Prefazione
di Christopher Hitchens
L’incontro in ricordo di Jessica Mitford, nel febbraio del 1997 nel West End di Londra, avrebbe potuto rappresentare l’ultimo, fugace grido di esultanza per chi «conosceva» le famigerate sorelle di Swinbrook e le stratificazioni di aneddoti nati su e intorno a loro. Per omaggiare «Decca» e la sua battaglia contro gli avvoltoi dell’industria funeraria, durata tutta una vita, sistemarono una bara poco costosa, per non dire da quattro soldi, ma vuota, su un cavalletto nell’atrio del Lyric Theatre di Shaftesbury Avenue. Ahimè, questa fedeltà alle sue ultime indicazioni – il funerale vero e proprio, a San Francisco, si era svolto presso un’agenzia di pompe funebri molto economica con sede in un seminterrato – bastò a scoraggiare sua sorella Deborah, o «Debo», meglio nota come duchessa del Devonshire e castellana di Chatsworth House. Dopo avere gentilmente pagato le spese di affitto del teatro, decise di non prendere parte a uno spettacolo tanto macabro e populista. Diana, Lady Mosley, ancora fedele alla memoria del marito in camicia nera, era abbastanza in salute da lasciare Parigi e mettersi in viaggio, ma non prese nemmeno in considerazione l’idea. («Ma Diana si fa mai viva?» avevo chiesto una volta a Decca. «Ci siamo salutate da lontano con un inchino al funerale della cara Nancy» mi aveva risposto lei in tono glaciale, «ma a parte questo è da Monaco che non ci rivolgiamo la parola nella maniera più assoluta».
La sala era stracolma e, in qualità di oratore, ebbi il privilegio di essere presentato a Eddie Romilly, nipote del primo marito di Decca, Esmond. Mi parve di cogliere in lui una somiglianza straordinaria con le fotografie del giovanotto il cui aereo si era inabissato nel gelido Mare del Nord nel novembre del 1941. Poi incontrai una vecchia e amatissima conoscenza, Mary Churchill, Lady Soames, vedova. Figlia maggiore di Winston Churchill e biografa della madre Clementine, doveva essere di gran lunga la persona più conservatrice – e forse l’unica – presente. Solo dopo scoprii che ci sarebbe voluto ben altro che una bara nell’atrio per tenerla lontana. E poi mi raccontò una storia che spiega il perché della sua devota partecipazione.
Come tutte le ragazze Churchill, era stata anche lei più che infatuata del cugino. «Eravamo tutte spaventosamente gelose quando Decca è scappata con lui in Spagna, e dopo in America. E poi quel tesoro di Esmond è stato ucciso – ma registrato come “disperso” perché era precipitato in mare». (Dagli Stati Uniti, non appena era stata dichiarata la guerra, Esmond si era arruolato nella Royal Canadian Air Force. Non poteva saperlo, ma una generazione prima William Faulkner si era arruolato nello stesso modo). Il lutto aveva colto Decca a Washington D.C., ingabbiata nel ruolo della giovane vedova impegnata a occuparsi della neonata che portava in grembo quando l’aereo di Romilly si era inabissato. Fu allora che il Primo Ministro, pronto ad attraversare l’Atlantico per un incontro di importanza vitale con il presidente Roosevelt a Washington, dovette anche affrontare la delegazione delle sue figlie, che gli strapparono la promessa di fare qualcosa per Decca. Lui mantenne la parola. La invitò nel suo salottino alla Casa Bianca. Poi le comunicò di avere richiesto ai servizi segreti un rapporto dettagliato; con cordoglio poteva affermare che non c’era più ragione di considerare Romilly ancora «disperso». Lei se l’era aspettato e reagì stoicamente, stringendo a sé la figlia di Esmond. Il Primo Ministro le porse una discreta sommetta in contanti, parte della quale era stata fornita dalle sue stesse figlie. Inoltre le disse di avere parlato con Lord Halifax, ambasciatore britannico negli Stati Uniti: costui gli aveva assicurato che una giovane inglese brillante e dotata come lei avrebbe certamente potuto ottenere un lavoro all’interno dello staff diplomatico. A quelle parole, Churchill vide il dono in denaro volare sul letto. «Se lei ha creduto anche solo per un istante» sibilò la giovane vedova, «che avrei preso in considerazione l’idea di lavorare per quel vecchio mostro conservatore, allora si sbaglia di grosso. Preferisco morire di fame». In quel giudizio c’era una certa dose di verità, e Churchill lo sapeva bene. (Halifax era stato spedito a ricoprire quel ruolo a Washington soprattutto per toglierlo di mezzo, e per indebolire la fazione conservatrice che avrebbe potuto vedere con favore una pace separata con Hitler). Al suo ritorno in Inghilterra, prima ancora di fare rapporto al Parlamento e al Gabinetto sulla disputa più ardua in cui la Gran Bretagna fosse mai stata impegnata, il Primo Ministro fu costretto a fare rapporto alle sue stesse figlie. «E com’è andata con la cara Decca?» «Un disastro, a dire la verità».
Alcuni lettori potrebbero avere la sensazione che la vicenda sia stata esagerata, e che quelle figlie del privilegio e dell’eccentricità nutrissero già una spiccata passione per le luci del palcoscenico. È vero che, quando Esmond e Decca scapparono in Spagna e si schierarono dalla parte dei repubblicani, il ministro degli Esteri, Sir Anthony Eden, spedì un cacciatorpediniere della Royal Navy nel porto di Bilbao per riportarli indietro? E se è vero, ma chi credevano di essere? In realtà, il fatto è che il governo britannico lo fece davvero, tale era il desiderio di evitare lo scandalo o l’imbarazzo per le classi aristocratiche, ma la giovane coppia si rifiutò di mettere piede a bordo e Esmond scrisse allo zio Winston, puntualizzando che un’eventuale vittoria di Hitler e Mussolini in Spagna non avrebbe giovato agli interessi britannici nel Mediterraneo. (È anche vero che poco dopo Churchill ritirò l’iniziale sostegno offerto al generale Franco, sebbene in queste pagine Decca si dica sicura che la lettera di Esmond non abbia fatto una gran differenza).
E quante famiglie conoscete con una rampolla che abbia scritto un brillante e precoce romanzo in cui si satireggia il fascismo, un’altra che abbia avuto Joseph Goebbels come testimone di nozze, la terza abbia tentato il suicidio per amore del Führer e la quarta abbia messo a punto un complotto vero e proprio per riuscire ad avvicinarlo e ucciderlo con una pistola? La prima era Nancy, il cui romanzo anti-Mosley Wigs on the Green (Pandemonio), fu seguito da trionfi come A caccia d’amore, Amore in climi freddi e Non dirlo ad Alfredo – secondo alcuni, un ritratto satirico della stessa ambasciata parigina diretta dal marito di Mary Churchill. La seconda era Diana, considerata da Evelyn Waugh e molti altri contemporanei la donna più bella della sua epoca: non solo aveva avuto Goebbels come testimone al suo matrimonio con il leader dei fascisti britannici, ma nella lieta circostanza aveva anche ricevuto un dono personale da parte di Hitler (una sua fotografia, incorniciata e autografata). La terza, Unity Valkyrie Mitford, con un nome impossibile e un soprannome, «Boud», altrettanto difficile da portare, diventò un modello per il partito nazista, non solo a causa del fisico imponente e della capigliatura bionda, ma anche perché i nazisti credevano, e non a torto, che l’aristocrazia inglese annoverasse personaggi potenzialmente molto utili. La quarta naturalmente era Jessica, o «Decca»: aveva messo a punto un piano per convincere le sorelle di essersi convertita, in modo da procurarsi un incontro con Hitler ed estrarre la pistola. Negli ultimi anni a volte la prendevo in giro a proposito di quell’occasione perduta, a cui lei ammetteva di avere rinunciato per mancanza di coraggio. «Lo so» sospirava. «È stato piuttosto pigro da parte mia.» (I titoli delle prime pagine se ci fosse riuscita? «Figlia comunista di un nobile uccide leader della Nuova Germania»). Comunque, Decca aveva la piccola consolazione di avere almeno fatto passare un brutto momento al Führer. Quando Boud gli raccontò che sua sorella era scappata in Spagna per unirsi ai rossi, lui si prese la testa tra le mani e gemette: «Armes Kind!», «Povera bambina!»
Alla luce di tutto ciò che abbiamo detto, un grande merito di questo libro di memorie è che Boud è descritta in maniera molto affettuosa, se non pietosa, Diana viene lodata per il suo fascino e la sua grazia, Debo è la ragazza dolce, anche se un po’ sciocca, precocemente incastrata nel matrimonio con un duca, e solo Nancy è sprezzante o maliziosa. (C’erano un’altra sorella, Pamela, e un fratello paziente di nome Tom che in seguito sarebbe morto in guerra, ma non ci si può aspettare che Decca li segua tutti, e in effetti non ci prova nemmeno). Nelle figure di Lord e Lady Redesdale, il primo tirannico ma credulone e la seconda distratta ma a volte bisbetica, troviamo gli elementi classici dell’eccentricità delle classi superiori inglesi. Forse anche con una componente tragica: non dev’essere stato facile avere un figlio ucciso, una figlia irrevocabilmente menomata da un tentativo di suicidio e altre tre celebri scansafatiche con la tendenza a vuotare il sacco sui segreti di famiglia. In confronto, il vicariato dei Brontë a Haworth sembra un posto noioso.
Swinbrook House pareva avere insegnato ad almeno una delle sorelle un’assoluta repulsione per la bigotteria, il razzismo e lo sciovinismo. Decca la mette in maniera piuttosto ambigua e racconta che suo padre non conosceva il concetto di «discriminazione». Trovava che tutti quegli sporchi stranieri fossero più o meno uguali. «Quando una nostra cugina sposò un argentino di pura discendenza spagnola, lui commentò: “Ho sentito dire che Robin ha sposato un nero”». Figlie e ribelli è stato pubblicato nel 1960, quando l’autrice aveva già dato un importante contributo al movimento americano per i diritti civili; sebbene in queste pagine dica molto chiaramente che dopo aver messo piede in America lei e Esmond si resero conto che era l’ideale per i rifugiati del Vecchio Mondo come loro, tuttavia ogni volta che qualcuno fa un’osservazione maligna lo sottolinea. E non ha mai smesso di farlo fino alla fine dei suoi giorni. Negli anni Cinquanta era riuscita a convincere William Faulkner a firmare una petizione contro l’esecuzione di Willie McGee, un nero ingiustamente accusato di stupro. (Prima che lei gli sottraesse la petizione firmata, Faulkner affermò di essere convinto che McGee e la sua presunta vittima bianca «avrebbero dovuto essere eliminati entrambi» – al che lei gli rispose in tono allegro ma fermo, «Oh, questo non scriviamolo!») Poi trascorse alcune ore sconvolgenti insieme al dottor King in una chiesa nera che per tutta la notte rimase circondata dai vigilantes. Una volta mi raccontò che durante i suoi anni nel partito comunista (e la sua visione del partito è leggermente prefigurata in Figlie e ribelli) aveva appreso che i membri bianchi residenti in periferia evitavano le inchieste dell’FBI chiedendo ai membri neri di usare l’entrata di servizio quando si recavano alle assemblee «casalinghe». «Be’, non gliel’ho fatta passare liscia. Trovavo che fosse proprio una mascalzonata!» Al sud, sul prato della vecchia amica Virginia Durr – presentata e poi celebrata in queste pagine come una decana dei diritti civili – ebbe una discussione con un uomo: lui affermava che la desegregazione nelle scuole «non ha senso, no?» Lei gli rispose: «Be’, per me sì» e girò sui tacchi. Chi si impegolava con la signora Mitford aveva sempre la sensazione di avere combattuto in guerra.
A parte il ritratto di una famiglia feudale inglese a stento credibile (ma di certo vera, perché altrimenti sarebbe impossibile inventarla), questo libro descrive soprattutto il dilemma tra fascismo e comunismo che colse tanti inglesi negli anni Trenta, e poi, in secondo luogo, anche una bellissima storia romantica. I due intrecci sono amalgamati con tale abilità che gli elementi di storia politica e sociale si notano a malapena, ma Figlie e ribelli ha il merito di rendere più comprensibile la resistenza churchilliana al fascismo – l’ultima cosa che molti appartenenti alla sinistra marxista si sarebbero aspettati. E quando Decca si appresta a delineare l’amara realtà delle distinzioni classiste dell’epoca, colpisce nel segno in maniera memorabile. Riesce a farci comprendere le donne ciniche e spezzate con cui si è ritrovata a lavorare, l’abitudine alla deferenza di moltissimi rappresentanti delle classi inferiori e poi – in maniera così dolorosa che non lo si coglie subito – la morte del suo primo figlio nei bassifondi londinesi; morte in parte dovuta alla sua beata ignoranza in materia di infezioni comuni.
Forse invece che «storia romantica» avrei dovuto dire «storia d’amore». Con tutte le sue fughe mozzafiato e trasgressioni estreme, ciò che anima davvero questa narrazione è l’amore assoluto che Decca Mitford prova per Esmond. E il ritratto di lui non è «romantico» nel senso che certa gente attribuisce a questa parola: è rappresentato come un uomo spesso rozzo ed egoista e anche sempliciotto, quando si trattava di espedienti opportunistici, ma nonostante questo, e contra mundum: «tutto il mio mondo, il mio salvatore, il traduttore di tutti i miei sogni in realtà, l’affascinante compagno di tutta la mia vita adulta – già tre anni – e il centro di tutta la felicità».
Forse avrete notato tre parole che denotano una certa leggerezza e disapprovazione di sé. La leggerezza, in una forma o nell’altra, che spesso diventava ilarità, o qualcosa di più, era il forte di Decca. Però vale anche la pena di soffermarsi sul passaggio conclusivo di Figlie e ribelli. In un modo che, nella letteratura inglese, è stato superato soltanto da Corpi vili di Evelyn Waugh, si accomiata da quell’epoca di fervore e ribellioni, di irresponsabilità ed egoismo, e attribuisce tutti quei vizi a se stessa – e all’amore perduto della sua vita. Questo libro ha avuto un grande successo su entrambe le sponde dell’Atlantico come «deliziosa» commedia di costume dotata di un «divino» spirito da postdebuttante, ma è altrettanto certo che queste pagine descrivono l’evoluzione costante e determinata di une femme serieuse.