Anna Kanner

Non c’è niente che mi piaccia più delle notti di pattuglia a Orphea.

Non c’è niente che mi piaccia più delle strade tranquille e silenziose, immerse nel tepore delle notti estive sotto il cielo blu punteggiato di stelle. Procedere a passo d’uomo con la macchina attraverso i quartieri addormentati, con i finestrini aperti. Imbattersi in qualche insonne che passeggia o si gode l’aria notturna in terrazza e, vedendoti passare, ti saluta con un cordiale gesto della mano.

Non c’è niente che mi piaccia più delle strade del centro nelle notti d’inverno, quando all’improvviso comincia a nevicare e in pochi minuti l’asfalto si ricopre di una coltre bianca. Quando sei l’unica creatura sveglia, quando gli spazzaneve non hanno ancora cominciato il loro balletto, quando sei la prima persona a lasciare le proprie impronte sulla neve vergine. Scendi dalla macchina, ti inoltri nel giardinetto e senti la neve che scricchiola sotto i tuoi piedi e ti riempie deliziosamente i polmoni con quel freddo secco e corroborante.

Non c’è niente che mi piaccia più dell’improvvisa visione di una volpe che risale la strada principale, mentre la notte sta per diventare giorno.

Non c’è niente che mi piaccia più dell’alba sul porto, in qualsiasi stagione. Guardare l’orizzonte nero come l’inchiostro e scorgervi un puntino che da rosa intenso diventa arancione, e poi vedere quella palla di fuoco che si alza lentamente sopra le onde.

Mi sono trasferita a Orphea solo qualche mese dopo avere firmato i documenti del divorzio.

Mi sono sposata troppo presto, con un uomo pieno di qualità, ma che non era quello giusto. Credo di essermi sposata così presto a causa di mio padre.

Con mio padre ho sempre avuto un rapporto molto intenso e molto stretto. Lui e io siamo legatissimi sin dalla mia prima infanzia. Ciò che faceva mio padre, volevo farlo anch’io. Ciò che diceva mio padre, lo ripetevo. Ovunque andasse, lo seguivo.

A mio padre piace il tennis. Anch’io giocavo a tennis, nel suo stesso circolo. La domenica giocavamo spesso insieme, e col passare degli anni le nostre partite si sono fatte sempre più combattute.

Mio padre adora giocare a Scarabeo. Per un’incredibile coincidenza, anch’io adoro quel gioco. Per diversi anni abbiamo passato le vacanze invernali a Whistler, nella British Columbia, dove andavamo a sciare. Ogni sera, dopo cena, ci sedevamo nel salone dell’albergo per sfidarci a Scarabeo, annotando scrupolosamente, partita dopo partita, chi vinceva e con quanti punti.

Mio padre fa l’avvocato, si è diplomato ad Harvard, e, come se fosse la cosa più ovvia del mondo, anch’io mi sono iscritta alla facoltà di legge di Harvard. Per molto tempo ho pensato di non avere mai desiderato altro.

Mio padre è sempre stato molto fiero di me. Al tennis, a Scarabeo, ad Harvard. In ogni circostanza. Non si stancava mai delle valanghe di complimenti che gli facevano sul mio conto. La cosa che gli piaceva di più era che gli dicessero quant’ero intelligente e bella. So quanto lo rendeva felice vedere gli sguardi che mi seguivano quando arrivavo da qualche parte, che fosse il circolo del tennis, una serata a cui andavamo insieme o i saloni del nostro albergo a Whistler. Ma, parallelamente, mio padre non ha mai sopportato nessuno dei miei amichetti. A partire dai miei sedici o diciassette anni, secondo lui nessuno dei ragazzi con cui avevo una storia era abbastanza bravo, abbastanza perbene, abbastanza bello o abbastanza intelligente per me.

“Insomma, Anna,” mi diceva, “puoi aspirare a qualcosa di meglio!”

“Papà, lui mi piace, e questa è la cosa più importante, no?”

“Ma riesci a vederti sposata con quello lì?”

“Papà, ho diciassette anni! Non sono ancora a quel punto!”

Più la mia relazione durava, più l’ostruzionismo di mio padre si intensificava. Mai apertamente, però insidiosamente. Appena poteva, con un’allusione, un particolare cui accennava, un’osservazione casuale, demoliva l’immagine che mi ero fatta del mio innamorato del momento. E io finivo immancabilmente per rompere, sicura che quella rottura venisse da me – almeno questo era ciò che volevo credere. E la cosa peggiore era che, ogni volta che avevo una nuova relazione, mio padre diceva: “Il ragazzo di prima era davvero affascinante: è un autentico peccato che abbiate rotto. Questo mi sembra così insipido che non riesco a capire cosa ci trovi.” E sempre mi facevo abbindolare. Ma ero veramente così stupida da lasciare che mio padre gestisse le mie rotture? O ero piuttosto io a rompere, non per qualche motivo preciso, ma semplicemente perché non riuscivo a decidermi ad amare un uomo che a mio padre non piaceva? Credo che per me fosse inconcepibile immaginarmi con qualcuno che lui disapprovava.

Dopo la laurea ad Harvard e l’abilitazione a New York, iniziai a fare l’avvocato nello studio di mio padre. Quell’avventura durò un anno, durante il quale scoprii che la giustizia, sublime come principio, era una macchina dal funzionamento lungo e costoso, cavilloso e contorto, che non lasciava indenni neanche coloro che ne uscivano vincitori. In quell’anno mi resi conto che sarei stata più utile alla giustizia se avessi avuto la possibilità di applicarla a monte, e che il lavoro sul campo avrebbe avuto più impatto di quello nei parlatori. Mi iscrissi all’accademia del dipartimento di polizia di New York, con grande disappunto dei miei genitori, e in particolare di mio padre, che non gradì il fatto che abbandonassi il suo studio e tuttavia sperò che il mio impegno fosse solo un capriccio e non una rinuncia, e che interrompessi la formazione dopo qualche mese. Invece continuai e, dopo un anno, lasciai l’accademia di polizia – fui la migliore nel mio corso, con gli elogi unanimi di tutti gli istruttori, ed entrai, con il grado di ispettrice, nella squadra anticrimine del 55° commissariato.

Quel lavoro mi piacque immediatamente, soprattutto per le piccole conquiste quotidiane che mi facevano capire come un bravo poliziotto potesse essere un argine alla ferocia della vita.

Il posto che avevo liberato nello studio di mio padre fu offerto a un avvocato che aveva già esperienza e qualche anno più di me: Mark.

La prima volta che sentii parlare di lui fu a una cena di famiglia. Mio padre ne era entusiasta. “È un ragazzo brillante, dotato, affascinante,” mi disse. “Non gli manca niente. Gioca persino a tennis.” Poi, all’improvviso, ci furono quelle parole che non gli avevo mai sentito pronunciare in tutta la mia vita: “Sono sicuro che ti piacerebbe. Vorrei tanto che lo conoscessi.”

In quel periodo avevo molta voglia di conoscere gente. Ma nessuno dei miei incontri si trasformava in qualcosa di serio. Da quando ero uscita dall’accademia di polizia le mie relazioni duravano appena il tempo di una prima cena o di una prima uscita con altra gente: quando scoprivano che ero una piedipiatti, e per giunta della squadra anticrimine, le persone si appassionavano e mi tempestavano di domande. Mio malgrado, monopolizzavo tutta l’attenzione, intercettavo tutto l’interesse. E spesso il mio rapporto s’interrompeva con una frase di questo tipo: “È difficile stare con te, Anna: le persone si interessano solo a te e io ho l’impressione di non esistere. Credo di avere bisogno di stare con qualcuno che mi lasci più spazio.”

Conobbi finalmente il famoso Mark un pomeriggio in cui ero andata a trovare mio padre nel suo studio, e di lì a poco scoprii che per fortuna lui non soffriva di complessi riguardo alle mie doti accentratrici. Grazie al suo fascino naturale, Mark attirava gli sguardi e partecipava con disinvoltura a qualsiasi conversazione. Sapeva parlare di tutto, sapeva fare quasi tutto – e ciò che gli mancava, sapeva ammirarlo. Lo guardai come non avevo mai guardato nessuno prima di allora, forse perché mio padre lo contemplava con occhi pieni di ammirazione. Lo adorava. Mark era il suo cocco, e cominciarono pure a giocare a tennis insieme. Mio padre si entusiasmava ogni volta che parlava di lui.

Mark mi invitò a bere un caffè. Si creò subito una bella intesa. C’era un’alchimia perfetta, un’energia folle. Il terzo caffè me lo portò a letto. Né lui né io lo dicemmo a mio padre, e una sera, mentre cenavamo insieme, Mark mi disse:

“Vorrei tanto che la nostra diventasse una storia seria...”

“Ma...?” chiesi, preoccupata.

“So quanto ti ammira tuo padre, Anna. Ha messo l’asticella molto in alto. Temo che non mi apprezzi abbastanza.”

Quando riferii quelle parole a mio padre, Mark gli piacque ancora di più, ammesso che ciò fosse possibile. Lo convocò nel suo ufficio e stappò una bottiglia di champagne.

Mentre Mark mi raccontava quell’episodio, mi venne un attacco di ridarella che durò diversi minuti. Alla fine presi un bicchiere, lo alzai a mezz’aria e, imitando il tono solenne di mio padre e i suoi gesti paternalistici, dichiarai: “All’uomo che si scopa mia figlia!”

Per me e Mark fu l’inizio di un’appassionata avventura che in breve si trasformò in una vera e propria relazione sentimentale nel senso migliore del termine. Superammo il primo autentico scoglio andando a cena a casa dei miei. E per la prima volta, contrariamente a quanto era successo nei precedenti quindici anni, vidi mio padre raggiante, affabile e premuroso nei confronti dell’uomo che mi accompagnava. Dopo avere stroncato tutti i predecessori, ecco che con Mark si beava.

“Che ragazzo! Che ragazzo!” disse, quando mi telefonò la mattina dopo la cena.

“È proprio straordinario!” strillò mia madre in sottofondo.

“Cerca di non farlo scappare come tutti gli altri!” ebbe il coraggio di aggiungere mio padre.

“Già, quel Mark è proprio un gioiello di ragazzo,” rincarò mia madre.

Il secondo scoglio che superammo, quello di un anno di rapporto, coincise con le nostre tradizionali vacanze sciistiche nella British Columbia. Mio padre ci propose di andare tutti insieme a Whistler, e Mark accettò volentieri.

“Se sopravvivi a cinque sere di seguito con mio padre, e soprattutto alle partite di Scarabeo, meriti una medaglia.”

Mark non solo sopravvisse, ma vinse pure tre partite. E inoltre sciava da Dio. L’ultima sera, mentre cenavamo al ristorante, un cliente seduto al tavolo vicino ebbe un attacco cardiaco. Mark chiamò l’ambulanza e, nell’attesa, prestò le prime cure al malcapitato.

L’uomo si riprese quanto bastava per essere ricoverato in ospedale. Mentre i soccorritori lo portavano via in barella, il medico strinse la mano a Mark e gli disse, ammirato: “Signore, lei ha salvato la vita di quell’uomo. Lei è un eroe.” La gente seduta gli altri tavoli applaudì, e il proprietario del ristorante non volle che pagassimo la cena.

Fu quello l’aneddoto che mio padre raccontò al nostro matrimonio, un anno e mezzo dopo, per spiegare agli invitati che uomo eccezionale fosse mio marito. E io, felice nel mio abito bianco, guardavo Mark e me lo mangiavo con gli occhi.

Il nostro matrimonio sarebbe durato meno di un anno.