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Martha’s Vineyard era raggiungibile con un breve tragitto in barca da Woods Hole. Sentieri ombrosi tra i boschi, seminascosti dai cespugli, portavano a una quantità di capanni e casette, costruiti con studiata rusticità ma lussuosamente equipaggiati per essere affittati d’estate. Quello che i newyorchesi chiamano «la vera campagna». Io e Esmond ci rifugiammo in uno di questi.
Fummo accolti da Seldon Rodman e sua moglie, con cui eravamo d’accordo di trascorrere alcuni giorni. All’epoca Seldon era condirettore di «Common Sense», una delle molte piccole riviste liberali e vagamente di sinistra che a quei tempi fiorivano in America. Il manifesto era stampato sulla copertina interna: «Rivista mensile di azione sociale positiva, dedicata all’eliminazione della guerra e della povertà attraverso una ripartizione democratica della ricchezza».
Seldon era un uomo snello tutto nervi, con inconsueti occhi scuri, intensissimi. Aveva qualche anno più di Esmond ed era diverso da lui in tutto.
Ci sedemmo su alcuni tronchi d’albero piazzati strategicamente accanto al capanno, a bere vino e infilare le dita dei piedi nella polvere mista a foglie. «Avresti dovuto vedere quel maggiordomo. Grosso come Joe Louis. Ma alla fine si è rivelato davvero simpatico. Quando ce ne siamo andati gli ho offerto un dollaro, sai, come mancia. Mi ha strizzato l’occhio e ha detto: “Se lo tenga, giovanotto! Ne ha bisogno più di me”.» Esmond offrì ai Rodman un resoconto delle nostre avventure nel fine settimana, con gli occhi che brillavano felici e ogni tanto mi lanciavano un’occhiata complice mentre aggiungeva un particolare inventato per abbellire ulteriormente il racconto. Seldon ascoltava attento, ogni tanto faceva una domanda e rideva di una risata cigolante come una porta, la risata quasi dolorosa di chi non ride spesso. Stava cadendo vittima del peculiare incantesimo del fascino di Esmond, del suo umorismo e della sua abilità di narratore.
Più tardi fu il turno di Seldon, e nel crepuscolo incombente tirò fuori e lesse i manoscritti di parecchie poesie appena finite. Eravamo tornati in un territorio più familiare, la terra degli scrittori e dei pensatori, gli abitanti di un’americana Rotherhithe Street. L’Allegro Villaggio Inglese, l’agenzia pubblicitaria, i Curry Appleton erano diventati semplici sfondi, situazioni lievemente irreali che avrebbero potuto essere scene di un film o di un romanzo particolarmente vividi.
Scoprimmo che Martha’s Vineyard era una comunità estiva frequentata da persone di sinistra che coltivavano opinioni molto diverse. C’erano comunisti, trotskisti, socialisti indipendenti di ogni genere, e perfino un paio di anarchici, piuttosto rosicchiati dalle tarme. Le discussioni toccavano tutti i campi, dall’arte alla politica, dalle teorie psicanalitiche all’ultimo romanzo di Tizio.
Il capanno dei Rodman, dove alloggiavamo, era diviso in due stanze arredate, bagno e cucina. Dopo un paio di giorni Esmond decise che sarebbe stato più economico lasciare il nostro, per risparmiare l’affitto. Visto che la direzione era a una certa distanza, riuscimmo a continuare a dormirci senza attirare l’attenzione. Ogni mattina sgattaiolavamo fuori, trasportando sui sentieri le nostre valigie vuote, e passavamo davanti alla direzione in maniera il più ostentata e visibile possibile, sperando di sembrare due persone che si erano accampate altrove ed erano appena arrivate per trascorrere la giornata lì. I Rodman furono gentili, ma quella sistemazione li turbò un poco. La situazione sembrava confermare la loro opinione di Esmond e dare credibilità alle sue storie fantastiche di imprese passate.
I giorni passarono in maniera molto piacevole, inframmezzati dalle pulizie al capanno, da camminate nei boschi e ore trascorse distesi sulla soffice spiaggia bianca. Ma in sottofondo c’era sempre la radio, che tuonava notizie sulla guerra imminente...
Era un po’ come trovarsi a una festa meravigliosa con un fortissimo mal d’orecchio. Ci sono tutti i tuoi amici e la conversazione è affascinante. Ma a un tratto quell’orribile fitta di dolore ti travolge. Bevi qualcos’altro, la testa ti gira piacevolmente; ma in sottofondo l’orecchio ti fa un male da morire. Forse non avresti dovuto venire...
Distesi sulla sabbia, nel sole cocente, sentimmo la notizia alla radio portatile dei Rodman: «Firmato patto di non aggressione tra il governo sovietico e quello nazista... Ribbentrop a Mosca... Il “Daily Worker” non si pronuncia...».
Le discussioni politiche divennero più accese che mai. Venimmo a sapere che poco dopo l’arrivo della notizia un importante comunista aveva incontrato un ben noto trotskista appena giunto a Martha’s Vineyard da New York. «Cosa diresti se Hitler e Stalin firmassero un patto di amicizia e non aggressione?» domandò il trotskista. «Impossibile. Non può succedere» rispose il comunista, al che il trotskista tirò fuori tutto trionfante l’ultimo numero del «New York Times» con i titoli di testa che proclamavano il contrario. La notizia parve lasciare di stucco i comunisti dell’isola. Esmond se la prendeva con tutti i nuovi arrivati per difendere il realismo della posizione sovietica.
«Per anni e anni hanno insistito sulla sicurezza collettiva. Per tutta l’estate hanno cercato di concludere un’alleanza con l’Inghilterra, allo scopo di fermare Hitler. Ma la grandiosa strategia di Chamberlain e Daladier è stata preparare un attacco sferrato da Hitler all’Unione Sovietica. Quindi, se Hitler attua le sue minacce e marcia contro la Polonia, cosa credete che faranno inglesi e francesi? Se ne staranno lì fermi e spereranno che vada verso est, naturalmente.»
Perdeva la pazienza anche con quelli che gridavano al tradimento e con i comunisti ortodossi che, una volta riavutisi dallo shock, avevano iniziato a interpretare quella notizia come la fine dei giorni del fascismo e la necessità di cercare quella che loro chiamavano la «pace» con Hitler. Sentimmo dire che Harry Pollitt era stato rimosso dal suo incarico di segretario del partito comunista inglese perché aveva fatto diffondere un volantino, considerato inappropriato dai suoi colleghi, in cui invocava aiuti alla Polonia contro Hitler. Esmond andava su tutte le furie per quella che lui considerava l’incapacità comunista di comprendere la politica. Era convinto che il maggior pericolo fosse l’incapacità dell’imperialismo inglese e francese di impedire la guerra, che avrebbe potuto trasformarsi in una crociata fascista contro il comunismo all’interno delle democrazie occidentali che se ne stavano a guardare o si erano attivamente schierate con Hitler. Quando finalmente arrivò la notizia deludente che Inghilterra e Francia avevano dichiarato guerra, non accadde nulla in grado di fargli cambiare idea. Il blitzkrieg contro la Polonia stava proseguendo a pieno ritmo. Inghilterra e Francia non mossero un muscolo.
Le lettere che giungevano da casa ci davano un quadro cupo, depresso e confuso della situazione. Dopo il patto nazi-sovietico, la sinistra si era malamente divisa e disorganizzata. La tanto attesa guerra contro il fascismo era piombata in una situazione in cui l’unità degli antifascisti non esisteva più e l’Inghilterra era guidata dal governo pro-fascista di Chamberlain. Qualcuno a Londra ci inviò una copia di «The Week», il nuovo quotidiano politico di Claud Cockburn, molto informato sul «dietro le quinte». Leggemmo:
In alto loco, a Londra, c’è chi considera un assioma che la guerra non venga condotta in modo da portare al crollo totale del regime tedesco e alla nascita in Germania di una specie di governo «radicale». Si tratta di circoli indirettamente collegati a certi ambiti militari tedeschi – e l’intermediario è l’ambasciata americana a Londra...
Esmond sosteneva che finché Chamberlain fosse rimasto al potere non ci sarebbe stato alcun preparativo genuino per la guerra e che era probabile che fossero in corso delle manovre doppiogiochiste. L’articolo di «The Week» fu suffragato da altre dicerie di continui negoziati tra il Cliveden Set e il loro equivalente negli ambienti industriali tedeschi. Dopo lunghe discussioni, decidemmo di non tornare a casa finché non fossero davvero iniziati gli scontri e avessimo capito da che parte schierarci. Avremmo continuato il nostro tour degli Stati Uniti, tenendo sempre d’occhio i giornali, e avremmo preso una decisione a seconda di come si fosse evoluta la situazione.
Poco dopo lo scoppio della guerra, Winston Churchill diventò membro del gabinetto Chamberlain. Mentre eravamo ancora a Martha’s Vineyard Esmond scrisse un articolo su suo zio per «Common Sense», profeticamente intitolato: Il prossimo Primo ministro inglese in cui sottolineava che Churchill, «politicamente nell’ombra» tra le due guerre mondiali nel suo ruolo di leader di un piccolo gruppo minoritario di conservatori di estrema destra, avrebbe probabilmente fatto un sensazionale ritorno sulle scene – «sta aspettando con fiducia che gli vengano consegnati i pieni poteri». Mentre la stampa americana si interrogava sull’«enigma» Churchill, di recente alleatosi con la sinistra per tutti i problemi di politica estera, Esmond spiegò le origini di questo legame. Descrisse Churchill come un campione coerente degli interessi imperialisti britannici:
L’aumento del prestigio di Churchill può essere fatto risalire all’aggravarsi del problema dell’imperialismo britannico contro l’espansione tedesca e italiana. Questo problema, naturalmente, non ha nulla a che fare con quella cosa chiamata «sicurezza collettiva» o con il problema della «democrazia» contro il «fascismo»... Oggi, con la stella di Churchill nuovamente in ascesa, non è possibile immaginare che guiderà un governo di fronte popolare. Potrà ottenere il sostegno dei laburisti, certo – cos’altro possono fare i laburisti se non sostenere l’uomo che si prepara a combattere Hitler? – ma accadrà soltanto alle sue condizioni.