Introduzione all’edizione del 1989
Tornando indietro di trent’anni fino al 1960, anno di uscita del mio primo libro, riesco ancora a rivivere l’intensa eccitazione provata quando seppi che aveva suscitato l’interesse di Victor Gollancz, fondatore prima della guerra del Left Book Club, che ammiravo da tempo. Contemporaneamente il libro fu pubblicato in America dalla Houghton Mifflin.
Devo ringraziare Liz Knights, direttore editoriale di Gollancz, per avere ristampato Figlie e ribelli e avermi dato l’opportunità di commentare qui alcuni aspetti del volume originale: le differenze tra l’edizione inglese e quella americana, le reazioni della mia famiglia e il sorprendente intervento di mia madre riguardo al titolo, di cui finora non ero a conoscenza.
Gli editori di entrambe le sponde dell’Atlantico tendono a vantarsi di essere liberi dalla censura che la stampa esercita quotidianamente per timore di offendere persone influenti. Sfogliando le due edizioni del mio libro, quella inglese e quella americana, ho riscontrato una certa deferenza verso i potenti dei due rispettivi paesi.
Victor Gollancz e Houghton Mifflin avevano ricevuto manoscritti identici. Nell’edizione HM, al racconto del disastroso indottrinamento sui fatti della vita che tentai di impartire alle bambine della mia classe di danza, segue la frase: «“E... perfino il re e la regina lo fanno!” aggiunsi in tono solenne». Pare che VG, credendo che la famiglia reale potesse trovarla offensiva, l’abbia omessa dalla sua edizione.
Per contro, la versione di Gollancz riporta una citazione da «The Week», il periodico ciclostilato e straordinariamente autorevole di Claud Cockburn in cui, poco prima della Seconda guerra mondiale, quest’ultimo indicava l’ambasciatore americano Joseph Kennedy come il principale collegamento tra i circoli militari tedeschi e le forze di pacificazione inglesi, allora prevalentemente conservatrici. Houghton Mifflin ha eliminato tutto il paragrafo – evidentemente temendo ripercussioni nel caso che il figlio di Joseph Kennedy, John F., fosse diventato presidente degli Stati Uniti, cosa che infatti accadde poco dopo.1
Per me l’omissione più triste è quella di Gollancz – non per motivazioni politiche ma, come mi spiegarono all’epoca, puramente finanziarie. Per ragioni sconcertanti, chiare solo al mondo editoriale, alcune pagine in più possono fare aumentare le spese di produzione e quindi stravolgere completamente lo schema dei costi. Per questo hanno arbitrariamente rimosso l’episodio del fratello di Steve Donahue, qui pietosamente ripristinato come Capitolo 25.
Per quanto riguarda la mia famiglia, quando questo libro era ormai in stampa avevo da tempo risolto il mio conflitto con Nancy a cui rimproveravo la slealtà di aver preso le parti dei nostri genitori all’epoca della mia fuga. Avevo anche fatto la pace con mia madre, arrendendomi nel corso degli anni ai suoi incrollabili tentativi di riconciliazione; verso la fine della sua vita siamo diventate grandi amiche.
Ma – come ha detto una volta Voltaire – «Qui plume a, guerre a». Avendo messo su carta le vicende della mia famiglia, qualche scaramuccia con loro me l’ero aspettata.
Nell’estate del 1959 mi trovavo con mia madre a Inch Kenneth, un’isola remota delle Ebridi, di sua proprietà. I contratti con Gollancz e HM erano stati firmati; mi restava soltanto da concludere il libro. Pur tenendo presente la sensibilità della mia famiglia, mentre scrivevo non potei fare a meno di mostrarne alcuni brani a Muv. Lei aggiunse due note a margine. Avevo scritto che lo stipendio delle istitutrici era di cento sterline l’anno. Lei lo cambiò in centocinquanta. In un altro passaggio dicevo che il bagno di Rutland Gate Mews era «dominato da un enorme scaldabagno rotondo e puzzolente che chiamavamo il Potterton». «Diffamatorio» scrisse Muv a margine, così obbedii e lo feci diventare l’Amberley. A parte queste correzioni, non fece altri commenti; non seppi, fino a molto più tardi, se approvava o meno il frutto delle mie fatiche.
Su mia richiesta, il signor Gollancz aveva inviato alle mie sorelle delle copie prima dell’uscita. «Aspetto con il fiato sospeso di sapere che ne pensano» gli scrissi. «Credo che sia l’unico modo per scoprirlo, perché adesso dovranno scrivermi, per ringraziare».
Ma nessuna di loro rispose, tranne Nancy. In realtà la sua opinione era l’unica che desideravo davvero. Tutti i giorni correvo a ritirare la posta nella speranza di trovare una sua lettera. Cominciai a pensare che avesse deciso di non fare commenti; alla fine la busta arrivò, con la data di sei settimane prima, perché era stata spedita via terra. (Come mi spiegò lei più tardi, era convinta che mandare lettere per posta aerea fosse un comportamento poco aristocratico: «È molto piccolo borghese lasciare intendere di avere fretta»). Scriveva: «Ti ringrazio molto per avermi mandato il tuo libro, che ho letto con grande attenzione. Lo trovo straordinariamente buono – facile da leggere, in alcuni punti molto divertente. Tutte le recensioni sono entusiastiche, non ce n’è una negativa». La stoccata di rito venne dal P.S.: «Esmond era proprio il Teddy Boy per eccellenza, non trovi?».
Dalle mie altre sorelle non ebbi notizie. Diana però disse la sua in una lettera al «Times Literary Supplement», il cui critico aveva scritto: «Ma Jessica Mitford si rende conto di avere tracciato un ritratto magnificamente sgradevole di sua madre e suo padre? Se è così, è troppo saggia e leale per sottolineare questo aspetto».
In risposta, Diana scrisse al «TLS»:
Non c’è dubbio che l’autrice si sia resa conto di aver fatto apparire la sua famiglia «magnificamente sgradevole». Forse lo scopo di questo esercizio era dimostrare quant’è stata fortunata a sfuggire a loro e al loro stile di vita. I ritratti dei miei genitori sono grotteschi [...].
(Tra l’altro la recensione del «TLS» fu l’unica a trarre questa conclusione riguardo a ciò che avevo scritto dei miei genitori. Molti altri critici sostennero il contrario: «[...] una coppia inglese dotata di alcune favolose eccentricità aristocratiche [...]», «Un padre in fondo amabile, anche se incline alle imprecazioni», «una madre eccentrica e affascinante [...]»).
Infine, una parola sul titolo. Avevo completamente dimenticato questo difficile problema, finché di recente Liz Knights non ha scoperto alcune lettere tra mia madre e Victor Gollancz, datate dicembre 1959.
Sin dall’inizio il titolo che avevo scelto era stato Red Sheep (Pecora rossa), ovvia allusione, almeno così pensavo, alla pecora nera presente in tutte le famiglie, che nel mio caso era però rossa. A Victor Gollancz questo titolo non piaceva perché conteneva una possibile ambiguità: si poteva intendere «pecora» come sottomessa seguace della linea «rossa» del partito comunista. Furono discusse alcune alternative; alla fine il signor Gollancz propose Hons and Rebels, al quale io, docile come un agnellino, acconsentii. (Per accentuare la confusione, Houghton Mifflin lo cambiò in Daughters and Rebels, sostenendo che in America nessuno avrebbe capito che cosa significava Hons).2
A quel punto, mia madre scese inaspettatamente in campo e scrisse al signor Gollancz riferendogli le proprie forti obiezioni al nuovo titolo:
Spero davvero che sia ripristinato il titolo originale, Red Sheep invece che Hons and Rebels.
Credo che converrà con me che Hon è una parola abusata, di cui tutti sono ormai stanchi, e che ricorda anche troppo i libri dell’altra mia figlia. Credo che per molte persone sia sufficiente vederla rispolverata dall’ennesimo autore per evitare l’acquisto del libro.
VG replicò piccato: «Cara Lady Redesdale, a parte il fatto che noi e i nostri venditori riteniamo che Hons and Rebels sia un titolo eccellente, e che Red Sheep sia davvero pessimo, a questo punto è impossibile operare qualsiasi cambiamento...».
Mia madre a VG: «Mi rendo conto che ormai è troppo tardi per cambiare qualcosa. Riguardo all’eccellenza o meno dei due titoli, non siamo d’accordo. Quindi non c’è altro da dire, a parte augurare al libro ogni fortuna».
Corsivo dell’autore, come dicono in editoria. Mi ha fatto un grande piacere leggere queste parole, trent’anni dopo.
j.m.
marzo 1989
1. Il passaggio di Claud Cockburn in questione compariva come un inciso dopo le annotazioni citate a pag. 240. Diceva:
Dopo tutto, nessuno può sospettare il signor Kennedy di essere eccessivamente prevenuto nei confronti dei regimi fascisti, ed è proprio attraverso il signor Kennedy che il governo tedesco spera di mantenere «contatti». [Nota del direttore]
2. Hon: sta per Honourable. Hon è l’epiteto con cui ci si riferiva ai nobili inglesi con il diritto di sedere nella Camera dei Lord.