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Mancavano quasi due ore alla partenza della nave. A un tratto Esmond diventò preoccupato e taciturno e suggerì di fare una passeggiata lungo il quai. Passammo accanto a file di caffè con le facciate intonacate a colori vivaci e menù scritti a mano alle porte. Ci sporgemmo dalla ringhiera per guardare imbarcazioni di tutti i tipi e forme che facevano manovra nella Manica agitata e ventosa.

«C’è una cosa di cui dobbiamo discutere» disse, molto serio. (Allora alla fine aveva deciso che la ricerca del señor Lopez era troppo ardua e ci faceva perdere troppo tempo, e che avrebbe proseguito per la Spagna da solo?)

Un altro lungo silenzio.

«Temo di essermi innamorato di te.»

Scegliemmo un caffè adatto per festeggiare il nostro fidanzamento con due fines à l’eau.1

Alcuni marinai si unirono ai festeggiamenti offrendo un brindisi dopo l’altro ai fiancés, e rischiammo di perdere il traghetto.

Ora al reparto pianificazioni c’era da aggiungere una nuova complicazione.

«Come diavolo faremo a sposarci?» esclamai. «Probabilmente dovremo avere il permesso dei nostri genitori.»

«Oh be’, non preoccupiamoci di questo» rispose Esmond, con un sorriso sardonico. «Un sacco di gente sostiene che i fidanzamenti lunghi sono i migliori.»

Ritornammo a Londra a sera inoltrata e Esmond suggerì di prendere un taxi fino a casa di Peter Nevile.

Peter venne alla porta in vestaglia, con un’aria assonnata e irritata. Per un attimo, quando sentì cosa ci era successo, si irritò ancora di più. Da allora ho imparato che una persona il cui «migliore amico» si fidanza si arrabbia inevitabilmente quando la notizia gli arriva all’improvviso e quando lui stesso non ha avuto alcun peso nel favorire la decisione.

Tuttavia quando iniziammo a discutere le possibili reazioni della mia famiglia si rallegrò.

Decidemmo che avrei scritto una lettera a mia madre e che Peter l’avrebbe consegnata nel momento più appropriato. Questo piano preoccupava Esmond, perché violava un certo numero delle sue regole, autentiche e sperimentate, per una fuga riuscita, come «non dire nulla ad anima viva» e «non mettere mai niente per iscritto». Ma io gli feci notare che alla fine i miei genitori se ne sarebbero accorti, se non fossi tornata da Dieppe e non mi fossi presentata per la crociera. Mi stava molto a cuore che non si preoccupassero ulteriormente su dove mi trovavo o con chi.

La lettera iniziava in modo drammatico: «Carissima Muv, quando leggerai questa mia sarò sposata con Esmond Romilly».

Peter era comprensibilmente nervoso all’idea di dover consegnare quello strano messaggio.

«Vuoi dire che dovrò affrontare il barone nazista nella sua stessa tana?» disse con quell’accento quasi americano, strascicato e ironico.

«Su, dai, Nevile, lo sai che ti piacerà... naturalmente, è probabile che ti prenderà a frustrate» aggiunse Esmond con aria meditabonda, «ma non è un gran problema. Senti qua: Decca è spaventosamente ricca, sai, ha quasi ottanta sterline, o almeno le aveva prima che iniziassimo questo ridicolo avanti e indietro dalla Manica. Quindi per festeggiare ti offriamo il pranzo al Café Royal.»

Era un rischio molto grosso.

Si trattava di un enorme ristorante di Londra, vecchio stile, molto famoso a quell’epoca come luogo d’incontro per scrittori, artisti, giornalisti, politici, gente dell’alta società. Tra le centinaia di clienti che lo affollavano all’ora di pranzo potevano essercene molti di nostra conoscenza. Durante le due ore che restammo là, a consumare vino rosso e omelette (la voce più economica del menù – Esmond risparmiava su ciò che era rimasto delle ottanta sterline), vidi un paio di amici di Nancy e anche Esmond avvistò alcune persone che conosceva. Le salutammo tutti allegri con la mano, abbandonando per una volta la prudenza. La nostra fortuna ci protesse e quei contatti casuali non ci procurarono alcun problema.

L’elusivo señor Lopez era irreperibile e quella sera stessa tornammo a Parigi.

Trascorremmo le due settimane successive in una serie di frustranti appuntamenti con diversi funzionari spagnoli. Il tempo passava a una velocità spaventosa e ci pareva di non arrivare da nessuna parte. Andammo a Bayonne, un porto nel sud della Francia vicino al confine spagnolo, per spedire a mia madre delle lettere lungo la strada. («Mi sto divertendo moltissimo con le gemelle... Adesso stiamo girando la Francia con la macchina di uno dei ragazzi di Oxford...»)

Esmond diventava sempre più irrequieto. I due ingredienti pratici indispensabili al nostro piano – tempo e denaro – stavano scomparendo rapidamente. Ormai si avvicinava il giorno in cui mia madre avrebbe scoperto la mia diserzione dalle truppe familiari.

Sotto molti punti di vista, era una luna di miele davvero lontana dall’ideale. Esmond era tormentato da preoccupazioni pratiche e io mi sentivo completamente inadeguata nell’aiutarlo a risolverle. Ma arrivammo a conoscerci più in fretta di quanto sarebbe accaduto in circostanze normali. Esmond aveva un naso infallibile per trovare le sistemazioni più economiche possibili e a Bayonne alloggiammo in un alberghetto affollato di famiglie di rifugiati baschi provenienti dal nord della Spagna. Ogni giorno andavamo al consolato basco alla ricerca della mia autorizzazione a viaggiare e di opportunità di trasporto. Facevamo lunghe passeggiate in città, durante le quali lui mi raccontava le sue esperienze sul fronte di Madrid.

Nel giro di poche settimane dalla prima notizia della ribellione fascista, era partito per la Spagna da solo, senza dire nulla nemmeno agli amici, per paura di essere respinto e rimandato indietro per mancanza di addestramento militare. Per una volta nella vita, rimpianse di avere rifiutato di arruolarsi negli O.T.C. a Wellington. Non sapendo nulla di com’era organizzata la Brigata internazionale, era semplicemente andato a Marsiglia in bicicletta nella speranza di salire a bordo di qualche nave da carico diretta in Spagna. Laggiù venne a sapere che al fronte spagnolo stavano già accorrendo giovani di tutti i paesi e si ritrovò in compagnia di un gruppo variegato di volontari – francesi, tedeschi, italiani, jugoslavi, belgi e polacchi – con cui partì in nave per Valencia, da cui fu poi spedito al campo di addestramento di Albacete.

Non esisteva ancora un battaglione inglese, così Esmond e altri quindici compatrioti furono assegnati alla brigata tedesca, la Thaelmann. Tirò un sospiro di sollievo quando venne a sapere che anche a loro mancava completamente una preparazione militare; provenivano da tutti gli ambienti possibili – operai, contadini, proprietari di ristoranti, studenti universitari. Ad Albacete l’addestramento fu molto breve e nel giro di pochi giorni il battaglione fu inviato al fronte madrileno. Laggiù furono quasi sempre in azione e vissero la vita fangosa, insanguinata e confusa dei fanti. Una settimana prima di Natale, in un’unica disastrosa battaglia, quelli del gruppo inglese furono spazzati via tutti, tranne due. Esmond e l’altro sopravvissuto, colpito da dissenteria e stress da combattimento, furono rispediti in Inghilterra e gli fu affidato il compito doloroso di andare a trovare i parenti dei caduti.

In Spagna gran parte delle sue preoccupazioni consisteva in piccoli dettagli tecnici, come tenere bene allacciata la fibbia della cartucciera, non perdere di vista l’equipaggiamento e imparare i particolari più elementari relativi al suo normale funzionamento.

Esmond aveva un’incapacità congenita di affrontare il mondo fisico che lo circondava. Si aveva la sensazione che non avesse mai veramente imparato ad allacciarsi le scarpe. Per lui, il semplice gesto di aprire o chiudere una valigia del tutto ordinaria era un mistero. Una volta, in seguito, Peter Nevile si lamentò che era incapace di aprire e chiudere le porte perché non aveva mai capito il meccanismo con cui la maniglia agisce come una leva per sollevare il saliscendi. Si infuriava con la sua macchina da scrivere portatile, per la frustrazione di non capire il funzionamento del nastro e la chiusura della custodia. Naturalmente dopo un paio di tentativi andati a vuoto la macchina fotografica complicata e costosa che avevo con tanta fretta messo in conto a mio padre agli Army and Navy Stores restò inutilizzata.

L’incontro di Esmond con il fascismo in Spagna e soprattutto l’orrore della sua ultima azione durante la battaglia di Boadilla avevano contribuito molto a confermare la direzione che aveva preso la sua vita sin dall’età di quindici anni. Non era più un dilettante che si muoveva alla periferia delle lotte portate avanti dalla sua generazione, e nemmeno un semplice enfant terrible, simbolo delle tradizioni dei ricchi e dei potenti. Era diventato un partigiano impegnato nella lotta contro il fascismo.

Io invece mi trovavo ancora sulla soglia. Avevo intenzioni serie; scappare di casa aveva significato ben più di un’avventura sfrenata ed eccitante – ma anche questo, però. Avevo taciuto, ma ero rimasta sconvolta e irritata dal fatto che Esmond avesse dato per scontato che non avrei mai più rivisto la mia famiglia. La vita a casa, con tutte le nostre stupide battute e lessici familiari, gli enormi raduni natalizi, l’allegra buffonaggine di Nancy e la personalità forte e debordante di Boud significavano ancora qualcosa per me. Non vedevo l’ora di presentare Esmond a casa, di vedere mio padre guardarlo in cagnesco e digrignare i denti come faceva sempre con i generi, di sentire Esmond demolire Boud e Diana nelle discussioni. Ma la straordinaria indipendenza e determinatezza di Esmond avrebbero reso tutto questo impossibile. Considerava la mia famiglia il nemico e scoraggiava ogni mio accenno a loro.

Lo irritava una mia caratteristica che lui definiva «aristocratismo». Nei suoi rapporti con le persone che lo circondavano, Esmond aveva qualcosa del camaleonte; la capacità di diventare parte del gruppo con cui stava. A Bayonne assunse subito l’accent du Midi, un francese più gutturale di quello che si parlava al nord, e cominciò a usare lo slang più in voga. Nei caffè ci mischiammo a marinai e operai e lui diventò immediatamente uno di loro. Invece il mio francese da scolaretta, imparato alla Sorbonne e da bambina, in Inghilterra, da istitutrici francesi, era una nota stonata e fastidiosa.

Un’esplosione del mio «aristocratismo» portò alla nostra prima e unica lite. Una sera eravamo seduti in un affollato caffè francese a bere del vino con alcune persone conosciute lì. Entrò un uomo dall’aria rude con l’immancabile berretto basco e un grosso cane con guinzaglio e museruola. L’uomo iniziò a picchiare il cane sul muso con una bacchetta; il cane guaiva e si lamentava e i clienti del caffè cominciarono a ridere e a incitare l’uomo. Io ero fuori di me.

«Digli di smettere» urlai a Esmond. «Quello è un bruto crudele, non puoi fare qualcosa?»

Esmond si infuriò. «Forza, usciamo di qui.» Mi costrinse ad alzarmi e mi trascinò fuori dal caffè.

«Che diritto hai di cercare di imporre a quella gente le tue idiote preoccupazioni aristocratiche per gli animali? Ti comporti come una tipica turista inglese. Ecco perché gli inglesi sono così detestati all’estero. Non lo sai come trattano la GENTE, quelli della tua classe, in India, in Africa e in tutto il mondo? E hai anche il coraggio di venire qui – nel LORO paese, per di più, per dare ordini ai francesi e dirgli come devono trattare i loro cani.» Era arrabbiatissimo. «Sentimi bene, quando arriveremo in Spagna vedrai un sacco di cose orribili, bambini bombardati che muoiono per la strada. Francesi e spagnoli se ne fregano degli animali, e perché non dovrebbero? Guarda caso pensano che le persone siano più importanti. Se hai intenzione di piantare questi maledetti casini sui cani avresti dovuto restartene in Inghilterra, dove mangiano bistecche e intanto la gente muore di fame nelle baracche...»

Tenni duro e litigammo tutta la notte.

Il giorno dopo, pieni di contrizione per tutte le brutte cose dette, facemmo la pace. Stavo cominciando a capire vagamente la verità di ciò a cui Esmond si riferiva.

Finalmente, quando stavamo per disperare di partire per la Spagna, dal consolato basco arrivò un misterioso messaggero che ci consegnò un foglio su cui c’era scritto:

Se autoriza a embarcar en el vapor URBI para ser trasladado a Bilbao por su cuenta y riesgo a la dadora de la presente DNA JESSICA MITFORD

Bayone 13 Febrero 1937

La nave è ormeggiata a Basens.

La nave Urbi si trovava, stranamente, proprio dove diceva il foglio – nel porto di Basens vicino a Bayonne. Era una minuscola nave da carico. Per quanto potevamo vedere, portava solo una decina di galline, che si aggiravano raspando sul ponte con l’aria di soffrire il mal di mare. Preceduti da un capitano spagnolo che non parlava una sillaba d’inglese, scendemmo in un’ampia sala da pranzo apparecchiata sontuosamente per la cena. Si radunò la ciurma, circa quindici uomini, e ci accomodammo a tavola. Ci passarono portate su portate; una densa zuppa di verdure basca, écrevisses, stufato di manzo, pollo, torta, frutta, il tutto accompagnato da litri di vino rosso e bicchieri di brandy colmi fino all’orlo. Intuii che quel viaggio mi sarebbe piaciuto moltissimo. Il capitano e la ciurma parlavano solo spagnolo e Esmond provò con loro alcune frasi imparate a Madrid; mentre la serata trascorreva, i marinai brindarono a qualunque cosa, dalla «coppia di fidanzati» a «morte ai fascistas!» Ci furono canti meravigliosi, altro cibo, altri brindisi...

Verso mezzanotte il gruppo si sciolse e la ciurma andò a riprendere i rispettivi compiti. Il capitano ci fece cenno di seguirlo e a gesti ci fece capire che avremmo dormito nella sua cabina, l’unica sulla nave dal momento che i marinai riposavano nelle loro amache sul ponte.

La cabina era arredata come una camera d’albergo da quattro soldi. C’erano un grosso cassettone pesante e vecchio stile, una poltrona e parecchie sedie.

Poco dopo che ci fummo ritirati, lo scoppiettio dei motori e lo scricchiolio delle assi ci fecero capire che il viaggio era iniziato e la nave stava uscendo nella golfo di Biscaglia.

A un tratto fummo svegliati da una serie di raspi e colpi sonori. La nave sobbalzava e oscillava violentemente; tutti i cassetti erano schizzati fuori dal cassettone e stavano scivolando sul pavimento. Con un altro potente sobbalzo tornarono verso la parete accompagnati dal mobile, che ondeggiava paurosamente. Subito raggiunti dalle sedie, dalle nostre valigie, dalle scarpe e da ogni altro oggetto mobile nella cabina – cioè praticamente tutto – cassetti e cassettone avanzarono ancora una volta verso la cuccetta e poi tornarono alla parete. Io riuscii a strisciare fuori dal letto, a evitare il mobilio e ad avvicinarmi al catino, dove dissi tristemente addio alla zuppa di verdura, all’écrevisse, allo stufato, al pollo, alla torta, alla frutta, al vino e al brandy...

Il movimento della nave divenne così violento che Esmond e io dovemmo fare a turno per trattenere l’altro sulla cuccetta. Anche così, cademmo parecchie volte. I viaggi al catino si moltiplicarono finché non restò più nulla di cui liberarsi.

Per tutto il giorno successivo continuarono il fracasso e gli scontri del mobilio. Esmond salì sul ponte per un poco e scese per riferire che i marinai avevano detto che c’era una brezza sostenuta. Mi chiesi vagamente come faceva il capitano per impedire alle sue cose di rovinarsi; le uniche navi su cui ero salita prima avevano scompartimenti rinforzati per tutto ciò che avrebbe potuto muoversi in caso di tempesta, perfino un gancio per gli spazzolini da denti.

Quella notte, fu lanciato un allarme: pareva che a breve distanza fosse stato avvistato un sottomarino di Franco. Spegnemmo tutte le luci. Non potei fare a meno di sperare, sentendomi in colpa, che il sottomarino trovasse il bersaglio e mettesse fine alle nostre sofferenze. Esmond era preoccupato per me e mi portò dell’acqua, che vomitai immediatamente, ormai troppo debole per raggiungere il catino. Tuttavia notai chiaramente, e con gratitudine, la sua preoccupazione – un lato di Esmond che a quell’epoca non emergeva subito e certamente non si era manifestato nei lunghi viaggi delle settimane precedenti, tra Francia e Inghilterra. La brutalità organizzata di Wellington, la cattiveria del riformatorio, il disordine della vita solitaria a Londra per un ragazzo della sua età, difficilmente avrebbero potuto favorire la tenerezza, a qualsiasi livello. Come molti diciottenni, aveva una personalità ancora fluida. A me appariva in parte eroe, in parte avventuriero, in parte ragazzaccio – esattamente come me l’ero immaginato. Distesa, in una foschia semicosciente di acuto mal di mare, ero felice di notare quei barlumi di gentilezza.

La cabina puzzava di vomito, i mobili continuavano a scivolare qua e là, grattando il pavimento avanti e indietro, avanti e indietro... Ma il terzo giorno arrivò un’improvvisa e meravigliosa pace. I mobili, sebbene capovolti e disseminati per tutta la cabina, restarono dov’erano. Eravamo arrivati a Bilbao.

Riuscii ad alzarmi e a vestirmi a fatica, ancora debole e tremante per quei tre giorni di tremendo mal di mare.

Ora non avevo più bisogno di preoccuparmi del mio «aristocratismo». I miei abiti erano lerci e spiegazzati, i capelli puzzavano di rancido. Due settimane lontana dalla tata si erano già fatte sentire. I fogli di carta velina attentamente infilati tra le pieghe dei miei vestiti per impedire che si sgualcissero erano svaniti da un pezzo. Una volta, a Bayonne, Esmond aveva avuto bisogno di provare una forbice e si era distrattamente esercitato sul mio completo migliore, la cui gonna ora presentava grandi squarci.

Gettammo le nostre cose nelle valigie e arrancammo fuori, sul ponte.

Le galline sembravano più afflitte che mai. Avevano smesso di razzolare alla ricerca di cibo e, tutte tristi, si erano raggruppate vicino al pollaio.

Salutammo il capitano e la ciurma, che con mia grande sorpresa sembravano non avere affatto sofferto per le esperienze di quegli ultimi tre giorni. Sulla passerella sfrecciò ad accoglierci uno spagnolo dagli abiti immacolati.

«Signor Romilly, signorina Mitford? Mi hanno comunicato che sareste arrivati oggi. È sempre un onore e un piacere avere la possibilità di dare il benvenuto a dei giornalisti stranieri. Permettete che mi presenti. Señor X, ministro degli Esteri della Repubblica Basca. Ora, visto che siete inglesi, sono sicuro che sarete ansiosi di vedere la boxe. Fortunatamente c’è un match che inizia tra pochi minuti. Se ci sbrighiamo riusciremo a non perdere l’inizio.» Sorridemmo, lo ringraziammo e lo seguimmo riluttanti, pensando che in quel momento avremmo preferito un bel bagno caldo e un letto pulito.

Una lunga limousine nera ci portò allo stadio dove si teneva l’incontro. Come aveva predetto il ministro degli Esteri, non perdemmo un solo minuto. Per quattro ore calde e soffocanti guardammo quelle sagome minuscole danzare con scioltezza e colpirsi solo di tanto in tanto nel cerchio di luce del ring sottostante. Il pubblico basco li incitava impazzito e noi potevamo soltanto sperare che il ministro degli Esteri attribuisse il nostro pesante silenzio al ben noto stoicismo inglese.

1. Acquavite allungata con acqua.