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Un giorno da Jane Engel’s mi chiamarono al telefono. Una voce profonda con un forte accento dell’Inghilterra del nord mi chiese: «È la signora Romilly?». La persona al telefono mi spiegò che gradiva sempre incontrare gli inglesi appena arrivati a New York; aveva visto il nostro nome sull’elenco dei passeggeri, aveva chiamato lo Shelton ed era stato indirizzata al mio luogo di lavoro. In quel momento mi pentii di avere dato all’albergo il numero del negozio. Mi sembrava un’enorme seccatura. «Adesso non posso parlare, sto lavorando» risposi irritata. L’uomo fu piuttosto insistente, così alla fine gli diedi il nostro numero di casa, tanto per liberarmene. Quando arrivai a casa avevo dimenticato l’episodio.
Esmond stava camminando avanti e indietro nel nostro appartamento in un grande stato di esaltazione.
«L’uomo che ha telefonato – è assolutamente affascinante! Devo raccontarti tutto, in fretta, perché tornerà qui presto. Stavolta credo che abbiamo trovato qualcosa di buono.»
L’uomo aveva detto a Esmond di chiamarsi Donahue, fratello di Steve Donahue, il celeberrimo fantino. Era venuto a casa nostra quel pomeriggio e aveva raccontato a Esmond la storia della sua vita.
Il signor Donahue era arrivato in America molti anni prima, da giovane. In poco tempo aveva perso più di ottantamila dollari alle corse. Ne era uscito quasi con il cuore spezzato. Era tornato nel Lancashire e suo zio gli aveva detto: «Torna indietro e battili al loro stesso sporco gioco!». Lui l’aveva preso in parola. Ora scommetteva solo alle corse piccole, dove pagava i fantini cento dollari l’uno per lasciare la vittoria al cavallo su cui lui puntava. In questo modo aveva ammassato un’enorme fortuna e aveva viaggiato per tutti gli Stati Uniti. Conosceva gente in Florida e a Hollywood. Poteva garantirci di procurarci la foto autografata di qualsiasi stella del cinema di nostro gradimento.
«Ma la cosa davvero meravigliosa è che è disposto a farci entrare nell’affare delle scommesse» disse Esmond. «Naturalmente dal suo punto di vista è molto rischioso, perché se entrano troppe persone le puntate scendono di brutto e rischiamo di rovinare tutto.»
«Mi sa che è un truffatore. Non credo che dovremo avere nulla a che fare con lui» risposi, dubbiosa.
«Ma certo che lo è! Il bello sta tutto qui. È per questo che è un affare sicuro. Mi ha detto che dopo aver perso gli ottantamila ha deciso di “togliere gli spiccioli di tasca a un morto”. Lui parla così. Senti cos’ho pensato. Probabilmente crede che abbiamo un sacco di soldi e sta meditando di derubarci. Quindi ci lascerà fare un paio di piccole vincite, tanto perché ci fidiamo. Poi, quando ci avrà in pugno, per così dire, farà la sua mossa.»
«Sì, ma se facciamo un paio di piccole vincite si guadagnerà davvero la nostra fiducia. E a quel punto?»
«No, non accadrà». Esmond stava diventando impaziente. «Non vedi, sta pensando di puntare al malloppo. È un truffatore troppo importante per interessarsi solo di una sommetta. Quando avremmo vinto, non so, cinquecento dollari, noi ci fermeremo. Il rischio piccolo contro quello grosso, la nostra politica dovrebbe essere questa.»
«Un’altra cosa, riguardo alle foto autografe delle stelle di Hollywood. Le può ottenere chiunque, basta scrivere. Lo so perché Robin e Idden ne hanno chieste un sacco.»
«Sì, ma fa tutto parte del suo cercare di guadagnare la nostra fiducia. Io naturalmente non ci sono cascato nemmeno per un momento. Senti, nel giro di poche ore avremo vinto più di centocinquanta dollari.»
Io diventai a un tratto molto sospettosa.
«COSA? Non vorrai dire che gli hai dato dei soldi?»
«Be’, non proprio. Gli ho solo firmato un assegno e se viene fuori che sta cercando di imbrogliarci dirò alla banca di non incassarlo.»
«Quanto?»
«Quaranta dollari. Ne abbiamo ancora ventisette, in caso di emergenze, se ti licenziano o cose così. Se stasera non si fa vivo, bloccherò l’assegno. Guarda, ecco i nostri cavalli. Abbiamo puntato venti su Braving Ranger nella quarta corsa e venti su Starlight nella sesta.» Parlando, Esmond ciancicava un foglio verde.
«Mi chiedo perché abbia improvvisamente deciso di farci entrare nell’affare» dissi. «Dopo tutto, ci conosce a malapena.»
«Me l’ha spiegato. Pare che sia uno di quegli inglesi all’estero che cercano sempre di aiutare i compatrioti. E poi gli stanno molto simpatici i giovani, mi ha detto. Non ha avuto figli e l’ha sempre rimpianto, così cerca di aiutare le giovani coppie in difficoltà. Naturalmente non ho creduto a una parola; se vuoi saperlo, secondo me vuole solo fare un mucchio di soldi. Ecco perché penso che dovremmo smetterla, dopo i cinquecento dollari.»
Suonò il campanello. «Vedi? È lui» esclamò Esmond trionfante.
Il fratello di Steve Donahue era un uomo tozzo e basso con una faccia segnata e occhi tristi e gentili. Esmond ci presentò e preparò qualcosa da bere.
Il signor Donahue si lasciò cadere su una delle sedie della cucina scuotendo la testa con aria cupa.
«Non so proprio cosa sia successo nell’ultima corsa, com’è vero Dio» disse, con quel suo morbido accento del Lancashire.
«Oh... non abbiamo vinto, vero?» esclamammo io e Esmond all’unisono.
«Voi avete vinto settanta dollari. Braving Ranger è arrivato primo. Ma nella sesta corsa ci hanno imbrogliato. Se trovo quel fantino gli torco il collo, com’è vero Dio.»
«Settanta dollari! Ma è meraviglioso. Quando li riscuotiamo?» domandò Esmond.
«Pagano domani. Ci vediamo al bar di Jack Dempsey verso mezzogiorno. Jack è un carissimo amico mio, molto intimo, com’è vero Dio. Vediamo. Io oggi ho guadagnato solo quattromila e cinquecento dollari. Avrei dovuto incassarne almeno diecimila. Quello sporco fantino doppiogiochista...»
Il signor Donahue si fermò a lungo. Ci raccontò della sua triste vita amorosa, risalente a parecchi anni prima. Aveva amato una ragazza che lavorava in un mulino a Wigan. Non l’aveva mai sposata, ma avevano avuto una figlia e poco dopo madre e figlia erano morte entrambe. Ci raccontò delle sue esperienze ippiche americane. Possedeva parecchie stalle di cavalli da corsa in diversi stati dell’Unione.
«In Inghilterra l’ippica è lo sport dei re; è proprio uno sport reale, com’è vero Dio» disse. «In questo sporco paese, è fasullo come un biglietto da nove dollari. A pensarci bene ti si spezza il cuore.»
«Parla come un personaggio dei libri di Damon Runyon» commentò Esmond. «Ne ho letti un sacco.»
«Damon Runyon! È un mio carissimo amico. Vi piacerebbe conoscerlo?» domandò il signor Donahue. Si offrì anche di presentarci un’artista inglese che stava dipingendo un ritratto di Brenda Frazier. «È alta uno e novanta, ma è un’artista magnifica.»
«Vi ho preso in grande simpatia, ragazzi, com’è vero Dio» disse. «Non vi dispiace se vi chiamo “ragazzi”, vero?»
Prima di andarsene ci invitò ad accompagnarlo all’inaugurazione dell’ippodromo di New York e poi a fare una scappata in Florida con lui per il fine settimana.
Quando se ne andò ci sedemmo e scoppiammo a ridere. Che colpo di fortuna incredibile, entrare in quel racket malavitoso solo dopo poche settimane in città!
Telefonammo a Dave Scherman per dirgli che avevamo novità entusiasmanti. Lui venne subito. Esmond riassunse in breve le notizie del giorno.
«Oddio, poveri disgraziati dimenticati da Dio» fu il suo primo commento. «Quel tizio probabilmente è un truffatore di prima classe. Vi toglierà anche la camicia...»
«Ma certo, l’abbiamo capito che è un truffatore. Ecco perché siamo nella posizione perfetta per cavare un po’ di soldi da questa situazione.» Esmond spiegò la teoria del rischio grosso e piccolo in maniera così convincente che presto Dave ci chiese ansiosamente di diventare nostro socio.
«Sono sicura che il signor Donahue apprezzerebbe moltissimo» dissi. «Gli piacciono da matti i giovani. Forse riesci a farti dare qualche giorno di ferie da “Life” e a venire in Florida con noi.»
Ci accordammo perché ci chiamasse la sera dopo per organizzare le prossime scommesse.
Estorsi a Esmond la promessa di puntare sulla corsa del giorno dopo solo i settanta dollari di vincita, e di recuperare l’investimento iniziale di quaranta.
Non vedevo l’ora di raccontare alle ragazze di Engel’s la nostra grandissima fortuna. Si radunarono intorno a me, implorandomi di farle partecipare all’affare.
«Ma abbiamo promesso di non dire a nessuno i nomi dei cavalli» spiegai. «Dev’essere un segreto segretissimo, altrimenti va tutto all’aria.»
Loro mi offrirono dei soldi. «Ci fidiamo di te. Punta cinque dollari per me...» «Io ne metto due, non voglio sapere i nomi...»
Quel pomeriggio chiamai Esmond per sapere com’era andato l’appuntamento al bar di Dempsey.
«Conosce davvero Jack Dempsey» disse Esmond. «Mi ha presentato come il nipote di Lord Redesdale!»
«Cos’ha detto Dempsey?»
«Ha detto “Piacere”, naturalmente» rispose Esmond spazientito. «E che spera che l’America ci piaccia.»
«Non vedo come questo dimostri che Donahue lo conosce. Cos’altro avrebbe potuto dire? Comunque, e i soldi?»
«Be’, il signor Donahue non li aveva con sé. C’è stato un piccolo malinteso; pensava che volessimo reinvestire l’intera cifra sulla corsa di oggi, quindi non li ha portati. Gli ho spiegato che avevamo deciso di scommettere solo i settanta dollari e alle tre ripasserà per restituirci i quaranta».
Arrivai all’appartamento piuttosto tardi, perché avevo passato in rassegna le vetrine per decidere quali abiti nuovi comprare con la vincita.
Esmond non rispose al campanello, così usai la chiave. Sentii l’acqua che scorreva. Lui era in piedi sotto la doccia. Pareva che fosse là da ore. L’acqua gli scorreva sulla faccia, deformandone l’espressione. «Non venirmi vicino» disse. «Non mi toccare.» Parlava con infelicità controllata.
Capii immediatamente.
«Il signor Donahue» non si era fatto vedere. Se non altro avevamo corso un rischio piccolo.