15

La casa della cugina Dorothy era accogliente e piacevole in modo delizioso. A differenza della gran parte delle dimore di campagna inglesi, le stanze erano sempre calde e luminose. Sembrava che i fuochi ardessero nel camino per tutto l’inverno, senza sosta. Non c’erano bambini, e per questo la casa aveva un aspetto silenzioso, pulito e senza tempo, così raro in quelle di altre zie e cugine. Conteneva molti dettagli vecchio stile; arance piene di chiodi di garofano nei cassettoni, il tè servito la mattina presto in camera da letto e, per concludere la cena, piatti salati – funghi ripieni o involtini di pancetta imbottiti di fegato di pollo. La cugina Dorothy amava la compagnia ed era gentile soprattutto con i giovani, a differenza di gran parte dei miei parenti adulti.

Arrivai per prima perché avevo preso il primo treno del pomeriggio del venerdì. Durante il tè, in soggiorno, la cugina Dorothy mi disse chi sarebbero stati gli altri: «Una giovane coppia americana molto carina» (era famosa perché aveva «un debole» per gli americani) «e tuo cugino, Esmond Romilly. È appena tornato dalla Spagna, l’avrai letto sui giornali».

Per un istante la tensione dell’attesa mi fece quasi svenire.

Ovviamente ero innamorata di Esmond da anni, dal primo momento che avevo sentito parlare di lui. Anche se ero fermamente convinta che è possibile fare innamorare qualcuno di te, se ti ci metti davvero – me l’avevano detto le mie sorelle più grandi, e sentivo che doveva essere così – adesso che stavo per incontrarlo ero piena di dubbi e timori.

Pensai incupita alla concorrenza di tutte le sue amiche sconosciute; immaginai delle fanciulle dell’East End, somiglianti a Elizabeth Bergner, donne più grandi e affascinanti, di sinistra, perfino coraggiose partigiane incontrate al fronte in Spagna. Senza dubbio erano tutte bellissime e magre.

Per prepararmi per la cena ci misi un tempo eccezionalmente lungo. Alla luce rosata delle graziose abat-jour della mia camera, trovavo di non essere poi tanto male. Al piano di sotto sentivo il rumore degli altri ospiti che arrivavano.

Avevo un abito di lamé mauve, al ginocchio; era molto carino, ma certo non comodo. Notai con grande irritazione che odorava un poco di stagno. Quando lasciai la mia stanza calda per quell’attimo gelido sul pianerottolo e sulle scale, fui percorsa da brividi nervosi e mi misi leggermente a sudare.

Gli altri ospiti erano radunati intorno al fuoco in soggiorno.

«Decca, questi sono la signora e il signor Scott; la mia giovane cugina, la signorina Mitford; e questo è tuo cugino, cara, Esmond Romilly. Devi avere freddo, vuoi un bicchierino di sherry?»

Finite le presentazioni, iniziai a chiacchierare con il signor Scott, un giovane insegnante americano, ma guardavo Esmond con la coda dell’occhio. Era più basso di come l’avevo immaginato, molto magro, con occhi brillantissimi e ciglia lunghissime.

A cena ero seduta tra lui e il signor Scott. Soltanto a metà del pasto ebbi la possibilità di rivolgergli la parola.

«Esmond, hai intenzione di tornare in Spagna?» gli domandai.

«Sì, tra una settimana, più o meno.»

Non aveva senso menare il can per l’aia – allora, o mai più. Con la strana sensazione di un tuffatore sul punto di lanciarsi da una grande altezza in acque sconosciute, dissi a bassa voce: «Be’, mi stavo chiedendo se mi puoi portare con te».

«Sì, potrei, ma non parliamone ora» rispose, guardandosi attorno per vedere se c’era qualcuno in ascolto. Era come se si fosse aspettato quella domanda e avesse già deciso la risposta. Più tardi scoprii che Peter e Giles avevano riferito a Esmond dei miei tentativi falliti di raggiungere la Spagna e che lui, con il consueto entusiasmo che provava verso i compagni di fuga, aveva pensato alla maniera migliore di aiutarmi.

La cugina Dorothy trattava Esmond con grandissimo affetto, più come una madre amorosa tratterebbe un bambino birichino. Lui stava al gioco, scherzarono molto sulle condizioni disgustose dei suoi calzini, scoperti dalla cameriera che aveva disfatto le sue valigie, e si chiesero se il suo stato di salute gli permettesse le enormi quantità di pudding che consumava.

Dopo cena lei insisté perché raccontasse le sue avventure nella Brigata internazionale; ma lui era più interessato alla posizione dell’Inghilterra verso la guerra civile, e come sarebbe stato possibile cambiarla. Si rifiutò di lasciarsi ingabbiare nel ruolo di «animale da circo sociale» o di vantarsi delle sue imprese. Naturalmente gli Scott restarono molto colpiti da lui. Io mi accontentai di stare ad ascoltare in silenzio, perché avevo la sensazione di essere sul punto di raggiungere l’obiettivo di una vita. Per qualche ragione non ebbi mai, nemmeno per un istante, la preoccupazione che Esmond avrebbe cambiato idea, o che ci sarebbe stato impedito di partire.

Quella notte restai distesa nel letto completamente irrigidita dall’eccitazione e dall’attesa. Mi svegliai molto prima dell’arrivo del tè e del pane tostato, alle sette e mezza, e fui la prima a scendere per colazione. Esmond arrivò poco dopo. «Parleremo dei nostri piani più tardi» mi disse in fretta, tra un boccone e l’altro di uova e salsiccia.

Dopo colazione ci fu il solito disordinato raduno di ospiti in soggiorno, il fruscio dei giornali del mattino e l’accensione delle sigarette.

Pareva che Esmond stesse cercando un’occasione per separarmi dagli altri, come un giocatore di sciangai che rimuova attentamente uno dei bastoncini d’avorio senza disturbare tutto il mucchio. Suggerì di andare a fare una passeggiata; gli Scott alzarono lo sguardo speranzosi. «Non staremo via molto» disse Esmond in tono fermo e con sufficiente determinazione a impedire loro di seguirci.

Uscimmo nella campagna gelida e fangosa, lui parlava rapido e nervoso, la testa bassa per opporsi al vento. Si tuffò immediatamente nei progetti per la nostra fuga. Il «News Chronicle» gli aveva già offerto un anticipo di dieci sterline per tornare in Spagna come corrispondente; io avrei potuto seguirlo come sua segretaria. «Ma non so battere a macchina» risposi, sentendomi disperatamente stupida e inadeguata. Esmond mi assicurò che non aveva importanza, perché si batteva tutte le sue cose da solo. Gli parlai delle mie cinquanta sterline per la Fuga da Casa. La sua bella faccia si illuminò tutta. «Ma è assolutamente meraviglioso» disse con grande interesse ed entusiasmo; pareva che questo rimediasse alla mia mancanza di abilità nella dattilografia.

Il problema più urgente era come portare a termine la mia parte del piano. Come avrei fatto a starmene lontana da casa anche per un periodo di tempo minimo senza suscitare sospetti? Passai la notte a cercare una soluzione, e la mattina esposi tutta orgogliosa a Esmond il mio piano. Mi sarei confidata con mia cugina Robin, che era sposata e viveva in campagna, e avrei detto a mia madre che sarei andata da lei per il fine settimana. Robin, dal canto suo, mi avrebbe coperta se qualcuno mi avesse cercato a casa sua.

Esmond lo bocciò immediatamente. Con pazienza mi spiegò che violava parecchie regole fondamentali per la riuscita di una fuga; non bisognava dire nulla ad anima viva, era troppo rischioso; un fine settimana non bastava per raggiungere la Spagna, perché avremmo potuto incontrare imprevisti. Ne fui un po’ delusa, perché non vedevo l’ora di intavolare una lunga chiacchierata con Robin e Idden e pregustavo già la loro reazione sconvolta, non appena fossi tornata a Londra.

Ci stavamo avvicinando a un campo di stoppie.

«Saresti capace di attraversare quel campo di corsa con un equipaggiamento completo?» mi domandò a un tratto Esmond.

«Oh, ma certo» dissi, ma dovevo essere lievemente impallidita perché lui scoppiò a ridere e rispose:

«Be’, forse non dovrai farlo. Ma non sarebbe una cattiva idea se nei prossimi giorni ti esercitassi in queste cose, tanto per sicurezza».

Fui sollevata quando lasciò cadere l’argomento e tornò sui metodi di fuga. Avevamo bisogno di almeno due settimane coperte, insisté. Dovevo pensare a una scusa adeguata per starmene lontana da casa per quel periodo, qualcosa che avrebbe riscosso la piena approvazione dei miei genitori, in modo da ridurre al minimo il pericolo che ci scoprissero.

A un tratto mi venne un’idea. Avevo appena ricevuto una lettera delle gemelle Paget, due ragazze che avevano debuttato insieme a me. Mi avevano scritto che erano in Austria e ci sarebbero rimaste parecchi mesi; quindi non c’era alcun pericolo che mia madre le incrociasse a Londra. Conosceva appena la loro zia, con cui le ragazze vivevano, per cui i rischi erano minimi anche in quella direzione. Potevo falsificare una lettera in cui le gemelle mi chiedevano di raggiungerle.

Esmond ne fu immediatamente entusiasta. Esaminò l’idea da tutte le angolazioni e ne discusse come al solito in lungo e in largo, sforbiciandola e correggendola. Invece che dall’Austria, suggerì, avrei dovuto far sì che l’invito arrivasse da Dieppe e raccontare che la zia delle Paget vi aveva affittato una casa per alcune settimane. In quel modo i miei genitori mi avrebbero pagato il biglietto del treno fin là e avrei risparmiato qualche sterlina del mio fondo per la Fuga. Restai affascinata dalla sua maniera straordinariamente pratica di vedere le cose, dal realismo con cui affrontava le difficoltà che avremmo incontrato sulla nostra strada, e dalla creatività con cui ideava metodi per superarle.

Si offrì di aiutarmi a scrivere la lettera delle gemelle Paget. Ne fui sollevata, perché non ero sicura che sarei riuscita a portare a termine da sola nemmeno la più semplice parte del piano.

Quando tornammo il soggiorno era vuoto e ci mettemmo al lavoro con carta e penna.

«Cosa state escogitando, voi due?» esclamò la cugina Dorothy entrando all’improvviso.

«Oh... stavo solo mostrando a Decca un pezzo di un articolo che sto scrivendo.» Restai molto colpita dalla facilità con cui Esmond mentiva, anche se era chiaro che l’interruzione l’aveva irritato. Lo imitai e quand’erano presenti gli altri gli rivolsi pochissimo la parola. Dovevamo aspettare il lunedì mattina, sul treno per Londra, per discutere di nuovo il nostro piano.

Esmond mi avvisò di non dire a nessuno che aveva trascorso il fine settimana dalla cugina Dorothy. Era estremamente cauto e voleva prevedere ogni possibile fuga di notizie.

«Dopo tutto, certe persone già sanno che vuoi andare in Spagna» disse. «Se scoprono che siamo stati da lei tutti e due, potrebbero insospettirsi.»

Decidemmo di partire la domenica seguente, così avremmo avuto una settimana per richiedere i documenti all’ambasciata spagnola e per ottenere l’equipaggiamento necessario.

«Tuo padre ha un conto aperto in qualche grande magazzino? Forse mi servirà una buona macchina fotografica e sarà meglio non intaccare i tuoi contanti, a meno che non sia strettamente necessario.» L’idea mi scioccava un poco, ma tacqui e acconsentii subito.

Ci separammo alla stazione, dopo avere convenuto che gli avrei telefonato a casa di sua madre in Pimlico Road alle dieci di ogni mattina. Se mi avesse telefonato lui e avessero risposto mio padre o mia madre, gli avrebbero chiesto di presentarsi. Tuttavia, nel caso che si fosse manifestata un’emergenza imprevista e lui avesse avuto la necessità di chiamarmi, stabilimmo che si sarebbe spacciato per Robert Brandon, un giovanotto che avevo conosciuto l’estate prima a un ballo.

Presi un taxi per raggiungere casa nostra in Rutland Gate, sentendomi molto strana. Da bambini, io e le mie sorelle avevamo spesso discusso di come avemmo fatto a capirlo, quando ci fossimo davvero innamorate. Evidentemente tutte si interrogavano sulla stessa cosa, perché le rubriche della Posta del Cuore erano piene di frasi confortanti come: «Non preoccuparti, cara, quando arriverà l’uomo giusto, lo capirai». («O il Duca Azzurro» come commentava speranzosa Debo). In quel momento capii che era un consiglio saggio. Ero completamente e perdutamente innamorata; non ero stata capace di togliere gli occhi di dosso a Esmond per tutto il fine settimana. Avevo visto gli Scott soccombere al suo fascino straordinario, come alberi che cadono lentamente investiti dal vento. Anche se Esmond era il più giovane tra i presenti, era come una stella attorno a cui girava tutto. Un vento, una stella; rappresentava per me tutto ciò che era luminoso, attraente e potente e mi chiedevo cosa pensasse di me. Avevo avuto un piccolo indizio; una sera dalla cugina Dorothy avevamo giocato una specie di primitivo gioco da salotto, allora molto popolare, in cui ciascun ospite assegnava agli altri dei punti per diverse qualità – bellezza, senso dell’umorismo, intelligenza, sensualità e così via. I punteggi vennero sommati e annunciati e i voti restarono anonimi. Terrorizzata al pensiero di essere scoperta, mentre dormivano già tutti ero scesa in vestaglia per recuperare i foglietti accartocciati dal cestino. Ne scartai due scritti in una calligrafia molto ordinata che reputai opera di Scott; un altro, dalla scrittura angolosa e vecchiotta, doveva essere della cugina Dorothy, e poi riconobbi il mio. Questo lasciava fuori uno scarabocchio a matita in cui ricevevo dei «10» pieni – il voto massimo. Doveva essere il foglietto di Esmond. A parte questo, non avevo altre indicazioni.

Mi parve quasi sorprendente che a casa non fosse cambiato nulla. Mia madre stava facendo i conti alla scrivania del suo salottino.

«Ciao, piccola D. Ti sei divertita dalla cugina Dorothy?»

«Sì, molto. E poi si mangiava benissimo.»

«C’era molta gente?»

«No... solo due americani, il signore e la signora Scott.»

«Be’, adesso dobbiamo cominciare a pensare agli abiti per la crociera. In questi giorni ci sono degli ottimi saldi e domani vengono a pranzo Dora e sua madre. Pensavo che tu e Dora potreste andare a fare spese, quindi non prendere altri impegni.» La cosa mi irritò moltissimo, perché avevo contato su un’intera settimana libera per concentrarmi sul milione di cose da fare per il piano Fuga da Casa.

«Perché non possiamo aspettare fino alla settimana prossima?»

«Be’, per prima cosa la madre di Dora insiste perché faccia il vaccino contro il tifo. Io trovo che sia un’assurdità, non lascerei mai che qualcuno iniettasse quella robaccia orribile nel Corpo Sano dei miei figli. E prima di fare le iniezioni Dora vuole finire di fare gli acquisti.»

Era una cattiva notizia, ma se mi fossi messa a fare storie avrei suscitato sospetti. Fui nervosa tutto il giorno e non riuscii a portare a termine nulla. Per il tè venne a trovarci la cugina Bridget e ci furono le solite chiacchiere.

«L’altro giorno ho visto la povera Nelly» disse la cugina. «È molto preoccupata per Esmond. Che piccola peste!»

Più tardi venni a sapere che secondo Bridget mi stavo comportando in maniera molto strana; aveva notato che ero diventata «pallida come una morta» e che ero uscita di corsa dalla stanza.

Quella sera dovevo portare a termine la prima parte del piano di fuga. L’ultima posta di solito arrivava verso le dieci e mezza. Infilai nella tasca della vestaglia la finta lettera delle gemelle Paget e scesi le sette rampe di scale che dalla mia stanza portavano alla porta d’ingresso. Niente poteva andare storto; dovevo curare ogni dettaglio. Mi chinai e feci perfino finta di raccogliere la lettera. Con il cuore che mi batteva furiosamente, salii in camera di mia madre e bussai alla porta.

«Avanti... Sei tu, piccola D.?» Mia madre era a letto e leggeva, con i capelli sciolti sulle spalle. Per fortuna la lampada del comodino proiettava un’ombra nel punto in cui mi trovavo, perché sentivo che la mia faccia era rosso barbabietola.

Maledissi la mia voce incrinata mentre dicevo: «Senti, ho appena ricevuto una lettera dalle gemelle. Vogliono che vada da loro a Dieppe... guarda...».

Le tesi il foglio sperando che non notasse che tremavo tutta. Avrebbe riconosciuto la mia calligrafia? L’avevo scritta con grande attenzione, con l’inclinazione sbagliata e lunghe lettere sottili ed esili. Come plausibile indirizzo di Dieppe avevo scelto rue Napoléon 40 perché avevo dimenticato di chiedere a Esmond il nome di una strada vera di quella città. La lettera era piena di osservazioni appropriate e «particolareggiate» come: «La zia ha preso in affitto una deliziosa casetta bianca vicina al mare... saremo un bel gruppo, vengono anche alcuni ragazzi di Oxford con un’auto a noleggio, quindi potremo andarcene in giro...». Quest’ultima frase mi era stata suggerita da Esmond, così durante il nostro viaggio avrei potuto scrivere a mia madre da diverse cittadine francesi del sud senza suscitare sospetti.

«Be’, sembra stupendo» disse mia madre in tono dubbioso, «ma l’unico problema è che hai un sacco di cose da fare per prepararti alla crociera. E i vestiti? Secondo me due settimane sono davvero troppo...»

«Sì, lo so» intervenni rapida, «ma pensavo che a Dieppe potrei comprare dei deliziosi vestiti francesi. Mi piacerebbe tanto andarci, sembra davvero meraviglioso, ti prego, posso?»

«Ti invitano per domenica prossima. Be’, va bene. Però forse non potrai restare due settimane intere.» (Era fatta! Mi sembrava incredibile).

«Bene, allora scrivo subito alle gemelle. Mi chiedevo anche se puoi darmi un anticipo dei soldi per i vestiti, così a Dieppe potrò comprare le cose per la crociera.» (Quest’idea mi era venuta in mente lì per lì e sapevo che a Esmond sarebbe piaciuta).

«Sì, mi sembra ragionevole. Bene, buonanotte, tesoro, possiamo parlarne domattina.»

Scappai via sollevata, mi sentivo una tempesta nel cuore. «Andrò in Spagna con Esmond Romilly.» Per tutta la notte quelle parole magiche echeggiarono continuamente nella mia testa.

«Ma che diavolo ci fai in piedi a quest’ora?» mi chiese la tata alle sette della mattina successiva.

«Niente, cara.» La abbracciai con tanto impeto da sollevarla da terra.

«Smettila con queste sciocchezze, Jessica. Adesso vieni qui, guardiamo la tua biancheria per vedere di cosa hai bisogno per la crociera.»

Mi sembrarono ore prima che arrivassero le dieci.

«Non posso vederti fino a domani» dissi a Esmond a voce bassa.

«Cosa? Perché?»

«Non posso spiegarti. Però la lettera andava bene.»

Altre ore fino a pranzo; quel giorno tutto mi parve svolgersi al rallentatore – l’arrivo di Dora e sua madre; i pochi minuti in soggiorno a sorseggiare uno sherry prima di metterci a tavola; la cameriera che annuncia «il pranzo è servito» – tutto si svolse in un’atmosfera rarefatta di innaturale normalità. A pranzo, naturalmente, la conversazione ruotò intorno alla crociera; non riuscivo a seguire i discorsi e due o tre volte dovetti essere riportata bruscamente alla realtà da mia madre con uno scossone.

«Ma cos’hai, piccola D.? Oggi mi sembri così assente.»

Finito il pranzo, Dora, sua madre e io uscimmo per andare a fare spese. Mi sentii un po’ colpevole mentre le guardavo scegliere caschi coloniali da tre ghinee e altri indumenti adatti per i caldi climi indiani dove sapevo che non sarei mai andata.

«Allora ci vediamo domani verso l’una» disse Dora quando finimmo.

«COSA?»

«Sì, Lady Redesdale mi ha di nuovo invitato a pranzo per domani, non hai sentito?» Non avevo sentito ed ero determinata a evitare un’altra giornata come quella. Decisi che dovevo ideare un piano alla Esmond per liberarmi di Dora il prima possibile.

Il giorno seguente dovevo assolutamente incontrarlo. «Alle due e mezza all’ingresso principale di Peter Jones» gli dissi.

A pranzo Dora propose: «Questo pomeriggio andiamo al cinema».

«Oh no, non posso... devo fare altre spese.»

«Vengo con te.»

«Ma sono spese molto noiose... calze, cose così.»

«Be’, vengo anch’io. Non ho nient’altro da fare.»

Falliti tutti i tentativi di levarmela di torno, mi decisi a portarla da Peter Jones. Restammo per un po’ al piano terra a guardare guanti e calze.

«Mi sono appena ricordata che devo salire a pagare un conto» le dissi. «Aspettami qui, vuoi? Non muoverti. Torno subito. Ma tu non andartene, altrimenti con questa folla non ti troverò più.»

Feci il giro e sfrecciai verso l’ingresso principale; per fortuna Esmond c’era già e uscimmo in fretta diretti verso l’ambasciata spagnola.

Uno spagnolo molto bello e molto alto esaminò i documenti di Esmond e la mia domanda.

«E qual è lo scopo del suo viaggio in Spagna, signorina Mitford?» domandò.

Esmond rispose per me.

«È la mia segretaria. Vede, credo che al fronte sarò piuttosto impegnato a trovare gli argomenti per gli articoli e avrò bisogno di qualcuno che me li batta a macchina. In genere la signorina Mitford lavora con me e mi farà da assistente...»

«Sì, sì, capisco... capisco perfettamente.» La faccia dello spagnolo si contrasse in una serie di sorrisi e con mia grande costernazione mi fece un bell’occhiolino da seduttore latino.

«Tuttavia la richiesta è piuttosto inusuale; temo che dovrà essere presa in esame dal señor Lopez. Potete trovarlo alla nostra ambasciata di Parigi.»

«Cosa facciamo?» domandai a Esmond quando uscimmo.

«Sto cercando di pensare. Prima dovremo andare a Parigi, immagino. Andiamo subito a comprare la macchina fotografica e in banca a ritirare i tuoi risparmi.»

Gli dissi dell’anticipo sui soldi dei vestiti e lui si dimostrò chiaramente compiaciuto nel vedere che stavo diventando una promessa nel campo dei tentativi di fuga.

«Altre trenta sterline, eccellente» disse.

Dopo avere comprato agli Army and Navy Stores una macchina fotografica estremamente complicata e costosa e averla accreditata sul conto di mio padre, scegliemmo un buon completo da fuga per me. Avevo osservato per ore le fotografie di partigiane spagnole sulle riviste settimanali illustrate, sapevo esattamente che cosa volevo, e lo trovai; un completo da sci in velluto a coste marrone con una giacca di foggia militare e un sacco di tasche. Comprammo anche delle etichette con la scritta DECCA MITFORD, INGLESA, che secondo Esmond avrebbero protetto le mie cose dal furto.

Quando arrivai a casa, Debo mi disse: «È tutto il pomeriggio che Dora ti telefona. È spaventosamente arrabbiata, dice che l’hai seminata di proposito da Peter Jones. Ma dove sei stata tutto questo tempo?».

Composi il numero di Dora.

«Insomma, Dora, te l’avevo detto di aspettarmi, lo sai quanto ci vuole per pagare i conti e tutte quelle storie lì.» Lei sostenne di avere aspettato più di un’ora e mezza. «Allora devo averti mancato di poco. Mi dispiace moltissimo. Buona fortuna con le iniezioni contro il tifo, spero che non facciano troppo male...»

Il resto della settimana Esmond e io riuscimmo a incontrarci ogni giorno senza grossi problemi. Il sabato prendemmo gli ultimi accordi per il giorno successivo.

«Mi troverai in fondo alla stazione» disse. «Per l’amor di Dio, non guardare nella mia direzione o roba del genere. Meglio che non ci parliamo finché non saremo sulla nave. Tutto pronto? Ci vediamo domani.»

La mattina dopo restai seduta sul letto a guardare la tata che mi preparava i bagagli. Mi diede qualche problema con il completo da fuga: «Davvero, tesoro, ma perché vuoi portarti via questa cosa orrenda? Non credo che sia il capo giusto da indossare a Dieppe».

«Oh, tata, sarà perfetto per girare in macchina, fammelo mettere in valigia.»

I miei genitori mi accompagnarono alla stazione in taxi. Con la coda dell’occhio, in fondo vidi Esmond.

«Divertiti, tesoro, e mi raccomando, scrivi. Ti scriverò anch’io, è rue Napoléon 40, vero? Fammi vedere se me lo sono appuntato da qualche parte.» Mia madre si mise a frugare nella borsa alla ricerca della lettera. «Allora arrivederci, ti sei ricordata di mandare un telegramma alle gemelle con l’orario d’arrivo?»

Una volta sistemata in treno ebbi il tempo di raccogliere le idee e valutare la situazione. Ero sicura che non sarei più tornata a casa di mio padre, e infatti era proprio così. E sebbene non rimpiangessi quella decisione nemmeno per un istante, provavo forti sensi di colpa perché non avevo lasciato a nessuno, neanche a Robin, un messaggio sulle mie reali intenzioni. Lo stomaco mi si stringeva al pensiero della scenata che si sarebbe verificata a casa quando l’avessero scoperto. Ma una possibilità ancora più orribile era che in qualche modo venissero a sapere in anticipo che non stavo andando dai Paget. E se mia madre avesse incontrato la loro zia in giro per Londra? Era altamente improbabile, ma... Le gemelle per fortuna erano in Austria per almeno altri due mesi, quindi nessun rischio... E comunque, se si fosse verificato un disastro del genere, ero certa che Esmond avrebbe trovato una soluzione.

Nella settimana trascorsa da quando ci eravamo conosciuti, le opinioni che mi ero formata su di lui leggendo Out of Bounds ne erano uscite assolutamente confermate. Pareva possedere una magica combinazione di determinazione, intelligenza e coraggio che l’avrebbero portato ovunque volesse andare, e avevo già sviluppato nei suoi confronti una fiducia incrollabile. Inoltre, lui sembrava ormai dare per scontato di avere preso le redini dei miei piani per scappare di casa. Mi preoccupava il pensiero di sembrargli infantile e inesperta, anche se avevo quasi un anno più di lui. Mi pentivo amaramente di non avere imparato lo spagnolo, o la dattilografia, o il giornalismo, in tutti quegli anni sprecati a Swinbrook! Nell’ultima settimana, ogni mattina mi ero alzata e avevo fatto ginnastica per allontanare il giorno orribile in cui mi avrebbero chiesto di attraversare di corsa un campo di stoppie con l’equipaggiamento completo; ma gli esercizi consistevano solo nel cercare senza successo di piegarmi e toccarmi le dita dei piedi, e non ero sicura che questo mi sarebbe servito...

Durante il viaggio in treno verso Folkestone, Esmond passò una volta davanti al mio scompartimento e mi rivolse un gran sorriso; presto fummo sulla nave e, superati il controllo doganale e quello dei passaporti, davvero in viaggio.

A Parigi prendemmo due stanze in un piccolo albergo sulla riva sinistra. La mattina dopo ci presentammo all’ambasciata spagnola.

«Mi dispiace, ma il señor Lopez è partito per Londra ieri sera.»

«Ma... non può essere! All’ambasciata, a Londra, ci hanno detto che l’avremmo trovato qui!»

«Mi dispiace molto. Tornerà solo tra due settimane. Ma lo potete trovare a Londra.»

Esmond era furibondo. Pregò e implorò di poter incontrare qualcun altro che potesse occuparsi dei miei documenti; ma ci assicurarono che il señor Lopez era l’unica persona in grado di aiutarci. Ci allontanammo verso il Bois de Boulogne. Esmond camminava avanti e indietro, irrequieto.

«Dobbiamo pensare... Qual è la cosa migliore? L’alternativa è recarci a sud e cercare di attraversare i Pirenei... no, credo che a quest’ora il confine sia chiuso... o tornare a Londra e cercare Lopez...» Soppesava le alternative a voce alta ma non parlava con me, come se sapesse che toccava a lui prendere tutte le decisioni.

Quel pomeriggio saltammo sul primo treno che tornava a Dieppe; l’unica era rientrare a Londra e trovare il señor Lopez.

Per la nave successiva diretta a Folkestone bisognava aspettare quattro ore. A un tratto a Esmond venne un’idea.

«Vediamo se esiste davvero una rue Napoléon» suggerì. «Probabilmente ce n’è una in tutte le città francesi.»

Chiedemmo informazioni in un caffè e scoprimmo che esisteva, a poco più di un chilometro dal porto, in un quartiere residenziale. Non solo c’era la rue Napoléon, ma anche il numero 40. Suonammo il campanello. Sulla porta comparve un francese compito stile Vecchia Europa in vestaglia di broccato rosso.

«Per caso le è arrivata una lettera indirizzata alla signorina Jessica Mitford?» domandai. «Per errore ho dato a degli amici il numero civico sbagliato e speravo che...»

«Be’, sì, eccola» rispose. «A dirle la verità stavo per ridarla al postino – arriverà a minuti. Lei è fortunata.» Mi tese la lettera, sulla busta c’era la familiare calligrafia tondeggiante di mia madre.

Ci ritirammo in un caffè sul molo, quasi increduli per la nostra fortuna. Ci pareva un miracolo che prometteva il successo dei nostri piani. La lettera, scritta il giorno che ero partita, era piena delle consuete notizie casalinghe: «Oggi è venuta la zia Weenie a prendere il tè e Debo è andata a cavalcare nel Row». Chiedemmo al garçon un foglio di carta da lettere e io scrissi: «Sono arrivata, tutto bene... mi fa piacere che tu abbia visto la zia Weenie, spero che stia bene... spero che Debo si sia divertita, a cavalcare nel Row». La imbucammo, esultanti. Sarebbe arrivata il giorno successivo con il timbro di Dieppe; in questo modo la situazione a casa sarebbe stata tranquilla per un po’.