposata?» La faccia di Muv si offuscava di disapprovazione per l’impertinenza di quella curiosità sulla vita privata di un’altra persona. «Be’, tesoro, non sono affari tuoi, ma se vuoi proprio saperlo le è successo qualcosa di orribile ai denti quand’era piccola.» «Che genere di cosa orribile?» «Credo che si chiami piorrea. Insomma, hanno cominciato a caderle e per qualche mese è riuscita a tenerli su usando dei pezzetti di pane, ma poi non ha funzionato... adesso vai, tanto non ti racconterò altro.» Che orrore! Non riuscii più a guardare quella zia senza immaginare una ragazzina dalla magnifica pettinatura edoardiana che, in preda al panico, nella sua cameretta, cercava di puntellarsi i denti devastati.
A un’altra zia era accaduta una disgrazia anche peggiore. Al suo primo ballo, un giovanotto le aveva pestato un piede. Era stata costretta a letto per qualche tempo e quand’era guarita era ormai troppo tardi per sposarsi. «Ma una persona non si può sposare anche senza denti e senza piede?» domandai a Muv, ma lei si limitò ad accigliarsi e cambiò argomento.
Lo zio Tommy, il fratello di mio padre, viveva a pochi chilometri da noi e quindi lo vedevamo più spesso degli altri. Era un capitano della marina in pensione con una faccia rosa acceso e i capelli color della neve, e mi sembrava la caricatura dello zio marinaio uscita da una favola. Un giorno uno dei giovanotti amici di Nancy fece l’errore di dire, a portata di orecchio di mio padre: «Tesoro, tuo zio è davvero l’uomo più attraente che abbia mai visto in vita mia», il che suscitò in Farve una furia tremenda e in noi bambine un attacco di ridarella.
Lo zio Tommy fungeva da magistrato nel tribunale di primo grado locale e in questo ruolo dispensava ai cittadini le sue personali idee di giustizia. Era particolarmente orgoglioso di avere condannato a tre mesi di prigione una donna che di notte aveva incidentalmente investito una vacca: «Sbattiamole in gattabuia! È l’unico modo per tenere queste maledette donne lontane dalla strada».
In quanto magistrato, tra i suoi compiti c’era quello di assistere alle impiccagioni nella contea dell’Oxfordshire. Qualcuno gli spiegò che i magistrati potevano evitare questa responsabilità pagando un testimone professionista. «Pagare qualcuno per andare a teatro?» ruggì lo zio Tommy. «Non ci penso nemmeno.»
Gli piaceva moltissimo elargire aneddoti sul suo passato marinaresco e sosteneva di avere assaggiato la carne umana, neonati neri serviti sotto forma di stufato nei porti del sud degli U.S.A. Trovavo le sue storie disgustose e per nulla divertenti. Una volta fui spedita a letto perché avevo espresso il desiderio che fosse catturato dai cannibali e bollito fino a diventare una gustosa zuppa.
I parenti di mia madre erano molto diversi dai Mitford. Suo fratello, lo zio Geoff, che veniva spesso a stare da noi a Swinbrook, era un ometto sparuto con pensierosi occhi azzurri e un carattere molto silenzioso. In confronto allo zio Tommy, era un intellettuale di altissimo livello e in effetti la sua penna al vetriolo era in contrasto con il suo atteggiamento mite. Trascorreva gran parte del giorno a comporre lettere al «Times» e ad altre pubblicazioni in cui descriveva la sua particolare teoria sullo sviluppo della storia inglese. Secondo lo zio Geoff, la grandezza dell’Inghilterra nel corso dei secoli era in rapporto diretto con l’utilizzo dei fertilizzanti naturali, o letame, per nutrire il terreno. La Morte Nera del 1348 era stata causata da una perdita graduale della fertilità dell’humus ai piedi degli alberi delle foreste. Due secoli dopo, l’ascesa degli elisabettiani si doveva all’uso generalizzato di letame di pecora.
Fortunatamente molte delle lettere dello zio Geoff al direttore sono state conservate in un volume stampato privatamente e intitolato Scritti di un ribelle. Di quella raccolta, una lettera sintetizza al meglio la sua visione del rapporto tra letame e libertà. Scriveva:
La collazione tra antichi documenti dimostra che la nostra grandezza aumenta e cala in rapporto alla fertilità del nostro suolo. E oggi, molti anni di terreno esaurito e chimicamente assassinato, e di cibo devitalizzato proveniente da quel terreno, hanno rammollito i nostri corpi e, quel che è peggio, il nostro carattere nazionale. È un fatto indiscutibile che il carattere sia in gran parte un prodotto del terreno. Molti anni di cibo assassinato proveniente da un terreno morente ci hanno reso troppo mansueti. Le sostanze chimiche hanno avuto la loro velenosa occasione. Adesso tocca ai vermi ricostituire la virilità d’Inghilterra. L’unico modo di riconquistare il nostro vigore, la nostra personalità, le nostre virtù perdute e, con loro, la libertà connaturata agli abitanti delle isole, è arare e fertilizzare la nostra terra per permettere a muffe, batteri e lombrichi di fabbricare quel suolo pieno di vita capace di nutrire i corpi e gli spiriti degli inglesi.
La legge che impone la pastorizzazione del latte in Inghilterra era uno dei bersagli preferiti dello zio Geoff. Amava le allitterazioni e l’aveva battezzata la «Legge del Latte Liquidato» e allo scopo preciso di organizzare una controffensiva aveva fondato la Lega per la Restaurazione della Libertà, che aveva sede nella sua casa di Londra. «Liberazione, non disinfezione!» era il suo orgoglioso slogan. Un’attività sussidiaria, e tuttavia importante, della Lega era l’auspicato ritorno alla «aringa intera e affumicata lentamente» e al pane fatto con «farina inglese macinata a pietra, lievito, latte, sale marino e zucchero di canna grezzo».
Ovunque andasse, lo zio Geoff si portava dietro pile di copie delle sue lettere al «Times» e allo «Spectator», insieme a istruzioni per la preparazione delle aringhe intere e affumicate lentamente e del pane fatto in casa. Mia madre offriva un sostegno accorato alle sue idee sulla salute, a cui ne aveva aggiunte di proprie. Sfidando la legge, si rifiutava di farci vaccinare («inoculare germi disgustosi nel Corpo Sano!»). Non solo ci era severamente proibito consumare cibo in scatola, ma il rispetto delle leggi alimentari mosaiche era incoraggiato con la stessa rigidità degli ebrei ortodossi. Maiale, molluschi e coniglio erano vietati nell’alimentazione dei bambini perché Mosè riteneva che questi cibi fossero inadatti al consumo da parte degli israeliti e perché mia madre aveva la teoria che gli ebrei non si ammalassero mai di cancro.
Non avevo un’età in cui si apprezza l’eccentricità, e quindi gli zii mi annoiavano e basta. E non amavo particolarmente l’idea di seguire le orme né delle zie sposate, né di quelle non sposate. La conversazione e lo stile di vita della generazione precedente mi riempivano di un’inquietudine sgradevole e di un potente impulso a fuggire verso altri lidi.
Desideravo ardentemente andare a scuola. La calda e luminosa visione di una vita lontana da casa con ragazzine della mia età, a imparare ogni genere di cose affascinanti, dominò i miei pensieri per anni. Ma su questo punto mia madre non si sarebbe lasciata convincere da nessuna argomentazione. E poi le aveva già sentite tutte; le sue figlie più grandi, fatta eccezione per Pam, l’avevano a turno implorata di lasciarle andare. Pam era l’unica delle quattro più grandi che aveva amato senza riserve la vita in casa, in campagna. Da bambina desiderava essere un cavallo e trascorreva lunghe ore a esercitarsi a scalciare in maniera realistica, a scrollare la testa e a nitrire.
«Da grande voglio andare all’università» insistei io.
«Be’, tesoro, quando sarai grande potrai fare tutto quello che vorrai.»
«Ma non si può andare all’università se non si passano gli esami, e come faccio a imparare abbastanza con una stupida vecchia istitutrice?»
«Questo è un modo di parlare molto maleducato. Se andassi a scuola probabilmente la odieresti. I bambini vogliono sempre fare qualcosa di diverso da quello che stanno facendo. L’infanzia è un periodo molto infelice; ricordo che da bambina ero sempre triste. Quando avrai diciott’anni starai meglio.»
Allora la vita era questo: una montagna alla Gustave Doré, ripida, oscura e ardua da scalare, piena di rovi e inciampi – ma dopo aver raggiunto il picco assolato dei diciotto, l’altro versante sarebbe stato facile, pieno di piaceri... suonava bene, ma avrei mai raggiunto la vetta?
Alla fine degli anni Venti accaddero però due cose. È vero, si svolsero nel mondo luminoso e alieno degli Adulti, e noi dell’aula scolastica fummo mere spettatrici, trascinate via controvoglia o scacciate dal soggiorno nei momenti più eccitanti. Tuttavia non ne restammo immuni. Quegli eventi, che almeno ruppero temporaneamente la monotonia e l’immutabilità, furono la pubblicazione del primo romanzo di Nancy e il matrimonio di Diana con Bryan Guinness.
Per mesi Nancy era rimasta seduta, incapace di soffocare le risatine, davanti al caminetto del soggiorno, gli occhi curiosamente triangolari che mandavano lampi verdi e divertiti, e la penna sottile che correva lungo le righe di un quaderno scolastico per bambini. A volte ce ne leggeva qualche pezzetto a voce alta. «Non puoi assolutamente pubblicare questa roba e firmarla con il tuo nome» ripeteva mia madre, scandalizzata, perché non solo le pagine di Highland Fling3 erano popolate da zie, zii e amici di famiglia a malapena camuffati, ma vi compariva anche Farve, esagerato e stupendamente ribattezzato «generale Murgatroyd». Ma Nancy lo pubblicò a nome suo e la Burford Lending Library le dedicò perfino una vetrina speciale, con l’insegna tracciata a mano: «Nancy Mitford, autrice locale».
Il generale era descritto come un fervente organizzatore di battute di caccia, un uomo dal temperamento violento, terrore delle cameriere e dei guardacaccia, che passava buona parte del suo tempo a inveire contro i crucchi e a ringhiare in direzione di svariati giovanotti languidi ed estetizzanti che, in camicia di seta pastello, continuavano a sbucare all’improvviso nei momenti più inaspettati. Il tipico gergo di mio padre – «maledetta fogna!» «fa schifo come l’inferno!» – la sua avversione per qualunque persona o cosa sapesse di letterario o artistico, erano ispirati alla realtà.
Quindi Farve diventò – più o meno nel giro di un giorno – un personaggio più letterario che reale, una figura quasi leggendaria, perfino per noi. Negli anni seguenti Nancy continuò a catturarlo e imprigionarlo tra le pagine dei suoi romanzi, a volte nei panni del generale Murgatroyd, e più avanti in quelli del terrificante zio Matthew di Inseguendo l’amore. Ci riuscì così bene che perfino l’autore del necrologio sul «Times», descrivendo mio padre poco dopo la sua morte avvenuta nel 1958, tradì una certa confusione: non si capiva se stava scrivendo dell’onorevole David Bertram Ogilvy Freeman-Mitford o dell’«esplosivo e schietto zio Matthew...».
Nonostante la breve lite che scoppiò quando Nancy insistette per pubblicare Highland Fling firmandolo con il suo nome, divenne subito chiaro che i miei genitori, e perfino le zie e gli zii, erano in realtà abbastanza orgogliosi di avere uno scrittore in famiglia. Citarono un precedente, una certa Miss Mitford – Mary, autrice di un romanzo vittoriano minore sullo stile di Cranford. Osservarono che un talento di quel genere di solito salta una generazione e nominarono le Memorie di Lord Redesdale, la storia mostruosamente noiosa della vita del nonno, in due volumi.
Dal canto suo a Farve piaceva essere il generale Murgatroyd. Adesso che, per così dire, era stato classificato, i suoi aspetti murgatroydeschi cominciarono a perdere un po’ del loro impatto e assunsero perfino alcune qualità del materiale grezzo perfetto per la narrativa. In realtà, quando uscii dalla nursery le antiche e terrificanti fiamme si erano ormai acquietate e Farve era molto più morbido di quando i miei fratelli stavano crescendo.
Il calvario infantile di Nancy, Pam, Tom e Diana era già assurto a leggenda. C’era stata quella volta orribile in cui avevano imprudentemente invitato un importante scienziato tedesco a prendere il tè e Farve era stato colto da una furia tale all’idea di avere un «maledetto crucco» in casa che erano stati costretti a telefonare al professore e a spiegargli che sarebbe stato meglio che non fosse venuto. «Nessuno aprì bocca per una settimana»: così si concludeva la storia. E perfino io ricordavo confusamente la cappa di bisbigli che pesava sulla casa, i pasti consumati giorno dopo giorno in un silenzio lacrimoso quando Nancy, a vent’anni, si era tagliata i capelli alla maschietta. Nancy che si metteva il rossetto, Nancy che suonava l’ukulele, tanto di moda all’epoca, Nancy che portava i pantaloni, Nancy che fumava una sigaretta – lei aveva aperto la strada a tutti noi, ma solo pagando il prezzo terribile di violente scenate seguite da silenzi e lacrime.
Agli estranei toccava anche di peggio. Quando Nancy aveva due anni, fu chiamato un medico a curarle un piede colpito da una brutta infezione. Il medico decise che andava inciso e anestetizzò Nancy con un fazzoletto impregnato di cloroformio. Farve, che durante le operazioni assisteva sempre – sovrintendeva persino alla nascita di tutti i suoi figli – notò che apparentemente la bambina aveva smesso di respirare. «Allora cos’hai fatto?» domandavamo a quel punto della storia. «Ho acchiappato il dottore per il collo e l’ho scrollato come un ratto.» Nancy sopravvisse, ma non riuscimmo mai a sapere se lo sventurato medico si era ripreso.
Ora che Farve era diventato il generale Murgatroyd entrammo tutti in quello spirito. Sviluppai la teoria che fosse un balzo all’indietro verso uno stato primitivo dell’umanità, l’anello mancante tra le scimmie e l’Homo sapiens. Mia madre mi privò della paghetta perché l’avevo chiamato «il Vecchio Subumano», ma a lui in realtà non importava molto.
«Forza, voglio prenderti le misure del cranio per vedere se corrispondono a quelle dell’Uomo di Piltdown.»
«Be’, va bene... ma che ne farai delle cifre?»
«Le donerò alla Scienza, naturalmente. Come preferisci essere catalogato? Vuoi passare alla storia come l’Uomo di Swinbrook, l’Uomo di Rutland Gate o l’Uomo di High Wycombe?»
Anche i giovani esteti languidi di Highland Fling spuntavano frequentemente nella vita reale, relegati da Nancy al ruolo di visitatori di Swinbrook. Quasi tutti ottenevano l’effetto di provocare in Farve una rabbia murgatroydesca; per uno o due però sviluppò una simpatia inspiegabile. Quale fosse il destino peggiore – essere detestati o amati – era impossibile a dirsi, perché restare nelle sue grazie richiedeva sacrifici spaventosi come partecipare a battute di caccia nei weekend e scendere a colazione alle otto in punto.
«Mark, abbiamo cervella per colazione!» ruggì Farve tutto affabile a uno dei suoi favoriti, capricciosamente prescelto, che alle otto spaccate, per mantenere il proprio status, era entrato con andatura incerta in sala da pranzo, sbattuto e curvo. La colazione tipica dell’esteta era costituita da un cachet Faivre, che a quell’epoca era la cosa più vicina a un tranquillante, e da un bicchiere di succo d’arancia o un tè cinese sorbiti verso mezzogiorno.
Il povero Mark diventò di un delicato color penicillina, si scusò e lo si udì vomitare violentemente nel più vicino W.C. Anche questo episodio entrò a far parte, a sua volta, della mitologia di Farve. Per celebrarlo io e Debo componemmo immediatamente una canzone Hon, una specie di tema per Mark, da cantare ogni volta che veniva a Swinbrook, e scandita dal lugubre ritornello: «Cervella a colazione, Mark! Cervella a colazione, Mark! Oh, fogna maledetta! Oh, fogna maledetta!».
Il bizzarro campo di battaglia scelto dalla generazione di Nancy fu quello degli Atleti contro gli Esteti – a volte definito gli Arti contro le Arti – e i giornali erano pieni di descrizioni degli scontri campali tra i due fronti opposti, che si svolgevano all’università di Oxford.
Naturalmente dal punto di vista ideologico gli Atleti erano i discendenti diretti degli antichi patrioti, vincitori di guerre sui campi da gioco di Eton, uomini dalle Cravatte Vecchio Stile accompagnati da donne fanatiche dell’ippica.
Gli Esteti sostenevano di avere antenati ben più illustri... i romantici, l’Inghilterra di Oscar Wilde, la Francia di Baudelaire e Verlaine. Quasi tutti gli Esteti erano vagamente pro-socialisti, pro-pacifisti e (orrore!) contrari alle armi, alla caccia e alla pesca e definivano crudeli e sadici quegli sport sanguinari e venerati. Capovolgevano allegramente la vecchia e semplice gerarchia casalinga – Inghilterra, Patria e Gloria, il Diritto Divino dei Re (e quindi della Camera dei Lord), la superiorità assiomatica degli inglesi sulle altre razze; affibbiavano alla guerra dei Boeri, in cui Farve era stato «ferito tre volte» secondo l’almanacco nobiliare di Debrett, il nomignolo sacrilego di «guerra dei Boriosi»; parafrasavano il verso di Blake «la terra verde e gradevole d’Inghilterra» in «la terra verde e sgradevole d’Inghilterra».
Nei fine settimana sciamavano da Oxford o Londra in allegre orde ed erano accolti dalla ferma disapprovazione di mia madre e dalle occhiate furiose di mio padre.
Boud, Debo e io venivamo tenute attentamente lontane dagli amici di Nancy, perché mia madre temeva il loro influsso negativo. «Che masnada!» esclamava sempre quando Nancy esponeva alcune delle loro idee più oltraggiose. Parlavano nel gergo dell’epoca: «Tesoro, troppo divino, troppo incredibilmente stravolgente, che vergognosissima vergogna!» Affascinata, gironzolavo intorno al soggiorno più che potevo, finché non notavano la mia presenza e mi rispedivano di nuovo in aula. A volte, se ero fortunata, Nancy e Diana mi facevano entrare perché mi «esibissi» in una traduzione in boudledidge di qualche poeta minore inglese, o per una partita di «Ure, Are, Ure, Cominciare». Un momento di gloria fu quando Evelyn Waugh, scrittore e una delle principali «fogne» di Swinbrook, mi promise che avrebbe eternato il ricordo della mia pecora Miranda sostituendo la banale esclamazione «divino», tipica del loro giro, con la parola «ovile» nel suo romanzo successivo, Corpi vili. Restai sui carboni ardenti finché il libro non fu stampato, perché avevo paura che si rimangiasse la promessa. Ma eccola lì, nero su bianco: «Abbandonò per il momento l’ovile di Hertford Street...». Con l’aiuto di Miss Bunting rubai una copia in più in una libreria di Oxford e la appesi orgogliosa a un albero nel recinto di Miranda.
Dal momento che non avevo un metro di paragone educativo per giudicare idee e intelligenze, ed ero isolata in un mondo in cui le opinioni di Muv e Farve erano le uniche che avevo la possibilità di ascoltare – anzi, le uniche che credevo esistessero – le esternazioni irriverenti di queste persone fascinose e stimolanti mi fecero una profondissima impressione. Sgraffignavo libri «proibiti» di cui li avevo sentiti discutere – Aldous Huxley, D.H. Lawrence, André Gide – e li leggevo di nascosto sotto le coperte alla luce della torcia. Iniziarono ad aprirmisi orizzonti bizzarri e impensabili, decine di variazioni possibili di una prospettiva non-Swinbrook.
Nancy diventò un’appassionata delle nuove mode artistiche. Demmo per scontato che una ragione parziale del suo interesse fosse «irritare il Vecchio Subumano» – e in effetti funzionò egregiamente, perché lui si irritò. Le sculture di Jacob Epstein («maledetto crucco!» come lo definiva imprecisamente Farve) e le opere di Picasso («schifosa fogna!») provocavano a fasi alterne, al piano di sotto, grandiose litigate di cui in aula ci arrivavano soltanto piccole ripercussioni. Il culmine si toccò quando Nancy portò a casa una stampa di Resurrezione di Stanley Spencer. Quell’opera, che ritraeva personaggi stranamente allungati in abiti moderni che si sollevavano dalle proprie tombe, provocò in Farve uno dei suoi classici attacchi di rabbia, che scosse la casa dal tetto alle fondamenta.
La sua furia raddoppiò quando Nancy annunciò la sua intenzione di trasferirsi a Londra e studiare arte alla Slade School. Come al solito, delle liti titaniche che si svolgevano al piano di sotto ci arrivò soltanto l’eco. Scendevamo per i pasti, consumati in un silenzio di tomba, e tornavamo in aula per sentire ogni tanto il tuono allettante e soffocato della voce di mio padre. Probabilmente Muv intercesse per lei, perché alla fine Nancy la ebbe vinta e andò a vivere in una camera arredata in affitto a Kensington. Osservai la sua impresa con immenso interesse e ne restai terribilmente delusa quando tornò a casa dopo circa un mese.
«Come hai potuto! Se fossi riuscita a scappare in una camera d’affitto non sarei mai tornata indietro.»
«Oh tesoro, ma avresti dovuto vederla. Dopo circa una settimana ero circondata di biancheria. Dovevo letteralmente nuotarci in mezzo. Non avevo nessuno che me la piegava.»
«Be’, trovo che tu sia molto poco determinata. Io non avrei mai ceduto per colpa di un po’ di biancheria.»
Confusamente, attraverso gli occhi dell’infanzia, coglievo immagini di un altro mondo; un mondo di affittacamere londinesi, studenti d’arte, scrittori... un mondo di idee nuove e differenti... un mondo da cui Swinbrook mi sarebbe sembrata antiquata come un avamposto feudale. Mi balenò nella testa un’idea meravigliosa – una di quelle idee da coltivare, rifinire e perfezionare fino a farla diventare realtà. Decisi di scappare di casa. Non allora – sapevo che una dodicenne aveva pochissime possibilità di sopravvivere a lungo senza essere scoperta e restituita alla famiglia – ma un giorno, dopo aver elaborato un piano soddisfacente e avere risparmiato abbastanza soldi da mantenermi per un poco. Scrissi immediatamente alla Drummond’s Bank; in un paio di giorni ricevetti una risposta.
«Gentile signorina, la preghiamo rispettosamente di accettare questa ricevuta del versamento di dieci scellini come primo deposito sul suo Conto Fuga da Casa. Accludiamo il numero di Libretto... Gentile signorina, le porgiamo i nostri più distinti saluti.»
Trionfante mostrai la lettera a tutta la famiglia. «Guardate! E Drummond mi porge i suoi più distinti saluti! Favoloso!»
Muv si limitò a commentare, vaga: «Be’, tesoro, dovrai risparmiare un bel po’, non hai idea di quanto sia costoso vivere a Londra, di questi tempi». Ma aveva ben altro per la mente: Diana si era appena fidanzata e si sarebbe presto sposata.