21

Tornammo in Rotherhithe Street verso la fine dell’estate del 1938. Anche se i raduni di massa e le feste per raccogliere fondi per la causa lealista erano sempre molto diffusi, l’atmosfera era cambiata. La sensazione di vittoria dei primi giorni della guerra era scomparsa per sempre. Anche la magnifica offensiva dell’Ebro di luglio, in cui i lealisti riversarono tutte le proprie risorse, non cambiò la situazione di fondo. Franco controllava ancora i tre quarti del paese.

Mentre l’offensiva si riduceva a una serie di battaglie non decisive, era chiaro che lentamente, giorno per giorno, stavamo perdendo la guerra, e che lentamente, uno per uno, i sostenitori inglesi dei lealisti stavano cominciando a perdere le speranze.

Nelle sale riunioni piene di spifferi, da Bermondsey a Hampstead Heath, dove si radunavano a raccogliere soldi per la Spagna, l’umore di quelle folle sterminate e incupite sembrava fuori sincrono rispetto all’ottimismo ancora più forzato di chi parlava dalla tribuna.

Al tempo stesso, la guerra di Spagna stava scomparendo dalle prime pagine a favore di ciò che accadeva in Europa centrale, dove si stava preparando l’ultima, amara battaglia per la sicurezza collettiva contro l’Asse. Un milione di tedeschi erano ammassati lungo la frontiera cecoslovacca. Secondo i giornali, Goering aveva dichiarato di sapere per certo che se l’esercito tedesco avesse marciato sulla Cecoslovacchia gli inglesi non avrebbero alzato un dito.

Era difficile dire come avrebbero reagito i politici inglesi e francesi. Gli uomini discreti e impenetrabili del Cliveden Set, con i loro ombrelli ben chiusi che rappresentavano così bene la chiusura delle loro menti, andavano e venivano dalle missioni nella zona interessata e riferivano molto poco. Lord Runciman andò a Praga con quaranta valigie e fece infuriare i cechi fraternizzando con i leader nazisti. Cos’altro avesse fatto a Praga, non emerse molto chiaramente dai giornali.

L’ombra si incupì per tutto settembre. A Rotherhithe Street si discuteva, a disagio, su cosa sarebbe accaduto e se il governo avrebbe colto l’ultima opportunità di fermare Hitler e scongiurare la guerra. Nessuno di noi pensava seriamente che stavolta ci sarebbe stata una capitolazione completa ai nazisti. Bastavano i numeri a dimostrarlo. Se mai la determinazione di milioni di persone è sembrata una forza tangibile, è stato allora. Ripensai alle grandi manifestazioni che avevamo visto a Bayonne – giovani antifascisti, giovani socialisti, giovani comunisti che marciavano sotto gli striscioni del Front Populaire a infinite migliaia. Mi tornarono in mente frammenti dei loro canti commoventi – non eravamo mai riusciti a capire tutte le parole: «Prenez garde! Prenez garde! C’est la lutte finale qui commence!» e «Ça ira, ça ira, ça ira, ça ira, tous les fascistes on les pendra!».1 Non avrebbero mai permesso che il loro governo si arrendesse a Hitler. La Russia non avrebbe mai lasciato che accadesse. Nemmeno i lavoratori inglesi l’avrebbero mai permesso; perfino il Congresso dei Sindacati, che frequentemente era di mentalità ristretta, fece potenti dichiarazioni contrarie al gettare i cechi in pasto ai lupi e ammonì che poteva essere l’ultima possibilità dell’Europa per evitare un’altra guerra mondiale.

La cricca di Chamberlain allungava le antenne per cogliere le reazioni della gente all’eventuale decisione di abbandonare la Cecoslovacchia al suo destino: reazione che fu all’unanimità negativa. Quando il «Times» suggerì blandamente di permettere ai Sudeti, territorio tedesco entro i confini cecoslovacchi, di staccarsi e unirsi alla Germania, la proposta incontrò una forte opposizione non solo in Europa, ma anche da parte di quasi tutta la stampa inglese.

Ero a Southampton a fare una ricerca di mercato quando arrivò la notizia che Chamberlain e Daladier avevano stabilito il destino della sicurezza collettiva alla quale i loro governi si erano apparentemente votati. Al crepuscolo gruppetti di persone si radunarono agli angoli delle strade, dove c’erano le edicole – spettacolo inusuale in Inghilterra, ricordava di più l’emotiva Parigi, dove la caduta del governo, uno scandalo finanziario o perfino un caso di omicidio particolarmente interessante spesso causano un grande e spontaneo interesse verso le edizioni della sera. «PACE NELLA NOSTRA EPOCA!» Quella scritta enorme e nera citava le prime parole alla stampa del Primo ministro all’aeroporto, al suo ritorno da Monaco. Era accaduto l’incredibile: la completa capitolazione alle condizioni di Hitler; la Cecoslovacchia lasciata in mano ai nazisti... come sperava, Chamberlain, di cavarsela dopo un simile tradimento? Solo la settimana prima avevamo partecipato a un’enorme e affollatissima riunione indetta dal Club del Libro di Sinistra in una sala dell’East End, uno degli strumenti usati all’epoca per protestare contro l’arrendevolezza verso i nazisti. Quella folla gigantesca e ordinata pareva così decisa, gli oratori così eloquenti e sicuri che la riunione avrebbe provato a Chamberlain che nessuno avrebbe accettato una capitolazione.

Mostrai il giornale a una collega ricercatrice. «Chamberlain? Oh, Chamberlain» ripeté in tono vago. «Ma il giornale dice che è per la pace. E questo è bene, no?»

Più tardi passeggiai per le strade di Southampton, quasi aspettandomi di trovare dei segni di rivolta spontanea; ma con mia grande sorpresa la gente si stava facendo i fatti suoi come al solito, e nell’aria non si percepiva alcuna traccia del disastro lontano solo poche centinaia di chilometri. I notiziari descrivevano già la confusione e la disperazione delle inevitabili moltitudini di rifugiati – un fenomeno con cui dal 1933 l’Europa aveva sviluppato anche troppa familiarità, dopo ogni mossa di Hitler.

Dopo un giorno o poco più i giornali locali riportarono l’annuncio di un raduno di protesta che si sarebbe tenuto nella sede di Southampton del partito comunista. Ci andai, sperando per il meglio; ma l’incontro si rivelò triste e deserto con più gente in tribuna che in platea. Il commento della mia collega, «Ma è per la pace, e questo è bene, no?» riassumeva la reazione della maggior parte della gente.

Ero più ansiosa del solito di tornare a Londra, per scoprire che ne pensava Esmond della nuova situazione. Lo trovai d’umore serio, infelice. Aveva perso tutte le simpatie dei nostri amici comunisti, che continuavano a compiere i soliti gesti dell’attività politica come se appartenessero a un’abitudine dura da sradicare – si affannavano da una riunione all’altra, stampavano migliaia di fogli ciclostilati, esortavano all’azione – ma ora tutto appariva come un agitarsi inutile. Era finita l’epoca in cui quelle attività potevano avere un significato e influenzare gli eventi. La tanto attesa tempesta di indignazione non si verificò.

In realtà, l’Inghilterra fu investita da un’ondata di sollievo cieco, perché per il momento il salto nel vuoto era stato rimandato. Ma era un sollievo senza speranza, come la notizia che una spaventosa operazione è stata rinviata per un impegno del chirurgo; nonostante la proroga il cancro può crescere e fiorire e un giorno il momento inevitabile arriverà. E a quel punto potrebbe essere troppo tardi. Lo spettro di un’Europa completamente nazista di lì a un paio d’anni non sembrava impossibile.

Il governo prese ogni genere di misure d’emergenza per preparare la gente alla guerra. In migliaia si misero pazientemente in fila per provare le maschere antigas, solo per scoprire che, per la fretta nella fabbricazione, avevano inavvertitamente omesso il filtro. Scavarono trincee a Hyde Park, causando la disapprovazione globale delle tate e le loro lamentele per le continue cadute dei bambini. A parte le battute amare suscitate da questi provvedimenti inutili, in generale l’atmosfera era pervasa da una calma spaventosa, da un apatico chinare il capo davanti all’inevitabile.

Ora le conversazioni vertevano non su «cosa faremo se scoppia la guerra» ma «cosa faremo quando scoppia la guerra». Già si discuteva sulle parti che avrebbe dovuto prendere l’Inghilterra. Philip, che riusciva ancora a frequentare parzialmente circoli di esaltati in cui era possibile raccogliere interessanti pettegolezzi politici provenienti dall’Altra Parte, era convinto che esistesse una reale possibilità che il governo Chamberlain tornasse al punto di partenza e che Inghilterra e Germania si alleassero contro la Russia.

Quanto sarebbe durato quel limbo di tristezza, né pace né guerra, nessuno era in grado di ipotizzarlo. Poteva trattarsi di mesi, oppure di anni. La leva obbligatoria era una conclusione ovvia e di lì a poco l’Inghilterra si sarebbe trasformata in un enorme e grigio accampamento semi-militare. «Un unico e gigantesco O.T.C.» come lo definiva Esmond tremando per il disgusto, «simile a un perenne raduno di boy-scout. Aspetta e vedrai; nel giro di pochissimo tempo monterà un’ondata di tipica impassibilità inglese, seguita da una nauseante epidemia di “coraggio da mamma con i capelli grigi” (che ricaccerà eroicamente indietro le lacrime) e tutti si dimenticheranno della sciocca questione di chi sarà il nostro avversario in guerra, e perché».

Non avevo mai visto Esmond così depresso e irrequieto. Lo attendeva la prospettiva di quella disciplina, incentrata su principi insignificanti, che detestava e a cui si era opposto per tutta la vita – la scarpa ben lustrata, il berretto sistemato con l’inclinazione giusta, il saluto scattante – i segni distintivi degli eserciti moderni, così piacevolmente assenti nella Brigata internazionale. Eppure il fine di quella disciplina sarebbe rimasto oscuro e ormai la decisione era solidamente e irrevocabilmente nelle mani dei molti che avevano sposato l’arrendevolezza.

Se Esmond rifletteva in quel momento la disperazione di una generazione che aveva perso il controllo del proprio destino, non era il tipo da restare disperato molto a lungo. Mentre riesaminava e scartava ogni possibile piano d’azione alternativo e ogni stile di vita, a un tratto gli venne l’idea: fino all’inizio della guerra saremmo andati a vivere in America.

1. «Attenti! Attenti! È l’inizio della lotta finale» e «Andrà bene, andrà bene, andrà bene, impiccheremo tutti i fascisti».