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I fratelli Chizzola organizzarono un banchetto straordinario per festeggiare la nuova società. Il maître d’hôtel salì su uno degli alberi del patio per la gioia al pensiero che il bar era salvo e saltò di ramo in ramo fingendo di essere un pappagallo e una scimmia. John fece un’imitazione molto somigliante di Esmond nei panni del tuttofare: «Dov’è lo spazzolone? Dov’è lo spazzolone?». Crash! Bang! Splash! Tutta orgogliosa, feci da assistente a Tony che in cucina preparava montagne di spaghetti: «Decca! Presto! Dov’è quella roba, quella cosa per fermare gli spaghetti e far colare via l’acqua?». Li adorai subito, erano completamente diversi dagli anglosassoni deprimenti e rigidi con cui trascorrevo le mie giornate all’emporio.

Fu davvero un’occasione allegra e mangiammo e bevemmo fino a notte inoltrata; la festa si concluse con un magnifico concerto di canzoni antifasciste italiane eseguite dai fratelli.

Lasciai il lavoro all’emporio per assumere un nuovo incarico al Roma, dove dovevo rifornire il bar, tenere i conti e fare da buttafuori. «Abbiamo bisogno di una donna giovane e gentile che si prenda cura delle signore che svengono» mi spiegò John tutto serio. «Il maître d’hôtel ne sarà felice; non gli piace doverle trascinare fuori dalla toilette delle signore.» («Cosa direbbe Muv?» era ancora una domanda che mi attraversava la mente, in occasioni come quella).

La vita al bar del Roma era una vera pacchia. Il nostro accordo con i Chizzola comprendeva i pasti con la famiglia e in quel periodo, per la prima e unica volta dal giorno del nostro matrimonio, consumammo tre pasti, regolari e deliziosi, al giorno. Una novità molto gradita a Esmond, che prosperò e ingrassò. Il vecchio regime di digiuno e fame, di spuntini buttati giù in fretta nella più vicina tavola calda, intervallato da qualche splendido banchetto dai Meyer o da qualcun altro, diventò solo un ricordo.

I clienti erano una costante fonte di divertimento. In gran parte, erano uomini d’affari di mezza età in vacanza, o commessi viaggiatori. Una volta il ristorante e il bar furono affittati per la serata ai funzionari dell’American Federation of Labor, che avevano un congresso a Miami. Con nostro grande stupore, questi rappresentanti di milioni di operai americani erano identici agli uomini d’affari del Midwest che di solito affollavano il bar. «Non canterete Bandiera rossa, dopo la cena?» domandai a uno di loro, ma lui mi guardò stupefatto, come se pensasse che fossi completamente fuori di senno. Ne dedussi che, come il signor Meyer, era «a favore del capitalismo». Li interrogammo curiosi sulla posizione che avrebbero preso i sindacati sulla politica estera, ma in risposta ottenemmo soltanto sguardi vuoti e confusi.

Esmond fece uno studio sulle abitudini dell’alcolista americano. Scoprì che dopo due o tre bicchieri il cliente tirava fuori invariabilmente il portafoglio e ci frugava dentro alla ricerca delle foto di «moglie e figli, lei è la donna più straordinaria del mondo, e il nostro piccolino è capace di tenere testa a tutti gli sbandati del quartiere, c’è da scommetterci». Qualche altro cocktail e il cliente pestava i pugni sul bancone: «Sissignore, gli Stati Uniti sono il paese migliore che vi capiterà di trovare e il Kansas è lo stato più bello dell’Unione, potete dire quello che volete dell’estero, noi lo battiamo alla grande...» e così via. Al decimo bicchiere, il cliente cominciava a sentire un bisogno curioso ma apparentemente universale di asserire e dimostrare la sua identità. «Robert G. McKinley. G. sta per George, ecco chi sono. Mi chiamano Bob. Vicepresidente della Smith-Alford Tractor Company, Kansas City, Kansas. Non mi crede, vero? Eh? Be’, glielo dimostrerò.» E tirava fuori i biglietti da visita, la patente, la tessera sanitaria. «Vede? Proprio qui. Robert George McKinley, ma mi chiamano Bob. Robert G. McKinley di Kansas City, Kansas, la più bella città che ci sia, e a casa mi chiamano tutti Bob...» A quel punto il bancone era disseminato di un orrido assortimento di biglietti, permessi di tutti i generi, parecchie tessere di iscrizione al Kiwanis e al Rotary e fotografie della Donna Straordinaria e dei Bambini, con le facce tonde e sincere incongruamente schizzate di whiskey. Questa fase segnava la necessità di un mio intervento come buttafuori, che eseguivo infilando nuovamente nel portafogli del cliente le sue squallide carte e conducendolo dolcemente a un taxi in attesa. «Mi chiamo Robert George McKinley, a casa mi chiamano tutti Bob... la più bella casetta di questo malnato mondo...» sentivamo ripetere mentre saliva a fatica nel taxi. Presto Esmond imparò a intuire quando il cliente era arrivato al punto da essere sbattuto fuori. «Decca, sta tirando fuori la patente: per favore, corri a chiamare un taxi.»

Esmond si applicò con grande concentrazione a fare della sua attività un’impresa avviata. Era come se cercasse deliberatamente di tagliare fuori, per il momento, le realtà della vita e della politica. Era in una posizione piuttosto unica per riuscirci, essendo fisicamente irraggiungibile per la leva obbligatoria inglese e, come straniero, non soggetto a quella americana, se fosse stata dichiarata. Scrisse perfino a Philip che nel bar avevamo appeso un cartello con la scritta «Siamo neutrali». In realtà il cartello non esisteva; Esmond inventò quell’elaborata bugia per informare i nostri amici a casa che non aveva intenzione di farsi inghiottire e diventare parte di una macchina da guerra il cui scopo era ancora imprecisato. I principali titoli dei giornali di quell’inverno riguardavano la mobilitazione delle truppe verso Southampton per un possibile utilizzo contro l’Unione Sovietica, e si diceva che alcuni individui con un ruolo importante nel governo inglese stessero fortemente incoraggiando i tedeschi a intensificare i febbrili preparativi bellici, aspettando il giorno in cui saremmo stati felicemente alleati nella crociata contro il comunismo. Era un’atmosfera di complotti dentro complotti, il cui risultato finale non era affatto chiaro.

Forse per le notizie destabilizzanti, forse perché Miami non mi piaceva per niente, a volte sentivo che qualcosa di sgradevole sarebbe spuntato da dietro la facciata sgargiante di quella orribile città di cartapesta, con quel sole eterno e sconvolgente che illuminava senza tregua gli stucchi bianchi e quelle detestabili e grottesche poinsettie che, come decorazioni natalizie da quattro soldi, annunciavano la loro presenza scarlatta in ogni giardino.

Esmond non si lasciava toccare da queste fantasie; irradiava calore e vita, sviluppava ogni sorta di progetti folli per il futuro del bar, si metteva al lavoro con grande perseveranza per imparare tutti i segreti del commercio dei liquori, i modi e i metodi per attrarre e trattenere i clienti. Come al solito, era al centro di un vortice di attività create da lui stesso, nel quale attirava chiunque gli stesse accanto. I fratelli Chizzola lo trattavano con affetto e uno stupore in continuo aumento. Non avevano ancora dimenticato completamente lo shock del primo incontro, la sua faccia tosta nel fingere di essere un cameriere esperto la sera dell’inaugurazione, il fatto che era riuscito a convincerli a dargli un lavoro come tuttofare nonostante la sua ovvia incompetenza, e soprattutto il suo successo nel raccogliere i mille dollari, che loro sembravano considerare come una specie di esilarante gioco di prestigio.

Adesso che Esmond era stato «ammesso alla gestione del bar», come diceva lui, scoprimmo che amministrare quell’attività era molto più che preparare pousse café e Horse’s Neck. C’erano da risolvere strani problemi relativi agli sconti per il pagamento in contanti e al credito a lungo e breve termine, c’erano da imparare bizzarri termini come Bolla di carico e Contabilità giornaliera.

I giorni presero un loro ritmo. Le mattine erano dedicate ai conti e alle pulizie della sera precedente, e a un appassionato scambio con i fratelli riguardo alle forniture, seguito da consultazioni ancora più appassionate con i grossisti di liquori. Verso mezzogiorno arrivava l’eccitante momento dell’apertura, accompagnato da congetture su quali strampalati esemplari umani si sarebbero presentati al Roma di volta in volta. Poi cominciava il vero divertimento. Esmond sviluppò parecchie personalità che provava poi con i clienti: il «tipo tosto» alla Damon Runyon, il servitore inglese raffinato e vecchio stile, l’affascinante viaggiatore che si è fatto da sé e che è a casa sua in cinque continenti, alla Ernest Hemingway. Avevo sempre paura che si confondesse e che un cliente che aveva ricevuto il trattamento Damon Runyon (completo di accento americano) potesse tornare qualche giorno dopo e trovarsi davanti un gemello identico del barista precedente – un gemello più sobrio, impegnato a inchinarsi con espressione grave e quell’aria rigida degli inglesi, che parlava solo se interrogato, e a monosillabi pronunciati con voce in stile BBC – un accento cockney pesantemente venato di oxfordismi.

La sua più felice interpretazione fu quella del Filosofo Alla Buona. Consisteva nell’avviare una conversazione con un cliente e aggiungere a un’osservazione qualunquista un commento ancora più banale: «Io dico sempre che i giovani hanno troppe poche responsabilità / troppe responsabilità / troppa libertà / troppa poca iniziativa, di questi tempi». «Io dico sempre che questo paese ha bisogno del pugno di ferro / delle redini sul collo / di un ritorno ai buoni, vecchi principi dei nostri padri / di guardare avanti invece che indietro...» Andava bene qualsiasi cosa, bastava che fosse enunciata in tono abbastanza serioso e preceduta dalle parole «io dico sempre». Il suo pubblico restava davvero impressionato da una tale saggezza in una persona così giovane. Mentre il cliente buttava giù un bicchiere dopo l’altro, Esmond lo conduceva abilmente per il naso, per il mio divertimento, e presto arrivava a fargli accettare luoghi comuni il cui senso era esattamente contrario rispetto a quelli da cui era partito. Io scrutavo lo spettacolo dal mio punto d’osservazione privilegiato, la cassa, e ogni tanto buttavo lì un commento tipico da Moglie del Filosofo Alla Buona. «Io dico sempre che se noi donne fossimo più come le nostre madri, questo piccolo vecchio mondo sarebbe un posto migliore» o «Io dico sempre che tocca a noi donne tenere i nostri uomini lontani dagli ippodromi e dai bar». Quest’ultima battuta poteva essere pronunciata con sicurezza solo se il cliente era completamente ubriaco, e quindi dell’umore giusto per polemizzare contro gli effetti negativi dell’alcol, soprattutto se consumato dalle giovani generazioni.

A Natale, il divertimento sereno del bar, che ci aiutava a evadere la realtà, andò in pezzi. Ci furono un paio di giorni in cui sui quotidiani circolò la notizia che Boud fosse stata gravemente ferita da un colpo di pistola, stesse tornando a casa in ambulanza e le sarebbe stato concesso il privilegio straordinario del salvacondotto attraverso le linee nemiche. Ci furono le solite folli congetture, e poi la notizia che era arrivata in Inghilterra. Ci investì una tempesta giornalistica di proporzioni enormi. Il telefono squillava in continuazione, giornali di tutto il paese ci chiedevano di raccontare «la vera storia»: era vero che Unity era stata colpita dalle S.S.? Era vero che aveva avuto una violenta lite con Hitler poco dopo lo scoppio della guerra? Dov’era stata negli ultimi mesi?

«Non lo so... non lo so... non lo so...»

Ero terrorizzata per Boud ed ero triste per i racconti del suo ultimo ritorno a casa, l’infinito flusso di fotografie che sui giornali la mostravano così cambiata e sciupata. La semplice verità di ciò che era accaduto era per me molto chiara. Boud aveva sempre detto che si sarebbe uccisa, se fosse scoppiata la guerra tra Inghilterra e Germania; ci aveva provato, ma qualcosa era andato storto. Anche se una pallottola le era penetrata nel cervello, il suo fisico dalla forza straordinaria l’aveva riportata alla vita.

Riflettei sull’enigma irrisolvibile: perché lei, una persona umanissima per coloro che la conoscevano, aveva voltato le spalle all’umanità e si era alleata con quelle bestie ghignanti e i loro eserciti di robot che camminavano al passo dell’oca? Il grido della vecchia basca a Bayonne, «Alemanes! Criminales! Bestiales! Animales!» mi risuonava ancora all’orecchio. Come poteva Boud, persona dall’enorme gusto innato, artista e poeta sin dall’infanzia, avere sposato il loro crudele nichilismo? Era stata un’eccentrica tutta la vita, completamente al di fuori delle regole del comportamento normale, e istitutrici, genitori e la preside del suo collegio (che aveva diplomaticamente informato mia madre che, dal momento che molte ragazze lasciano la scuola a sedici anni, non capiva perché Unity non potesse fare come loro) non erano mai riusciti a controllarla, eppure aveva entusiasticamente adottato la filosofia più mortalmente conformista di tutte. Era sempre stata capace di odiare in maniera magnifica – come tutti noi, forse con l’eccezione di Tom – ma avevo sempre pensato che lo facesse in modo intelligente e avevo ammirato la sua abilità di ridurre i più sgradevoli tra gli adulti a uno stato di acuto disagio nervoso con uno dei suoi brucianti sguardi d’odio. Ma quando aveva scritto con allegria a Der Stürmer: «Voglio che tutti sappiano che odio gli ebrei», avevo capito che aveva completamente dimenticato lo scopo di quell’odio e si era messa una volta per tutte dalla parte di chi odia.

È forse inutile cercare di interpretare le azioni di un altro – ci si può sbagliare completamente; ma avevo sempre l’idea che questo ultimo atto di consapevolezza della sua vita, quel tentativo di autodistruzione, fosse un modo di riconoscere le straordinarie contraddizioni in cui si trovava, e che la dichiarazione di guerra fosse semplicemente stata l’occasione per un gesto, che in ogni caso avrebbe prima o poi compiuto comunque.

Rimpiangevo i giorni boudledidge di Boud, la mia gigantesca e brillante avversaria per il T.P.P., quando litigavamo – erano passati solo tre o quattro anni, ma mi sembrava una vita – sotto le bandiere con la svastica e la falce e martello. Sapevo di non potermi aspettare che Esmond, che non l’aveva mai conosciuta, provasse qualcosa di più che disgusto per lei, quindi stringemmo il tacito accordo di evitare di discuterne.