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A Swinbrook la famiglia si era considerevolmente ridimensionata. Nancy abitava a Londra, Tom era all’estero, Pam era in giro a fare qualcosa in campagna, Boud ora viveva quasi costantemente in Germania. Io e Debo eravamo le ultime rimaste a casa: lei frequentava ancora le lezioni nell’aula, io stavo seduta in soggiorno ad aspettare il pasto successivo.
Durante quell’inverno gelido e interminabile uscirono due libri che fissavano sulla pagina tutte le idee che avevo sviluppato negli ultimi due o tre anni. Erano The Brown Book of the Hitler Terror (Il libro bruno del terrorismo hitleriano) e Out of Bounds: l’educazione di Giles e Esmond Romilly.
Il Brown Book descriveva e documentava le rivoltanti crudeltà allora note a cui erano sottoposti gli ebrei in Germania. Conteneva fotografie delle vittime livide e sanguinanti del sadismo nazista e riferiva nei dettagli più orribili come funzionavano nella pratica le nuove leggi antisemite. I miei genitori davano per scontato che il libro fosse di matrice comunista e che comunque fossero stati gli ebrei stessi ad attirarsi tutti quei guai, evidentemente per il solo fatto di esistere. Boud e Diana, nelle loro rare visite a Swinbrook, consideravano quelle atrocità necessarie alla sopravvivenza del regime nazista e le giustificavano. Tirarono fuori un’enorme foto autografa di uno dei loro nuovi amici – Julius Streicher, gauleiter di Franconia, e uno dei più pazzi di quel gruppo di pazzi.
«Porta fuori di qui quel maledetto boia schifoso» pretesi furiosa.
«Ma tesoro!» esclamò Diana in tono strascicato, spalancando gli enormi occhi azzurri. «Streicher è un cagnolino!»
Come al solito Nancy faceva dell’ironia; finse di avere scoperto una bis-bisnonna Fish nascosta da qualche parte nel nostro albero genealogico e con grande rabbia di Boud e Diana minacciò di mettere in giro la voce che eravamo per un sedicesimo ebrei. Io non trovavo più divertenti le loro schermaglie. Quando venivano a stare da noi si svolgevano spesso brutte scenate, in cui mi sentivo in minoranza schiacciante e di solito finivo per salire in camera mia a piangere tutta sola.
Ripensai più volte a un’opportunità; potevo fingere di essermi improvvisamente convertita al fascismo, accompagnare Boud in Germania e incontrare il Führer di persona. Durante le presentazioni avrei estratto una pistola e l’avrei ammazzato. Naturalmente sarei stata subito uccisa dalle sue guardie; ma non ne sarebbe valsa la pena? La cosa più spaventosa sarebbe stata mancarlo e morire nel tentativo. Sfortunatamente la mia volontà di vivere era troppo forte per spingermi a mettere in atto quel piano, che era davvero realizzabile e avrebbe potuto cambiare il corso della storia. Anni dopo, quando l’orribile storia di Hitler e del suo regime fu completamente rivelata, lasciando l’Europa mezza distrutta, spesso rimpiansi amaramente la mia mancanza di coraggio.
Forse era inevitabile che la pubblicazione, in quel periodo, di Out of Bounds mi facesse una profonda impressione. Il libro causò grandi polemiche sui giornali e ricevette recensioni quasi completamente positive, che lessi avidamente e ritagliai. Anche il «Daily Mail», che aveva inventato la storia della Minaccia Rossa, ammise che Out of Bounds «è la dimostrazione che questi due giovani iconoclasti non mancano né di cervello né di abilità letteraria». Il «Times Literary Supplement» ne lodò la «semplicità dello stile e la precisione del linguaggio»; l’«Observer» ne commentò la «considerevole intelligenza, la modestia e la tolleranza, una serie di ritratti chiari, divertenti e vivaci di scuole, studenti, insegnanti e genitori». Il «New Statesman» e lo «Spectator» gli riservarono un’approvazione incondizionata. Da un giorno all’altro, il libro divenne un piccolo best seller.
Per la prima volta lessi la vera storia – tra le pagine di un libro, non nello stile insoddisfacente e frammentario di giornali e pettegolezzi – della ribellione dei fratelli Romilly contro la scuola, la famiglia e le tradizioni. Ed era una storia davvero affascinante.
Out of Bounds era diviso in due parti. La prima, scritta da Giles, iniziava con le sue esperienze alla scuola preparatoria di Seacliffe, dove entrambi avevano trascorso l’infanzia. In maniera molto divertente, descriveva la routine quotidiana di quell’istituto arcaico, i costumi e le tradizioni, i capricci di insegnanti e studenti. Comprensibilmente, i metodi punitivi, ancora dolorosamente freschi nella mente del giovane autore, erano molto vividi e dettagliati. Sembrava una storia scritta da Dickens. Per esempio, c’era un insegnante il cui peculiare metodo di ribadire la disciplina consisteva nel «tirarti le orecchie molto forte e pizzicarti il naso con un enorme compasso di legno». Un altro insegnante «se vedeva un ragazzo fare confusione lo sollevava per la collottola e lo lasciava dondolare lentamente; faceva un male terribile». Un altro invece «spingeva indietro la sedia, afferrava il ragazzo per lo stomaco e se lo metteva sulle ginocchia; poi gli rimboccava i calzoncini e gli dava parecchie energiche sculacciate sulle cosce nude».
La parte di Out of Bounds scritta da Esmond mi affascinò soprattutto perché rivelava moltissimi paralleli quasi esatti con la mia vita. Come me, da piccolo era stato un entusiasta sostenitore del partito conservatore; «Non solo sono stato un tory» scriveva, «ma anche qualcosa di molto più romantico: un giacobita. Durante una lezione di geografia scrissi su un pezzo di carta che re Giorgio era un impostore, perché il principe Rupprecht di Bavaria aveva più diritto di lui al trono. Quando annotavo i nomi dei re e delle regine su una tavola genealogica, invece di Vecchio Pretendente e Giovane Pretendente scrivevo Giacomo III e Carlo III». Quando a Seacliffe gli fu richiesto di denigrare i russi in un dibattito intitolato «Il piano quinquennale come minaccia alla civiltà», Esmond aveva scritto a suo zio Winston Churchill perché lo aiutasse con i fatti e le cifre: «Churchill aveva risposto che era troppo impegnato per darmi informazioni, ma che bisognava sottolineare che i russi avevano assassinato milioni di donne e bambini». Era una visione della rivoluzione russa molto simile a quella che avevo io alla sua età!
A Seacliffe, Esmond aveva imparato un’analisi dei tre principali partiti politici d’Inghilterra più o meno come quella che avevamo imparato noi a Swinbrook da zio Geoff: «Poco prima delle elezioni generali del 1929, Lancaster fece un breve discorso sui problemi tra i tre partiti politici. I conservatori, disse, erano per lasciare le cose come stavano e mettere al primo posto la Gran Bretagna. I liberali erano per costruire strade nuove e i socialisti erano per portare via i soldi a tutti e mandare in rovina il paese».
La brusca conversione di Esmond alle idee comuniste si era verificata in modo molto simile alla mia. Scriveva: «Provavo una violenta antipatia nei confronti del conservatorismo, come lo vedevo nella mia famiglia. Odiavo il militarismo, perché significava gli Officers’ Training Corps, e avevo letto parecchia letteratura pacifista. Come molte persone, confondevo pacifismo e comunismo. Nel 1933, mentre mi trovavo a Londra all’inizio delle vacanze di Pasqua, prima di andare a Dieppe, un ambulante mi vendette una copia del “Daily Worker”. Ero eccitato e interessato e diedi l’ordine di spedirmene una copia ogni giorno, mentre mi trovavo in Francia. Non imparai molto sul comunismo, ma imparai che esisteva anche un altro mondo, diverso da quello in cui vivevo». Un altro mondo! E adesso che Esmond vi si era lanciato lo invidiavo di tutto cuore.
C’erano anche altri paralleli. Mentre mi prendevano in giro dandomi della Comunista da Ballo, anche Giles e Esmond erano oggetto di stoccate simili: «Quando Giles veniva considerato un “rosso” mio zio [Winston Churchill] faceva una battuta che lui trovava divertentissima; all’epoca io ero ancora un fervente giacobita. “La rosa rossa e la rosa bianca”, ci chiamava».
La tata e mia madre mi avevano spesso fatto notare che se fossi stata davvero una comunista avrei dovuto rispettare di più i membri della classe lavoratrice intorno a me: «Piccola D., credevo che una comunista fosse un pochino più ordinata e non costringesse la servitù a del lavoro extra» diceva Muv. Esmond aveva lo stesso problema con i suoi genitori: «Bisogna tenere presente che per tutto questo tempo avevo vissuto in un mondo convenzionale e conservatore. Il conflitto tra questo mondo e quello che ruotava intorno ai miei amici comunisti era destinato a scoppiare, per uno studente che si interessava di politica a sinistra. I miei genitori avevano colto l’assurdità della mia posizione, ma non cercavano di aiutarmi. Anzi, di solito continuavano a sottolineare la contraddizione. Se ero comunista, dicevano, avrei dovuto lavorare con i miei compagni. All’inizio mi suggerirono di svolgere qualche lavoro casalingo e mi proposero di fare i letti e lucidare scarpe e stivali».
Leggendo Out of Bounds sentivo quasi di conoscere Esmond. Certo, era un ribelle – l’«autentico flagello» dei giorni di Chartwell era cresciuto; ma era anche molto di più. Ne emergeva una persona dalle risorse illimitate, con quel pizzico in più di umorismo che nasce dall’assoluta sicurezza in tutte le situazioni, impavida, indistruttibile...
In Out of Bounds c’era una fotografia dei fratelli Romilly che contemplavo per ore. Avevo visto qualche immagine di Esmond sui giornali, ma si trattava soprattutto di scatti «istantanei» e insoddisfacenti, che rivelavano ben poco della sua personalità. Sul frontespizio di Out of Bounds Giles era seduto e guardava il mondo con un’espressione lievemente sardonica intorno agli occhi. Esmond era in piedi, un po’ severo, le sopracciglia folte appena contratte, la fronte in parte oscurata da una zazzera, i lineamenti arrotondati leggermente familiari a causa della somiglianza con i figli di Churchill.
Alla copia di Out of Bounds fu assegnato un posto d’onore tra i miei libri comunisti e io ripresi il mio muso e il mio malumore.