Derek Scott
Primi giorni di dicembre del 1994. Centrale regionale della polizia di stato. Nel suo ufficio, il maggiore McKenna legge la lettera che gli ho appena consegnato.
“Una domanda di trasferimento, Derek? E per andare dove?”
“Potrebbe mettermi in amministrazione,” suggerii.
“Vuoi fare il passacarte?” chiese il maggiore, con voce strozzata.
“Non voglio più stare in prima linea.”
“Sei uno dei piedipiatti più bravi che abbia mai conosciuto! Non rovinarti la carriera per un colpo di testa.”
“La carriera?” ripetei, stizzito. “Quale carriera, maggiore?”
“Ascoltami, Derek,” disse bonariamente McKenna, “è normale che tu sia sconvolto: perché non vai a parlare con la psicologa? O non ti prendi qualche settimana di ferie?”
“Non ne posso più di ferie, maggiore. Non faccio altro che ripensare a quella scena.”
“Non voglio che tu finisca in amministrazione, Derek: sarebbe uno spreco,” disse il maggiore.
McKenna e io ci guardammo in silenzio per qualche istante, poi dissi:
“Ha ragione, maggiore. Ignori questa richiesta di trasferimento.”
“Ora sì che ragioni, Derek!”
“Mi dimetto.”
“Eh no, questo proprio no! Allora preferisco trasferirti in amministrazione. Ma solo per un po’. Poi tornerai all’anticrimine.”
Il maggiore pensava che, dopo qualche settimana di noia, mi sarei pentito di quella decisione e avrei chiesto di essere reintegrato nel mio incarico.
Mentre stavo per uscire dall’ufficio, mi chiese:
“Notizie di Jesse?”
“Non vuole vedere nessuno.”
A casa sua, Jesse stava mettendo ordine tra le cose di Natasha.
Non aveva mai pensato che un giorno si sarebbe ritrovato a vivere senza di lei, e adesso, di fronte a quel vuoto che non riusciva a colmare, era diviso tra il desiderio di conservare tutto e l’impulso di fare piazza pulita. Una parte di lui voleva voltare pagina, buttare via ogni cosa e dimenticare: in quei momenti infilava freneticamente negli scatoloni destinati alla spazzatura qualsiasi oggetto avesse a che fare con lei. Ma se si fermava un istante per riprendere fiato, un oggetto – una cornice per foto, una penna senza inchiostro, un ritaglio ingiallito – finiva per attirare la sua attenzione e allora decideva di conservarlo. Lo prendeva e lo osservava a lungo. Si ripeteva che comunque non poteva buttare tutto, che voleva tenere qualche souvenir per ricordare quella felicità, e posava l’oggetto sul tavolo, in attesa di trovargli una collocazione appropriata. Poi cominciava a estrarre dallo scatolone quanto vi aveva appena messo. ‘Non vorrai buttare anche questo?’ diceva a se stesso. ‘E nemmeno questo, no? No, non puoi separarti dalla tazza del MoMA in cui beveva il tè!’ Così, scatolone dopo scatolone, finiva per tirare fuori di nuovo tutto. E il soggiorno, che qualche istante prima era sgombro, assumeva l’aspetto di un museo dedicato a Natasha. Seduti sul divano, i nonni lo guardavano con gli occhi colmi di lacrime e mormoravano: “Che merda!” e “Banda di imbecilli!”.
* * *
A metà dicembre Darla aveva fatto svuotare i locali del Piccola Russia. L’insegna luminosa era stata smontata e distrutta, l’arredamento era stato venduto per pagare gli ultimi mesi di affitto e la penale per consentire la rescissione immediata del contratto.
Seduta al freddo sul marciapiede, Darla guardava i traslocatori portare via le ultime sedie per consegnarle al ristorante che le aveva acquistate. Uno di loro si avvicinò con uno scatolone.
“L’abbiamo trovato in un angolo della cucina, e ci siamo detti che magari voleva conservarlo.”
Darla esaminò il contenuto. C’erano gli appunti di Natasha, le sue ricette, i suoi progetti di menù e tutti i ricordi di ciò che erano state. C’era anche una foto che ritraeva Natasha, Jesse, Derek e lei. La prese e la guardò a lungo.
“Questa la tengo,” disse al traslocatore. “Grazie. Il resto può buttarlo.”
“Sicura?”
“Sì.”
L’uomo annuì e si allontanò verso il camion.
Darla, devastata, scoppiò a piangere. Bisognava dimenticare tutto.