Jesse Rosenberg
Sabato 2 agosto 2014
7 giorni dopo l’inaugurazione del festival
Ostrovski era il famoso terzo uomo?
Avevamo perso le sue tracce il giorno prima. Sapevamo solo che era tornato a New York: le videocamere di sorveglianza del NYPD l’avevano ripreso mentre percorreva in macchina il Manhattan Bridge. Ma non era tornato a casa. Il suo appartamento era deserto. Il cellulare era staccato, e l’unica parente nota era una vecchia sorella, anche lei introvabile e impossibile da contattare. Derek e io eravamo appostati davanti al suo portone da quasi ventiquattr’ore. Per il momento non potevamo fare altro.
Tutte le piste portavano a lui: era stato l’amante di Meghan Padalin dal gennaio al giugno del 1994. La segreteria del Northern Rose ci confermò che in quel semestre aveva soggiornato spesso nell’albergo. Quell’anno non era venuto negli Hamptons solo per il festival di Orphea: era già lì da mesi. Sicuramente per la sua relazione con Meghan. E non sopportando che lei lo lasciasse, l’aveva uccisa la sera dell’inaugurazione insieme ai Gordon, malcapitati testimoni dell’omicidio. Aveva avuto il tempo di fare a piedi il percorso dal teatro e di tornare in sala per l’inizio dello spettacolo. Poi si era premurato di dare ai cronisti il suo parere sulla rappresentazione, affinché tutti sapessero che quella sera era al Grand Theater. Un alibi perfetto.
Qualche ora prima Anna era andata a mostrare una foto di Ostrovski a Miranda Bird, nella speranza che lo identificasse, ma lei non gli aveva dato alcuna certezza.
“Potrebbe essere lui,” aveva detto, “ma dopo vent’anni è difficile dirlo.”
“È sicura che avesse un tatuaggio?” aveva chiesto Anna. “Ostrovski non l’ha mai avuto.”
“Non ne sono più tanto sicura,” aveva ammesso Miranda. “E se mi fossi confusa?”
Mentre Derek e io braccavamo Ostrovski a New York, Anna, nell’archivio del “Chronicle”, aveva riesaminato tutti gli elementi dell’indagine insieme a Kirk Harvey e a Michael Bird. Volevano essere sicuri di non lasciarsi sfuggire niente. Erano stanchi e affamati. Non avevano mangiato quasi niente per tutto il giorno, a parte le caramelle e i cioccolatini che Michael, a intervalli regolari, andava a prendere al piano di sopra, in un fornitissimo cassetto della sua scrivania.
Kirk non staccava gli occhi dalla parete tappezzata di appunti, immagini e ritagli di giornale. A un certo punto disse ad Anna:
“Come mai non c’è il nome della donna che potrebbe identificare l’assassino? Nell’elenco dei testimoni risulta solo come ‘Donna del motel sulla Route 16’. Invece gli altri hanno tutti un nome.”
“Hai ragione,” disse Michael. “Come si chiama? Potrebbe essere importante.”
“È stato Jesse a occuparsene,” rispose Anna. “Bisogna chiedere a lui. Comunque quella donna non ricorda niente. Inutile perdere tempo con lei.”
Ma Kirk insisté.
“Ho guardato nel fascicolo della polizia di stato del 1994: quella testimone non c’era. Si tratta di un elemento nuovo?”
“Bisogna chiedere a Jesse,” ripeté Anna.
Poiché Kirk continuava a insistere, Anna chiese cortesemente qualche altro cioccolatino a Michael, che salì a prenderli. Rimasta sola con Kirk, ne approfittò per riepilogargli rapidamente la situazione, sperando che capisse l’importanza di non fare più alcun riferimento a quella testimone davanti a Michael.
“Buon Dio, non riesco a crederci!” bisbigliò Kirk. “La moglie di Michael faceva la prostituta per Jeremiah Fold?”
“Sta’ zitto, Kirk!” gli intimò Anna. “Piantala! Se parli, giuro che ti sparo.”
Si era già pentita di averglielo detto. Temeva che facesse qualche gaffe. Michael tornò con un sacchetto di caramelle.
“Allora, com’è finita con quella testimone?” chiese.
“Siamo già passati oltre,” rispose Anna, sorridendo. “Stiamo parlando di Ostrovski.”
“Non mi sembra il tipo da trucidare un’intera famiglia,” disse Michael.
“Non bisogna mai fidarsi delle apparenze,” rispose Kirk. “A volte crediamo di conoscere una persona e poi scopriamo cose incredibili sul suo conto.”
“Non importa,” intervenne Anna, incenerendo con lo sguardo Kirk. “Capiremo di che pasta è fatto Ostrovski quando Jesse e Derek l’avranno acciuffato.”
“Abbiamo loro notizie?” chiese Michael.
“Nessuna.”
* * *
A New York erano le 20:30.
Derek e io stavamo per sospendere l’appostamento davanti all’abitazione di Ostrovski, quando vedemmo il critico avvicinarsi camminando tranquillamente sul marciapiede. Balzammo fuori dalla macchina con la pistola in pugno, e gli corremmo incontro per bloccarlo.
“Ma siete impazziti?” gemette lui, mentre lo immobilizzavo contro il muro per ammanettarlo.
“Sappiamo tutto, Ostrovski!” gridai. “È finita!”
“Cosa sapete?”
“Che lei ha ucciso Meghan Padalin e i Gordon. Nonché Stephanie Mailer e Cody Illinois.”
“Cosa?” urlò lui. “Ma siete completamente impazziti!”
Intorno a noi si stava formando un capannello di curiosi. Alcuni riprendevano la scena con il cellulare.
“Aiuto!” urlò Ostrovski, rivolgendosi ai passanti. “Questi non sono poliziotti: sono due squilibrati!”
Fummo costretti a identificarci mostrando i distintivi, poi trascinammo Ostrovski all’interno dello stabile per avere un po’ di riservatezza.
“Vorrei proprio sapere come vi è saltato in mente di pensare che abbia ucciso quei poveri disgraziati,” disse Ostrovski.
“Abbiamo visto la parete della sua suite, con le foto di Meghan e i ritagli di giornale.”
“Quella documentazione è la prova che non ho ucciso nessuno! È da vent’anni che cerco di capire cos’è successo.”
“Oppure è da vent’anni che sta brigando per cancellare le tracce,” ribatté Derek. “È per questo che ha incaricato Stephanie di indagare. Voleva capire se potevamo risalire a lei e, visto che stava per confermarglielo, l’ha uccisa.”
“Ma quando mai! Stavo solo cercando di occuparmi del lavoro che avreste dovuto fare voi nel 1994!”
“Non ci prenda per stupidi. Lei era un galoppino di Jeremiah Fold! È per questo che ha chiesto al sindaco Gordon di eliminarlo.”
“Io non sono mai stato il galoppino di nessuno!” protestò Ostrovski.
“La smetta con queste balle,” disse Derek. “Perché se n’è andato improvvisamente da Orphea se non aveva niente da rimproverarsi?”
“Ieri mia sorella ha avuto un ictus. È stata operata d’urgenza. Volevo starle accanto. Ho passato tutta la notte in ospedale e sto venendo da lì. È l’unica parente che mi resta.”
“In che ospedale è ricoverata?”
“Al New York Presbyterian.”
Derek contattò l’ospedale per verificare. Le affermazioni di Ostrovski si rivelarono esatte. Non ci stava mentendo. Gli tolsi subito le manette e gli chiesi:
“Perché quel delitto la ossessiona così tanto?”
“Perché amavo Meghan, maledizione!” sbottò il critico. “È così difficile da capire? La amavo, e me l’hanno portata via! Non potete sapere cosa significhi perdere l’amore della propria vita!”
Lo fissai a lungo. Il suo sguardo era profondamente triste.
“Lo so fin troppo bene,” dissi.
Ostrovski era fuori questione. Avevamo perso tempo ed energie preziose: ci restavano ventiquattr’ore per concludere l’indagine. Se entro lunedì mattina non avessimo consegnato il colpevole al maggiore McKenna, la nostra carriera di poliziotti sarebbe finita ignobilmente.
Ci restavano due possibilità: Ron Gulliver e Steven Bergdorf. Trovandoci a New York, decidemmo di cominciare da Bergdorf. Gli elementi a suo carico erano numerosi: era l’ex direttore del “Chronicle” e l’ex capo di Stephanie, e aveva lasciato Orphea all’indomani del quadruplice omicidio, per poi tornarvi all’improvviso e partecipare allo spettacolo che avrebbe dovuto rivelare il nome del colpevole. Ci recammo al suo appartamento di Brooklyn. Bussammo a lungo alla porta, inutilmente. Mentre stavamo considerando la possibilità di sfondarla, apparve il vicino di pianerottolo e disse:
“È inutile che continuiate a bussare: i Bergdorf sono partiti.”
“‘Partiti’?” ripetei, incredulo. “Quando?”
“Due giorni fa. Dalla finestra li ho visti salire su un camper.”
“Anche Steven Bergdorf?”
“Sì, lui con tutta la famiglia.”
“Ma non può lasciare lo stato di New York!” disse Derek.
“Questo non è un problema mio,” rispose pragmaticamente il vicino. “Potrebbero essere andati nella valle dell’Hudson.”
* * *
Ore 21:00. Parco nazionale di Yellowstone.
I Bergdorf erano arrivati un’ora prima e stavano sistemandosi in un campeggio nella zona est del parco. Scendeva la sera, il clima era mite. I bambini giocavano sull’erba mentre Tracy, nel camper, aveva messo a bollire l’acqua per la pasta. Ma non riusciva a trovare gli spaghetti che era convinta di avere comprato.
“Non capisco,” disse a Steven, seccata, “ieri m’era sembrato che ce ne fossero quattro pacchetti!”
“Niente di grave, tesoro. Vado a comprarli io, c’è una bottega lungo la strada, non lontano da qui.”
“Dobbiamo muovere il camper adesso?”
“No, prendo la macchina. Vedi che abbiamo fatto bene a portarla? Così cerco anche un prodotto che ci liberi dell’odore della puzzola.”
“Sì, ti prego!” lo incitò Tracy. “Quell’odore è atroce. Non sapevo che una puzzola potesse fare un simile tanfo.”
“Oh, sono animali tremendi! Non si capisce perché Dio li abbia creati, se non per appestarci.”
Steven lasciò la moglie e i bambini, e raggiunse la macchina, che aveva parcheggiato in disparte. Uscì dal campeggio e seguì la strada principale fino alla bottega di alimentari. Ma anziché fermarsi, proseguì verso le sorgenti sulfuree di Badger.
Quando arrivò nel posteggio, non c’era nessuno. Nonostante il buio, c’era abbastanza luce perché riuscisse a vedere dove metteva i piedi. Le sorgenti erano poco più in là, oltre un ponticello di legno.
Si assicurò che non stesse arrivando qualcuno. Niente fari all’orizzonte. Rassicurato, aprì il bagagliaio e fu investito da un tanfo pestilenziale. Non poté fare a meno di soffocare un conato di vomito. La puzza era insopportabile. Evitò di respirare con il naso e si coprì la bocca con la T-shirt. Si sforzò di non cedere al ribrezzo e afferrò il cadavere di Alice avvolto nella plastica. Lo trascinò a fatica fino alle sorgenti gorgoglianti. Ancora un ultimo sforzo. Quando fu in prossimità dell’acqua, lasciò cadere a terra il cadavere e lo spinse con il piede fino a fargli superare l’argine, per poi precipitare nell’acqua bollente e acida. Lo guardò colare lentamente verso il fondo e sparire nel buio della pozza sulfurea.
“Addio, Alice,” disse. Scoppiò improvvisamente a ridere, poi si mise a piangere e vomitò. In quel momento fu investito da un potente fascio di luce.
“Ehi, laggiù!” gridò in tono minaccioso una voce maschile. “Lei cosa ci fa qui?”
Era un ranger del parco. Steven sentì il cuore esplodergli nel petto. Avrebbe voluto rispondere che si era perso, ma il panico gli fece solo farfugliare qualche sillaba incomprensibile.
“Si avvicini,” ordinò il ranger, continuando ad abbagliarlo con la luce della torcia elettrica. “Le ho chiesto cosa ci fa qui.”
“Niente, signore,” rispose Bergdorf, riuscendo a darsi un certo contegno. “Stavo passeggiando.”
Il ranger si avvicinò, sospettoso.
“A quest’ora? Qui?” chiese. “Di sera l’accesso alle sorgenti è proibito. Non ha visto i cartelli?”
“No, signore, mi dispiace,” disse Steven, sbiancando in volto.
“È sicuro di sentirsi bene? Ha una faccia strana.”
“Sicuro! Sto benissimo!”
Il ranger pensò di avere a che fare con un turista imprudente e si limitò a fargli la paternale:
“È troppo buio per venire a passeggiare qui. Se cade lì dentro, domani non resterà più niente di lei. Neanche le ossa.”
“Davvero?” chiese Steven.
“Davvero. Non ha sentito cos’è successo in una di queste sorgenti l’hanno scorso? Eppure ne hanno parlato tutti i telegiornali. Un tizio è caduto in una pozza d’acqua sulfurea davanti agli occhi della sorella. Il tempo che arrivassero i soccorsi, e non si è trovato più niente di lui, tranne i sandali.”
* * *
Dopo avere diramato un avviso di ricerca per Steven Bergdorf, Derek e io decidemmo di tornare a Orphea. Avvisai Anna e ci mettemmo in viaggio.
Nell’archivio del “Chronicle”, Anna riagganciò.
“Era Jesse,” disse a Michael e a Kirk. “A quanto pare, Ostrovski non c’entra niente con questa storia.”
“Proprio come pensavo,” disse Michael. “Allora cosa facciamo?”
“Dovremmo mangiare qualcosa: la notte si annuncia lunga.”
“Andiamo al Kodiak Grill!” suggerì Michael.
“Ottimo,” approvò Kirk. “Non vedo l’ora di divorarmi una bistecca.”
“No, tu non vieni,” disse Anna, temendo che facesse qualche gaffe sulla moglie di Bird. “Qualcuno deve restare di guardia qui.”
“‘Di guardia’?” ripeté Kirk, stupito. “Di guardia a cosa?”
“Tu resti qui e basta!” gli ordinò Anna.
Lei e Michael lasciarono la sede del giornale dalla porta sul retro e, dopo avere percorso il vicoletto, salirono sulla macchina di Anna.
Kirk imprecò all’idea di ritrovarsi ancora una volta da solo. Gli tornarono alla mente i mesi da “comandante emarginato” che aveva trascorso nello scantinato del comando di polizia. Frugò tra i documenti sparpagliati sul tavolo e tornò a immergersi nella lettura del fascicolo della polizia di stato. Raccolse gli ultimi cioccolatini rimasti e se li mise tutti in bocca.
Anna e Michael stavano percorrendo la strada principale.
“Ti dispiace se facciamo un salto a casa mia?” chiese Michael. “Vorrei dare un bacio alle bambine, prima che vadano a letto. È da una settimana che non le vedo quasi mai.”
“Figurati, è un piacere,” disse Anna, svoltando in direzione di Bridgehampton.
Quando arrivarono davanti alla casa dei Bird, Anna vide che le luci erano spente.
“Possibile che non ci sia nessuno?” disse Michael, stupito.
Anna parcheggiò davanti alla casa.
“Forse tua moglie è uscita con le bambine.”
“Saranno sicuramente andate a mangiare una pizza. Ora le chiamo.”
Michael estrasse dalla tasca il cellulare e imprecò, accorgendosi che non c’era campo.
“È da qualche giorno che qui prende male,” disse, seccato.
“Non prende neanche il mio,” constatò Anna.
“Aspettami qui: faccio un salto in casa per chiamare mia moglie dal fisso.”
“Posso approfittarne per andare in bagno?”
“Certo. Vieni.”
Entrarono in casa. Michael indicò il bagno ad Anna, e poi prese il telefono.
* * *
Derek e io stavamo avvicinandoci a Orphea quando ricevemmo una chiamata radio. L’operatore ci informò che un certo Kirk Harvey stava disperatamente cercando di mettersi in contatto con noi, ma non aveva i nostri numeri di cellulare. La telefonata di Kirk ci fu inoltrata via radio e sentimmo improvvisamente la sua voce risuonare nell’abitacolo.
“Jesse, ci sono le chiavi!” urlò, sgomento.
“Le chiavi di cosa?”
“Sono nell’ufficio di Bird, in redazione. Le ho trovate.”
Non avevamo la minima idea di cosa stesse parlando.
“Cos’hai trovato, Kirk? Cerca di spiegarti!”
“Ho trovato le chiavi di Stephanie Mailer!”
Kirk ci disse che era salito nell’ufficio di Bird per prendere altri cioccolatini. Frugando in un cassetto aveva trovato un mazzo di chiavi con una pallina di plastica gialla. Si ricordava di avere già notato quel portachiavi da qualche parte. Spremendosi la memoria, a un tratto si era rivisto al Beluga Bar con Stephanie, quando lei stava per andarsene e lui, cercando di trattenerla, l’aveva afferrata per la borsa, rovesciandone il contenuto sul pavimento. A quel punto aveva raccolto le sue chiavi per restituirgliele. Ricordava benissimo quel portachiavi.
“Sei sicuro che siano quelle di Stephanie?” chiesi.
“Sì, anche perché nel mazzo c’è la chiave di una macchina,” rispose Kirk. “Una Mazda. Che macchina guidava Stephanie?”
“Una Mazda,” risposi. “Sono le sue chiavi. Mi raccomando, non dire niente a Michael e trattienilo a tutti costi in redazione.”
“È uscito. Insieme ad Anna.”
* * *
Nella casa dei Bird, Anna uscì dal bagno. C’era un gran silenzio. Attraversò il salotto: nessuna traccia di Michael. Il suo sguardo si soffermò sulle foto in cornice allineate su un comò. Erano istantanee della famiglia Bird scattate in epoche diverse. La nascita delle figlie, le vacanze. Poi Anna notò una foto in cui Miranda Bird era molto giovane. Era con Michael, nel periodo di Natale. Alle loro spalle c’era un abete decorato, e dalla finestra si vedeva il paesaggio innevato. Sul bordo inferiore dell’immagine, a destra, era stampata la data, come capitava spesso quando le foto venivano ancora sviluppate in laboratorio. Anna si avvicinò per leggerla: “23 dicembre 1994.” Sentì il battito cardiaco accelerare: Miranda le aveva detto di avere conosciuto Michael parecchi anni dopo la morte di Jeremiah. Quindi le aveva mentito.
Anna si guardò intorno. Non si sentiva nessun rumore. Dov’era Michael? Ebbe un brivido d’inquietudine. Posò la mano sul calcio della pistola e si diresse guardinga verso la cucina: nessuno. All’improvviso, tutto sembrava deserto. Sfoderò la pistola e imboccò un corridoio buio. Azionò l’interruttore, ma non si accese nessuna luce. A un tratto un colpo sulla schiena la scaraventò a terra, facendole volare di mano la pistola. Si girò e fu investita da uno spruzzo di liquido urticante. Urlò di dolore. Le bruciavano gli occhi. Poi le arrivò una botta in testa che la stordì. Piombò nel buio.
* * *
Derek e io avevamo lanciato un allarme generale. Montagne aveva mandato autopattuglie al Kodiak Grill e dai Bird, ma Anna e Michael erano introvabili. Quando finalmente arrivammo a casa dei Bird, gli agenti che avevano già controllato i locali ci mostrarono tracce di sangue fresco.
In quel momento Miranda Bird tornò dalla pizzeria insieme alle figlie.
“Cosa succede?” chiese, vedendo i poliziotti.
“Dov’è Michael?” gridai.
“Non lo so. Mi ha telefonato poco fa. Ha detto che era qui con Anna.”
“E lei dov’era?”
“Con le bambine a mangiare una pizza. Insomma, capitano, cosa sta succedendo?”
Quando Anna riprese i sensi, aveva le mani legate dietro la schiena e la testa infilata in un sacco che le impediva di vedere. Si sforzò di non lasciarsi prendere dal panico. In base ai rumori e alle vibrazioni che sentiva, capì che era sdraiata sul sedile posteriore di una macchina in movimento. E che la macchina stava percorrendo una strada non asfaltata, forse un viottolo sterrato o con il fondo di ghiaia.
A un tratto, l’auto si fermò. Anna sentì dei passi. Lo sportello posteriore si aprì bruscamente. Una mano l’afferrò e la trascinò a terra. Non vedeva niente. Non sapeva dove fosse. Però sentiva gracidare le rane: era nei pressi di un lago.
* * *
Nel salotto dei Bird, Miranda rifiutava di credere che il marito potesse essere coinvolto negli omicidi.
“Come potete pensare che Michael c’entri qualcosa con questa storia? Il sangue che avete trovato potrebbe essere proprio il suo!” disse.
“Le chiavi di Stephanie Mailer erano nel suo ufficio,” le risposi.
Miranda non si capacitava.
“Vi sbagliate. State perdendo tempo prezioso. Michael potrebbe essere in pericolo.”
Raggiunsi Derek nella stanza accanto. Aveva spiegato sul tavolo una carta della regione e stava parlando al telefono con il dottor Singh.
“L’assassino è intelligente e metodico,” ci disse Singh attraverso il vivavoce. “Sa che non può andare molto lontano con Anna: non vuole rischiare di imbattersi in qualche autopattuglia. È un uomo molto prudente. Vuole ridurre i rischi ed evitare a tutti i costi uno scontro diretto.”
“Quindi è rimasto nella regione di Orphea?” chiesi.
“Ne sono certo. In un perimetro che conosce bene. Un luogo in cui si sente al sicuro.”
“Sta ripetendo lo schema adottato con Stephanie?” chiese Derek, studiando la carta.
“È probabile,” rispose Singh.
Derek cerchiò con il pennarello la spiaggia nelle cui vicinanze era stata rinvenuta la macchina di Stephanie.
“Se l’assassino aveva dato appuntamento a Stephanie qui,” disse, indicando il parcheggio, “significa che prevedeva di portarla nei paraggi.”
Seguii con l’indice il percorso della Route 22 fino al Deer Lake, che cerchiai a mia volta con il pennarello rosso. Poi presi la mappa per mostrarla a Miranda.
“Avete un’altra casa nella zona?” le chiesi. “Un capanno, una rimessa, un posto dove suo marito possa sentirsi al sicuro?”
“Mio marito? Ma...”
“Risponda alla domanda!”
Miranda osservò la carta. Guardò il Deer Lake e indicò lo specchio d’acqua lì accanto: il Beaver Lake.
“A Michael piace andare lì,” disse. “C’è un pontile al quale è ormeggiata una barca che può essere utilizzata per raggiungere un isolotto delizioso. Ci andiamo spesso a fare i pic-nic con le bambine. Non c’è mai nessuno. Michael dice che lì è come essere soli al mondo.”
Derek e io ci guardammo e, senza avere bisogno di parlare, ci precipitammo verso la macchina.
* * *
Anna era stata appena spinta su quella che le sembrava una barca. Si finse ancora svenuta. Sentì il movimento dell’acqua accompagnato da un fruscio di remi. La stavano portando da qualche parte. Dove?
Derek e io sfrecciavamo sulla Route 56. Presto avvistammo il Deer Lake.
“C’è un bivio sulla destra,” mi avvertì Derek, spegnendo la sirena. “Una stradina sterrata.”
La scorgemmo all’ultimo secondo. La imboccai e accelerai forsennatamente. Dopo qualche istante vidi la macchina di Anna parcheggiata in riva al lago, accanto a un pontile. Inchiodai di colpo e balzammo giù dalla macchina. Nonostante l’oscurità, vedemmo una barca che prendeva il largo per raggiungere l’isolotto. Sfoderammo le pistole.
“Altolà! Polizia!” gridai, prima di sparare un colpo in aria.
In risposta sentimmo la voce di Anna che, dalla barca, chiedeva aiuto. La sagoma che vogava si voltò e la colpì con un remo. Anna urlò. Derek e io ci tuffammo nel lago appena vedemmo l’uomo scaraventarla in acqua. Dapprima Anna colò a picco; poi, aiutandosi solo con le gambe, riuscì a tornare a galla per respirare.
Derek e io nuotavamo più veloce possibile. Nell’oscurità era impossibile distinguere chiaramente la figura che stava remando per aggirarci e riportare a riva la barca. Non potevamo fermarla: dovevamo salvare Anna. Raccogliemmo le forze per raggiungerla, ma nel frattempo lei, sfinita, smise di muoversi e si inabissò.
Derek si immerse, subito seguito da me. Intorno a noi l’acqua era torbida. A un tratto, Derek sentì il corpo di Anna. Lo afferrò e riuscì a tornare a galla. Lo aiutai a trascinarla fino alla riva dell’isolotto, per poi adagiarla sulla terraferma. Anna tossì e sputò acqua. Era viva.
Sull’altra sponda, la barca aveva accostato al pontile. Vedemmo la figura misteriosa salire sull’auto di Anna e darsi alla fuga.
* * *
Due ore dopo l’inserviente di una stazione di servizio isolata vide arrivare un uomo insanguinato e terrorizzato. Era Michael Bird, con le mani legate da una corda. “Chiami la polizia!” supplicò. “Sta arrivando, mi insegue!”