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Le nostre spedizioni nella zona Silkform furono piacevolmente intervallate da visite a persone che lavoravano in diversi enti del New Deal e dall’opportunità di sperimentare bene le cene, i cocktail e i pranzi che costituivano una larga parte della vita del personale governativo a Washington.

Aggirandoci per i diversi uffici del governo, parlammo con uomini e donne arrivati da ogni parte del paese per lavorare nella National Youth Administration, nel dipartimento dell’agricoltura, nella Works Projects Administration e in molti altri enti con una miriade di nomi e sigle che non riuscivamo nemmeno a ricordare.

Restammo enormemente impressionati dalle persone che incontrammo, alcune delle quali sembravano poco più giovani di noi. Vivevano e lavoravano con un entusiasmo contagioso per ciò che stavano facendo. Ovunque andassimo ci riempivano di volantini, sondaggi, comunicati stampa che descrivevano le molteplici attività del New Deal. Ci invitavano a fare un giro per le campagne, a visitare i campi di lavoro, la Tennessee Valley Authority, i progetti di bonifica e reinsediamento, a esaminare gli schemi di contributi finanziari agli agricoltori – perché vedessimo con i nostri occhi gli incredibili cambiamenti introdotti dall’amministrazione Roosevelt. Quant’era tutto diverso, pensammo, dagli uffici governativi inglesi, dove le parole «impiegato statale» sembravano sinonimo di arida ottusità e burocrazia.

Ci dissero che Washington, come New York, è una città americana molto atipica. Eppure avevamo la sensazione che gran parte di ciò che c’era di buono in America fosse concentrato lì nella capitale e fosse rappresentato da quel gruppo allegro e sincero di liberali. Avevano ben poco del cinismo istintivo, dell’inevitabile spirito con cui i newyorchesi avevano sempre l’ultima parola; al tempo stesso, erano ben lontani dagli idealisti sognanti e confusionari descritti da quasi tutta la stampa. Erano persone che agivano, creatori di progetti e soprattutto traduttori dei principi e degli ideali del loro paese in vita reale.

Di lì a poco stringemmo amicizia con il direttore di «New Republic», Michael Straight. Era un giovane straordinariamente bello, un paio d’anni più vecchio di Esmond. Sua moglie Binny aveva solo diciotto anni e la sua famiglia l’aveva considerata troppo giovane per allontanarsi da casa senza la tata, quindi spesso cenavamo con tutti e tre insieme. Michael aveva frequentato le scuole in Inghilterra, a Dartington Hall. Io e Esmond sapevamo parecchie cose su Dartington, perché per anni era stata al centro di tempestose controversie e bersaglio di numerose lettere infuriate al «Times». Le storie di Mike sulle cose immorali che vi accadevano avrebbero senza dubbio confermato i pensieri peggiori degli autori di quelle lettere.

Gli Straight insistettero per farsi raccontare ogni dettaglio delle nostre avventure alla Silkform. Risero a crepapelle e, seduti intorno al tavolo, ci mettemmo tutti a cantare: «Alla Silkform sono tosti, son dei grandi venditor». La nostra frase tipica per salutarli era: «Buongiorno, signora Straight, come andiamo oggi?». Su insistenza di Esmond, ci offrirono lettere di presentazione da usare nel caso che, nei nostri viaggi, ci trovassimo in una situazione di emergenza. La lettera mi descriveva come una cameriera personale di grande esperienza che aveva lavorato per anni al servizio della signora Straight, e Esmond come un valletto esperto, la cui abilità e destrezza nello svolgimento dei suoi doveri erano quasi diventati indispensabili per il signor Straight.

Un giorno che Esmond era in giro per la sua zona, Mike mi portò a una colazione di gente del New Deal in un grande albergo. Mi sedetti accanto a una donna alta del Sud che portava un enorme cappello bianco e si presentò come Virginia Durr. La sua voce era come un grido soffocato, fortunatamente priva del leggero tono lamentoso che avevo iniziato ad associare alle voci meridionali. Il suo approccio alla conversazione consisteva in un attacco frontale. Non appena venne a sapere che ero inglese, mi mitragliò di domande:

«Be’, ma che diavolo ne pensa di Chamberlain? Io lo trovo assoluta-meeente orribile... Dove abitava, in Inghilterra? La vita nella campagna inglese mi ha sempre affascinato. Ma cosa caspita fate tutto il giorno? Quanto pagate la servitù, da voi? Di cosa sanno gli sformati di rognone? Adoro Jane Austen e Cranford e un giorno mi piacerebbe davvero andare in Inghilterra...».

Trovai una certa difficoltà nel rispondere a tutte le domande e al tempo stesso cercai di spiegare che da noi le cose erano un po’ cambiate dai tempi di Jane Austen e Cranford.

In effetti quel fuoco di fila mi aveva un po’ irritata. La signora Durr mi faceva sentire in minoranza, come se fossi stata messa all’angolo da uno sciame di giornalisti.

Presto lei si stancò delle mie risposte telegrafiche e concentrò la sua attenzione su un ragazzo dai capelli rossi seduto di fronte. «Ehi, Rosso! Mi dicono che sei praticamente il più intelligente di Capitol Hill. Senti qua, cosa pensano che farà il presidente a proposito di...»

La persona così apostrofata si agitò e arrossì in maniera graziosa, ma le diede una risposta dettagliata e presto si misero a discutere delle complessità della politica del New Deal.

Quando la signora Durr ne aveva abbastanza di un certo argomento, lo terminava con ferma dolcezza. Era come se avesse finito il capitolo di un libro, avesse chiuso il volume e l’avesse posato per prenderne un altro. Questo si rivelava un po’ sconcertante per l’interlocutore, che spesso veniva lasciato a metà di una frase. Applicava il metodo della domanda diretta a tutti, senza discriminazioni, indipendentemente dalla delicatezza dell’argomento: «Jack, ho sentito che hai litigato con John L. l’altra sera. Cos’è successo? Pensavo che foste culo e camicia».

Verso la fine della colazione, decise di rivolgere nuovamente a me le sue attenzioni e il suo fascino travolgenti: «Perché non vieni a cena da noi, un giorno di questa settimana? Mi piacerebbe da matti conoscere tuo marito, mi dicono tutti che è un giovanotto davvero notevole».

«Oh... davvero? È una cosa straordinariamente carina da dire. Ma certo, credo di sì...»

Arrancavo malamente, presa alla sprovvista dalla inconsueta sincerità di quel complimento. Ci accordammo perché io e Esmond passassimo a prendere la signora Durr la sera seguente al suo ufficio e poi ci recassimo a casa loro su Seminar Hill.

Clifford Durr era un uomo alto e dalle spalle piuttosto spioventi di circa quarant’anni. Aveva un aspetto informale, ma da intellettuale, e ricordava una specie di Abe Lincoln più addolcito. Ci salutò con quell’eccesso di gentilezza e ospitalità che avevo notato in tanti americani; mi dava sempre la sgradevole sensazione che, indipendentemente dalla durata del periodo che avrei trascorso tra di loro, non sarei mai riuscita a raggiungere quel livello di genuina cordialità con gli sconosciuti.

I Durr vivevano in una enorme ed estesa fattoria bianca in una zona rurale a circa dieci chilometri da Washington. Entrammo nell’ingresso, pieno di copie arretrate del «National Geographic», e trovammo la signora Durr che gridava piano nel ricevitore del telefono. Riattaccò non appena ci vide – apparentemente a metà frase; mi feci qualche domanda sul poveretto all’altro capo – e si alzò per salutarci. «Bene, sono felicissima che siate potuti venire! Cliff, tesoro, vai a preparare qualcosa da bere. Venite, voglio presentarvi Lucy e Sorellina.» Ci condusse in soggiorno, un’estremità del quale era piena di un groviglio inestricabile di bambini piccoli. La signora Durr entrò nel mucchio a grandi passi, li districò e ne tirò fuori Lucy, una splendida bambina bionda di due anni. Sorellina, una neonata, scalciava placida in un passeggino in un altro angolo della stanza.

Lucy fu rapidamente sollevata per le presentazioni e per dare un bacio della buonasera a suo padre e altrettanto rapidamente rimessa giù tra i suoi coetanei, dopo averle intimato di stare «zitta, così la mamma potrà parlare con i suoi amici».

La signora Durr si preparò ad altre domande inesorabili, completamente indifferente al bailamme che regnava nella stanza. Ogni tanto un urlo troppo forte produceva qualche reazione: «Ossignore! Bambini, per favore, fate silenzio e giocate, da bravi...». Alla fine, senza alcun incoraggiamento particolare, i bambini scomparvero gradualmente e Lucy andò a letto pestando i piedi. Nel silenzio innaturale che seguì qualcuno notò che Sorellina stava piangendo da un po’. («Santa pazienza! Abbiamo dimenticato di darle da mangiare!»). La piccola fu rapidamente zittita con un biberon e la conversazione degli adulti proseguì senza ulteriori interruzioni.

A quel punto Esmond divenne il centro delle attenzioni della signora Durr. Lo interrogò in lungo e in largo sulle sue opinioni riguardo alla guerra, su che persona era Winston Churchill, sulle sue esperienze in Spagna.

Ascoltandoli parlare, iniziai già a formarmi un’idea diversa di lei. Era una vera incantatrice, decisi, il cui fascino peculiare stava nella sua enorme curiosità per le persone, nella sua passione sconfinata per scoprire le cose, conoscere dettagli e motivazioni, ricondurre grandi eventi ai loro piccoli esordi umani. Non c’era da stupirsi che amasse Jane Austen!

Lei e Esmond andavano d’amore e d’accordo. Alla fine della serata eravamo amicissimi. Ci sembrava di conoscere i Durr da anni. Quanto ci sarebbe voluto, mi chiesi, in Inghilterra per sviluppare un tale sentimento di amicizia intima? Quante ore e ore, distribuite in quanti mesi, trascorse nella reciproca compagnia? Prima ci sarebbero state le schermaglie dei preliminari, come quando due cani estranei si avvicinano sospettosi per la prima volta, annusandosi ma sempre in guardia, scrutandosi bene mentre ciascuno gira piano attorno all’altro. Naturalmente la conversazione variava a seconda dell’ambiente. Poteva appartenere alla varietà monosillabica del «Ah, sì, bello spettacolo», come se si svolgesse durante un fine settimana di caccia e pesca. Oppure poteva essere formata da frasi letterarie attentamente cesellate, da un giudizioso (ma consciamente noncurante) lasciarsi sfuggire nomi di scrittori molto noti, perché ci sono molti modi in cui la gente stabilisce dei contatti. Certo è che sarebbe stato impossibile ottenere al primo incontro lo scambio facile e diretto di opinioni che i Durr utilizzavano con tanta naturalezza.

Riallacciammo i rapporti con i Meyer, che all’epoca stavano a Washington. Alcune visite alla loro splendida ed enorme magione nella capitale ci offrì il «contrasto» che secondo Esmond costituiva sempre l’essenza del saper vivere. Di ritorno dalla zona Silkform nella nostra squallida stanza ammobiliata, si lavava in fretta, si infilava nell’onnipresente tuxedo e partiva per favolose cene in cui poteva incontrare chiunque – anche un membro delle famiglie Hiss e Pegler, perché gli amici dei Meyer erano di questa levatura.

La nostra ignoranza delle personalità di Washington ci procurò alcuni momenti di imbarazzo. A una di queste cene io ero seduta accanto a un giovane avvocato corpulento, un certo signor Pritchard del Kentucky, che nel viso e nelle forme mi ricordava i «Biondi Tondi» di Tom.

«Un mio amico mi ha detto che lei è solo un “liberale alla Dean Acheson”. Cosa vuol dire esattamente?» domandai.

Un brusco calcio sotto il tavolo, da parte di Esmond, mi avvertì di lasciar perdere quelle curiosità; più tardi mi spiegò che proprio davanti a me era seduta la moglie di Dean Acheson.

Nemmeno Esmond fu fortunato, quella sera. Dopo cena il signor Meyer espose le sue opinioni sulla legge Lend-Lease che in quei giorni era in discussione al Congresso.1 Gli ospiti ascoltarono conquistati e attenti, non solo perché lo richiedeva la buona educazione, visto che era il loro ospite a parlare. Il signor Meyer era un oratore affascinante, che aveva la capacità di individuare e trasmettere al suo pubblico le perle di saggezza acquisite durante una vita di variegate esperienze politiche.

«Ci sono quelli che sostengono che gli inglesi stanno cercando di fregarci» stava dicendo, e con grande enfasi aggiunse: «Io sostengo che gli inglesi non sono capaci di portarci via alcunché!».

Come attratti dalla simpatia per l’unico rappresentante della piccola e valorosa isola, tutti gli sguardi puntarono su Esmond, che in silenzio si era allontanato dal gruppo accanto al caminetto ed era tutto preso a ficcarsi metodicamente nelle tasche alcuni eccellenti sigari di proprietà del signor Meyer.

Tutt’altro che irritato, Meyer prese l’intero episodio come un grosso scherzo. Qualche giorno dopo si meritò l’etichetta di «Possibile Trovalavoro» commissionandoci una serie di articoli sulle nostre avventure in America.

Philip Toynbee li ha accuratamente e crudelmente descritti come «leziosi e spudorati, l’immagine tenera di una prode piccola coppia inglese che combatte contro ogni difficoltà per tenere la testa al di sopra delle acque profonde e sconosciute dell’America».

Se il signor Meyer voleva vendicarsi di Esmond per il furto dei sigari, ci riuscì quando gli articoli furono pubblicati con un titolo particolarmente repellente: «Giovani sangueblu nel paradiso dei barboni».

1. In base alla legge Lend-Lease, varata nel 1941, gli Stati Uniti d’America fornirono a Inghilterra e paesi alleati materiale bellico in cambio, nel caso dell’Inghilterra, di basi militari.