Jesse Rosenberg
Venerdì 27 giugno 2014
29 giorni prima dell’inaugurazione del festival
Mi misi in macchina di buon mattino per andare a Orphea.
Volevo assolutamente capire cos’era successo il giorno prima nell’appartamento di Stephanie. Per il comandante Gulliver si trattava di un semplice furto con scasso. Ma io non ci avevo creduto neanche per un istante. I colleghi della scientifica erano rimasti fino a tarda notte a cercare qualche traccia, ma non avevano trovato niente. Quanto a me, stando alla violenza del colpo che avevo ricevuto, ero decisamente incline a ritenere che l’aggressore fosse un uomo.
Mi trovavo di fronte a un’indagine davvero strana. Sentivo che il tempo incalzava. Sull’ultimo tratto della Route 17, il rettilineo alle porte della città, accelerai senza aver azionato né la sirena né il lampeggiatore.
Mentre stavo per superare il cartello che indicava il confine di Orphea, notai l’autocivetta che all’improvviso mi si era messa alle calcagna. Mi fermai sul ciglio della strada e, guardando nello specchietto, vidi una graziosa ragazza scendere dalla macchina e venire verso di me. Stavo per fare la conoscenza della prima persona che avrebbe accettato di aiutarmi a sbrogliare quella matassa: Anna Kanner.
Mentre si avvicinava al finestrino aperto, le mostrai con un sorriso il mio distintivo della polizia.
“Capitano Jesse Rosenberg,” lesse lei sul tesserino. “Un’emergenza?”
“Se non sbaglio, ieri ci siamo visti in Bendham Road. Sono il piedipiatti che si è preso una botta sulla zucca.”
“Vicecomandante Anna Kanner,” si presentò la ragazza. “Come va la sua testa, capitano?”
“Molto bene, grazie. Ma le confesso che sono preoccupato per ciò che è successo in quell’appartamento. Il comandante Gulliver pensa che si tratti di un furto con scasso, ma secondo me si sbaglia. Ho la sensazione di avere ficcato il naso in una strana storia.”
“Gulliver è un perfetto imbecille,” disse Anna. “Mi parli di questa storia: mi interessa.”
A quel punto capii che Anna poteva essere un’alleata preziosa. In seguito avrei scoperto che era anche un’ottima investigatrice. Allora le dissi:
“Anna, se permetti, ti do del ‘tu’. Posso offrirti un caffè? Così ti spiego tutto.”
Qualche minuto più tardi, mentre eravamo seduti in un tranquillo diner lungo la Route 17, dissi ad Anna che tutto era cominciato quando, all’inizio di quella settimana, Stephanie Mailer mi aveva informato dell’inchiesta che stava conducendo sul quadruplice omicidio di Orphea del 1994.
“Il quadruplice omicidio del 1994?” chiese Anna.
“Sì, è quello in cui furono assassinati il sindaco di Orphea e la sua famiglia,” risposi, “insieme a una donna che stava facendo jogging. Una vera carneficina. Era la serata inaugurale del festival teatrale. Ed è stata la prima indagine importante che ho svolto. All’epoca il mio collega Derek Scott e io avevamo risolto rapidamente il caso. Ma lunedì scorso Stephanie è venuta a dirmi che, a parer suo, c’eravamo sbagliati e avevamo incolpato la persona errata. Dopodiché lei è scomparsa, e ieri il suo appartamento è stato messo sottosopra.”
Anna era intrigata da quel racconto. Dopo il caffè andammo insieme nell’appartamento di Stephanie, al quale erano stati apposti i sigilli. Aprii con la chiave che mi avevano lasciato i Mailer.
Le stanze erano state setacciate da cima a fondo e vi regnava un caos assoluto. Il solo elemento concreto di cui disponessimo era che la porta d’ingresso non presentava segni di effrazione.
“Secondo i genitori di Stephanie,” dissi ad Anna, “l’unico duplicato della chiave era quello in loro possesso. Questo significa che la persona che l’altra sera si è introdotta qui aveva la chiave di Stephanie.”
Anna, cui avevo parlato dell’SMS notturno mandato da Stephanie al direttore dell’“Orphea Chronicle”, azzardò un’ipotesi:
“Se qualcuno ha la chiave di Stephanie, potrebbe avere anche il suo cellulare.”
“Vuoi dire che potrebbe non essere stata lei a spedire l’SMS? Ma chi?”
“Qualcuno che voleva guadagnare tempo,” suggerì.
Sfilai dalla tasca dei pantaloni la busta che avevo preso il giorno prima nella buca delle lettere di Stephanie e la porsi ad Anna.
“Questo è l’ultimo estratto conto della sua carta di credito,” dissi. “Due settimane fa è stata a Los Angeles, e dobbiamo ancora capire cosa ci sia andata a fare. Da quanto ho potuto accertare, dopo quel viaggio non si è più spostata in aereo. Quindi, se ha lasciato Orphea di sua spontanea volontà, l’ha fatto in macchina. Ho diramato un avviso di ricerca indicando la targa della sua auto: se è in viaggio da qualche parte, gli uomini della stradale la troveranno senza problemi.”
“Vedo che non sei stato con le mani in mano,” disse Anna, colpita.
“Il tempo stringe,” risposi. “Ho anche richiesto i suoi tabulati telefonici e gli estratti conto della sua carta di credito degli ultimi mesi. Spero di averli già stasera.”
Anna lanciò un’occhiata all’estratto conto.
“L’ultima volta che ha usato la carta di credito è stata alle 21:55 di lunedì, al Kodiak Grill,” notò. “È un ristorante sulla strada principale. Dovremmo andarci. Forse lì qualcuno ha visto qualcosa.”
Il Kodiak Grill si trovava nella parte alta della strada principale. Il gestore, dopo avere consultato l’ordine di servizio della settimana, ci indicò le cameriere di turno il lunedì sera. Una di loro riconobbe la foto di Stephanie che le avevamo mostrato.
“Sì,” disse, “mi ricordo di lei. È venuta qui all’inizio della settimana. Una bella ragazza, sola.”
“Cos’aveva di particolare perché riesca a ricordarsela tra tutti i clienti che vede ogni giorno?”
“Non era la prima volta che veniva. Chiedeva sempre lo stesso tavolo. Diceva che aspettava qualcuno. Ma quel qualcuno non arrivava mai.”
“E lunedì cos’è successo?”
“È arrivata verso le 18, poco dopo l’apertura serale. Ed è rimasta ad aspettare. Poi ha ordinato una Caesar Salade e una coca. E quando ha finito di consumare, è andata via.”
“Verso le 22, se non sbaglio.”
“Può darsi. Non ricordo esattamente l’ora, ma è rimasta a lungo. Ha pagato e se n’è andata. Non rammento altro.”
Uscendo dal Kodiak Grill, notammo che lì accanto c’era una banca dotata di sportello automatico.
“Ci saranno per forza delle videocamere,” disse Anna. “Può darsi che lunedì abbiano ripreso Stephanie.”
Dopo qualche minuto eravamo nello stanzino di uno degli agenti di sorveglianza della banca, che ci illustrò gli angoli di ripresa delle diverse videocamere. Una inquadrava il marciapiede e la terrazza del Kodiak Grill. Poi l’uomo ci mostrò il video con le immagini registrate a partire dalle 18 di lunedì. Scrutando i passanti che sfilavano sullo schermo, all’improvviso la vidi.
“Stop!” esclamai. “Eccola lì: quella è Stephanie.”
L’agente bloccò l’immagine.
“Adesso faccia scorrere la sequenza al contrario, lentamente,” gli chiesi.
Sullo schermo, Stephanie cominciò a camminare all’indietro. La sigaretta che teneva tra le labbra si ricostruì, poi l’accese con un accendino di metallo dorato, la prese con due dita e la rinfilò in un pacchetto che rimise nella borsa. Indietreggiò ancora, cambiò direzione sul marciapiede, raggiunse una piccola utilitaria blu e ci salì.
“È la sua macchina,” dissi. “Una Mazda blu a tre porte. L’ho vista mentre Stephanie ci saliva lunedì, nel parcheggio della centrale di polizia.”
Pregai l’uomo di far avanzare la sequenza nel senso corretto: vedemmo Stephanie scendere dalla macchina, accendersi una sigaretta e fumarla mentre s’incamminava sul marciapiede per dirigersi verso il Kodiak Grill.
A quel punto l’agente fece scorrere velocemente il video fino alle 21:55, l’ora in cui Stephanie aveva pagato la cena con la carta di credito. Dopo due minuti, la vedemmo riapparire nell’inquadratura. Si avviò con passo nervoso verso la Mazda. Al momento di salirvi, prese il cellulare dalla borsa. Qualcuno la stava chiamando. Rispose: la conversazione fu breve. Sembrava che parlasse, ma in realtà si limitava ad ascoltare. Dopo aver riattaccato, si sedette in macchina e rimase per qualche secondo a riflettere. La si vedeva distintamente attraverso il finestrino dell’auto. Cercò un numero nella rubrica del cellulare e lo chiamò, ma chiuse subito la comunicazione. Come se non avesse preso la linea. Poi fece un altro tentativo, e stavolta la vedemmo parlare. La conversazione durò una ventina di secondi. Poi riattaccò, mise in moto e si allontanò in direzione nord.
“Questa potrebbe anche essere l’ultima immagine di Stephanie,” mormorai.
Passammo buona parte del pomeriggio a interrogare gli amici di Stephanie. Abitavano quasi tutti a Sag Harbor, la località dov’era cresciuta.
Nessuno di loro aveva più sue notizie da lunedì ed erano tutti in pensiero per lei. Tra l’altro, il fatto che i suoi genitori avessero chiamato anche loro li aveva fatti preoccupare ulteriormente. Avevano cercato di contattarla per telefono, via mail, tramite i social, ed erano persino andati a cercarla a casa, ma sempre invano.
Da quelle conversazioni emerse che Stephanie era una ragazza perbene da ogni punto di vista. Non si drogava, non esagerava con l’alcol e andava d’accordo con tutti. I suoi amici erano più informati dei genitori sulla sua vita intima. Una di loro ci disse che aveva conosciuto un suo amichetto.
“Sì, un certo Sean, che Stephanie aveva portato a una serata conviviale. C’era qualcosa di strano.”
“In cosa?”
“Nel loro rapporto. C’era qualcosa che non quadrava.”
Un’altra disse che Stephanie si era buttata anima e corpo nel lavoro:
“Negli ultimi tempi non la vedevamo quasi più. Diceva di essere impegnatissima.”
“Su cosa stava lavorando?”
“Non ne ho idea.”
Una terza amica ci parlò del suo viaggio a Los Angeles.
“Sì, quindici giorni fa è andata a Los Angeles, ma mi ha chiesto di non dirlo a nessuno.”
“Cosa c’era andata a fare?”
“Non ne ho idea.”
Tra i suoi amici, l’ultimo che avesse parlato con lei era Timothy Volt. Lui e Stephanie si erano visti la domenica sera.
“È venuta a casa mia,” ci disse Timothy. “Ero solo, abbiamo bevuto qualcosa insieme.”
“Le è sembrata nervosa, preoccupata?” chiesi.
“No.”
“Che tipo è Stephanie?”
“Una ragazza fantastica, molto intelligente, ma ha un carattere tremendo ed è molto cocciuta. Quando si mette in testa una cosa, non la molla più.”
“Le parlava del suo lavoro?”
“Un po’. Quella sera mi ha detto che stava lavorando a un progetto molto importante, ma senza entrare nei particolari.”
“Che tipo di progetto?”
“Un libro. Era quello il motivo per cui era tornata negli Hamptons.”
“Come mai?”
“Stephanie è molto ambiziosa. Sogna di diventare una scrittrice famosa, e ci riuscirà. Fino a settembre ha lavorato in una rivista letteraria piuttosto importante... Mi sfugge il nome...”
“Il ‘New York Literary Magazine’,” dissi.
“Esatto, quello. Ma in realtà ci lavorava solo per pagarsi le bollette. Quando l’hanno licenziata, ha detto che voleva tornare qui per poter scrivere in pace. Ricordo che un giorno mi ha detto: ‘Sono tornata negli Hamptons per scrivere un libro’. Credo che avesse bisogno di tempo e tranquillità: esattamente quello che ha trovato qui. Altrimenti perché avrebbe accettato di lavorare in un giornale locale? Ripeto, è una ragazza ambiziosa. Mira in alto. Se è venuta a Orphea, doveva avere un buon motivo per farlo. Forse non riusciva a concentrarsi nell’atmosfera frenetica di New York. D’altronde è tipico degli scrittori cercare l’ispirazione in campagna, no?”
“Dove scriveva?”
“A casa sua, immagino.”
“Col computer?”
“Non lo so. Perché?”
Uscendo dalla casa di Timothy Volt, Anna mi fece notare che nell’appartamento di Stephanie non c’era nessun computer.
“A meno che non se ne sia impadronito il ‘visitatore’ di ieri sera,” dissi.
Visto che ci trovavamo a Sag Harbor, ne approfittammo per fare un salto dai genitori di Stephanie. Ci dissero che non avevano mai sentito parlare di quel Sean e che la figlia non aveva lasciato nessun computer a casa loro. Per precauzione, chiedemmo di poter dare un’occhiata alla sua stanza. Stephanie non era quasi più entrata da quando aveva finito il liceo, ed era rimasta intatta: i manifesti alle pareti, le coppe delle gare sportive, i pelouche sul letto e i libri di scuola.
“È da anni che Stephanie non dorme più in questa stanza,” ci spiegò la madre. “Dopo il liceo è andata all’università ed è rimasta a New York finché non l’hanno licenziata dal ‘New York Literary Magazine’.”
“C’è un motivo preciso che ha spinto Stephanie a trasferirsi a Orphea?” le chiesi, senza rivelare ciò che ci aveva confidato Timothy Volt.
“Come vi ho detto ieri, aveva perso il lavoro a New York e aveva voglia di tornare negli Hamptons.”
“Ma perché proprio a Orphea?” insistetti.
“Non lo so, forse perché è la città più grande della regione.”
Azzardai una domanda delicata:
“Signora Mailer, a New York Stephanie aveva qualche nemico? Era in conflitto con qualcuno?”
“No, niente di tutto ciò.”
“Viveva da sola?”
“Aveva una compagna d’appartamento: una ragazza che lavorava come lei al ‘New York Literary Magazine’. Alice Filmore. L’abbiamo incontrata una volta, quando siamo andati ad aiutare Stephanie a riprendersi i mobili dopo che aveva deciso di lasciare New York. Aveva solo quattro cose, le abbiamo portate direttamente nel suo appartamento a Orphea.”
Dovevamo assolutamente scoprire su cosa stesse lavorando Stephanie. Si trattava del quadruplice omicidio del 1994, come mi aveva detto? Non avendo trovato elementi né a casa sua né in quella dei genitori, decidemmo di tornare a Orphea e dare un’occhiata al suo computer in redazione.
Erano le 17 quando arrivammo al giornale. Michael Bird ci fece strada tra le postazioni dei giornalisti. Indicò quella di Stephanie, una scrivania molto ordinata sulla quale c’erano un monitor, una tastiera, una confezione di fazzolettini di carta, un’incredibile quantità di biro identiche infilate in una tazza da tè, un taccuino e alcuni fogli alla rinfusa. Li scorsi rapidamente senza trovarvi niente di interessante, poi chiesi a Bird:
“In questi giorni qualcuno ha potuto accedere al computer di Stephanie, in sua assenza?”
Mentre parlavo, premetti il pulsante della tastiera che avrebbe dovuto avviare il computer.
“No,” rispose lui, “ogni computer è protetto da una password individuale.”
Poiché il computer non si accendeva, premetti di nuovo il tasto di avvio e chiesi:
“Quindi non c’è nessuna possibilità che qualcuno abbia utilizzato il computer di Stephanie a sua insaputa?”
“Nessuna,” confermò Bird. “La password ce l’ha solo Stephanie. Nessun altro, neanche il nostro responsabile informatico. Tra l’altro mi chiedo come fareste ad accedervi, non avendo la password.”
“Abbiamo degli specialisti in grado di occuparsene,” risposi. “Ma nel frattempo vorrei che almeno si accendesse.”
Mi chinai sotto la scrivania per accertarmi che l’unità di sistema fosse ben collegata alla presa elettrica. Ma non c’era nessuna unità di sistema. Non c’era niente.
Alzai di colpo la testa e chiesi:
“Dov’è il computer di Stephanie?”
“Lì sotto, no?” disse Bird.
“No, qui non c’è niente!”
Bird e Anna si chinarono a loro volta e constatarono che c’erano solo cavi penzolanti. A quel punto Bird esclamò, con aria stranita:
“Qualcuno ha rubato il computer di Stephanie!”
Alle 18:30 davanti alla redazione del giornale erano schierate varie auto della polizia di Orphea e della polizia di stato.
All’interno dell’edificio un agente della scientifica ci confermò che si era trattato di un furto con scasso. Bird, Anna e io lo seguimmo in fila indiana in un locale sotterraneo che fungeva da ripostiglio con un’uscita di sicurezza. In fondo al locale, una porta dava su una ripida scala che sbucava in strada. Il vetro della porta era stato spaccato ed era bastato infilare una mano per ruotare la maniglia dall’interno e aprirla.
“Lei non viene mai qui dentro?” chiesi a Bird.
“Mai. Nel seminterrato non ci capita nessuno. C’è solo l’archivio, che non viene mai consultato.”
“E non c’è un sistema di allarme o una videocamera?” chiese Anna.
“E chi potrebbe permetterseli? Credetemi, se ci fossero soldi, li useremmo prima per le tubature.”
“Abbiamo cercato di individuare tracce sulle maniglie,” disse l’agente della scientifica, “ma c’è un accumulo di impronte e sudiciume che rende impossibile qualsiasi rilevamento. E non abbiamo trovato niente neanche sulla scrivania della ragazza. Secondo me, l’intruso, dopo essere entrato da qui, è salito al piano di sopra, ha preso il computer e se n’è andato facendo lo stesso percorso.”
Risalimmo in redazione.
“Potrebbe essere stato un redattore a far sparire il computer di Stephanie?” chiesi a Bird.
“Mai e poi mai!” esclamò lui, scandalizzato. “Come può pensare una cosa del genere? Io ho la massima fiducia nei miei giornalisti.”
“Allora come spiega che una persona estranea alla redazione sapesse qual era il computer di Stephanie?”
“Non ne ho idea,” sospirò Bird.
“Chi è il primo ad arrivare in redazione, la mattina?” chiese Anna.
“Shirley. Di solito è lei ad aprire l’ufficio.”
Convocammo Shirley.
“In questi giorni le è capitato di notare qualcosa di insolito, arrivando in redazione?” le chiesi.
Shirley, dapprima perplessa, fece uno sforzo di memoria, e all’improvviso i suoi occhi si illuminarono.
“Personalmente non ho notato niente. Ma martedì mattina Newton, uno dei miei colleghi, mi ha detto che aveva trovato il suo computer acceso. Era certo di averlo spento lunedì sera, perché era stato l’ultimo a uscire. Mi ha fatto una scenata, sostenendo che qualcuno l’avesse acceso a sua insaputa, ma ho pensato che si fosse semplicemente dimenticato di spegnerlo.”
“Qual è la postazione di Newton?” chiesi.
“La prima, accanto a quella di Stephanie.”
Premetti il tasto di avvio senza preoccuparmi delle impronte. Poiché il computer era stato utilizzato nel frattempo, non poteva esserci più nulla di rilevabile. Lo schermo si illuminò:
COMPUTER DI: Newton
PASSWORD:
“L’intruso ha acceso un primo computer,” dissi, “ha visto apparire il nome e ha capito che non era quello giusto. Allora ne ha acceso un altro, ed è comparso il nome di Stephanie. A quel punto non ha avuto più bisogno di cercare oltre.”
“Il che dimostra che si tratta di qualcuno che non c’entra con la redazione,” intervenne Bird, rassicurato.
“Dimostra soprattutto che il furto è avvenuto nella notte tra lunedì e martedì,” continuai. “Cioè la notte della scomparsa di Stephanie.”
“La scomparsa di Stephanie?” ripeté Bird, turbato. “Cosa intende con ‘la scomparsa’?”
Anziché rispondere, gli chiesi:
“Potrebbe stamparmi tutti gli articoli scritti da Stephanie da quando ha cominciato a lavorare qui?”
“Certo. Ma le spiace dirmi cosa sta succedendo, capitano?” insistette lui. “Pensa che le sia successo qualcosa?”
“Penso di sì,” ammisi, pressoché obbligato. “E temo si tratti di qualcosa di grave.”
Lasciando la sede del giornale, ci imbattemmo nel comandante Gulliver e nel sindaco di Orphea, Alan Brown, che parlavano della situazione davanti all’ingresso. Il sindaco mi riconobbe subito. Fu come se gli fosse apparso un fantasma.
“Lei è qui?” si stupì.
“Avrei preferito rivederla in circostanze diverse.”
“Quali circostanze?” chiese lui “Cosa sta succedendo? Come mai la polizia di stato si scomoda per un semplice furto con scasso?”
“Capitano Rosenberg, lei non ha nessuna autorità per operare qui!” aggiunse Gulliver.
“Comandante, in questa città è scomparsa una persona, e le persone scomparse sono competenza della polizia di stato.”
“È scomparsa una persona?” balbettò il sindaco.
“Qui non è scomparso nessuno!” esclamò Gulliver, esasperato. “Lei non ha elementi per sostenere una cosa del genere! Si è già rivolto all’ufficio del procuratore, capitano? Strano che non l’abbia ancora fatto, se è così sicuro di ciò che dice. Vuole che telefoni io?”
Non risposi e me ne andai.
Quella notte, alle tre del mattino, la centrale dei pompieri di Orphea ricevette la segnalazione di un incendio al 77 di Bendham Road, l’indirizzo di Stephanie Mailer.