Jesse Rosenberg
Martedì 15 luglio 2014
11 giorni prima dell’inaugurazione del festival
L’inserzione che avevamo rintracciato nella rivista della Notre Dame University non ci permise di risalire a chi l’aveva pubblicata. Il redattore che si occupava degli annunci pubblicitari non disponeva di alcuna informazione: l’inserzione era stata presentata in segreteria e pagata direttamente in contanti. Mistero totale. Però il redattore riuscì a trovare nel suo archivio il medesimo annuncio pubblicato nei due anni precedenti, sempre nel numero autunnale della rivista.
“Cosa succede di particolare in autunno?” gli chiesi.
“Quello autunnale è il numero più letto,” rispose lui. “Coincide con la riapertura dell’università.”
Derek ne dedusse che l’arrivo di nuovi studenti offriva una maggior quantità di potenziali candidati a scrivere quel libro tanto importante per il committente.
“Se fossi in lui,” concluse Derek, “non mi limiterei a una sola rivista e pubblicherei l’inserzione anche su altre testate.”
Qualche telefonata alle riviste delle facoltà di lettere di varie università di New York e dintorni ci consentì di confermare quell’ipotesi: un’inserzione simile era stata pubblicata per anni sui numeri autunnali di ognuna di quelle testate. Ma l’inserzionista non aveva mai lasciato traccia della propria identità.
Sapevamo solo che si trattava di un uomo, che nel 1994 si trovava a Orphea, che possedeva informazioni in base alle quali si poteva ritenere che Ted Tennenbaum non fosse l’assassino, e che giudicava la situazione tanto grave da scriverci un libro, ma non poteva farlo personalmente. E quello era il particolare più strano. Derek si chiese a voce alta:
“Chi vuole scrivere, ma non può scrivere? E lo vuole così tanto da cercare disperatamente qualcuno che lo faccia al posto suo, pubblicando per anni inserzioni nelle riviste universitarie?”
A quel punto Anna si avvicinò alla lavagna magnetica e scrisse su un post-it, con il pennarello nero, quello che sembrava un enigma degno della Sfinge di Tebe:
Voglio scrivere, ma non posso scrivere. Chi sono?
In attesa di trovare nuovi elementi, non ci restava che continuare a esaminare gli articoli del “Chronicle” che avevamo già esaminato attentamente, ma senza molto successo. All’improvviso, leggendone uno, Derek trasalì e cerchiò un paragrafo. La sua reazione ci colpì.
“Hai trovato qualcosa?” gli chiese Anna.
“Sì,” rispose lui, incredulo, fissando la fotocopia che aveva in mano. “È un articolo pubblicato sul ‘Chronicle’ il 22 agosto 1994. C’è scritto: ‘Stando a una fonte di polizia, si sarebbe presentato un terzo testimone. La sua testimonianza potrebbe essere fondamentale per gli investigatori, che al momento non sembrano disporre di altre informazioni.’”
“Cos’è questa storia?” dissi, sbigottito. “Un terzo testimone? C’erano solo due testimoni: i due vicini di casa.”
“Lo so, Jesse,” disse Derek, sorpreso quanto me.
Anna contattò subito Michael Bird. Il direttore del “Chronicle” disse di non avere nessun ricordo di quel testimone, ma ci rammentò che, nei giorni successivi al quadruplice omicidio, in città giravano un sacco di voci. Purtroppo era impossibile interrogare l’autore di quell’articolo, morto da una decina d’anni, ma secondo Bird la fonte di polizia era con ogni probabilità il comandante Gulliver, che aveva sempre avuto la lingua lunga.
Cercammo Gulliver, ma non era in sede. Quando tornò al comando, venne direttamente nell’ufficio di Anna. Gli dissi che avevamo scoperto un articolo in cui si parlava di un terzo testimone.
“Era Marty Connors,” rispose Gulliver, senza esitare. “Lavorava in una stazione di servizio vicino a Penfield Crescent.”
“Perché non abbiamo mai sentito parlare di lui?”
“Perché qui al comando abbiamo controllato e ci siamo resi conto che la sua testimonianza non valeva niente.”
“Avremmo preferito verificarlo noi stessi.”
“All’epoca ci sono state decine di testimonianze di quel tipo, e prima di passarvele le abbiamo controllate a fondo. La gente ci contattava per qualsiasi sciocchezza: avevano sentito un rumore strano, percepito una presenza, visto un disco volante... Insomma, quel genere di idiozie. Ovviamente dovevamo filtrarle, per evitare di riempirvi di roba inutile. Ma abbiamo lavorato scrupolosamente.”
“Non ne dubito. È stato lei a interrogare quel Connors?”
“No. E non ricordo chi sia stato a occuparsene.”
Mentre stava per uscire dalla stanza, Gulliver si fermò di colpo sulla soglia e disse:
“Un monco.”
Lo guardammo tutti e tre.
“Di cosa sta parlando, Gulliver?” gli chiesi.
“Di quella roba scritta sulla lavagna: ‘Voglio scrivere, ma non posso scrivere. Chi sono?’ Risposta: un monco.”
“Grazie, comandante.”
Contattammo la stazione di servizio di cui ci aveva parlato Gulliver e scoprimmo che era ancora in attività, e che, colpo di fortuna, dopo vent’anni Connors lavorava ancora lì.
“Marty fa il turno di notte,” mi disse al telefono l’inserviente. “Monta alle 23.”
“Oggi lavora?”
“Sì. Vuole che gli lasci un messaggio?”
“No, grazie. Verrò a parlargli di persona.”
* * *
Chi vuole raggiungere gli Hamptons da Manhattan senza perdere tempo, si sposta in volo. Partendo dall’eliporto all’estremo sud dell’isola, bastano venti minuti di elicottero per collegare New York a qualsiasi altro posto di Long Island.
Nel parcheggio dell’aerodromo di Orphea, Jerry Eden aspettava seduto in macchina. Un rombo di motore lo distolse dai suoi pensieri. Alzò gli occhi e vide l’elicottero avvicinarsi. Scese dall’auto e guardò il velivolo posarsi sulla pista a qualche decina di passi da lui. Una volta spento il motore, mentre le pale rallentavano fino a fermarsi, lo sportello dell’elicottero si aprì e scese Cynthia Eden, seguita dal loro avvocato, Benjamin Graff. Varcato il cancello che separava la pista dal parcheggio, Cynthia si precipitò in lacrime tra le braccia del marito.
Dopo aver ricambiato l’abbraccio della moglie, Jerry strinse cordialmente la mano all’avvocato.
“Benjamin,” gli disse, “Dakota rischia la prigione?”
“Quanta droga aveva con sé?”
“Non lo so.”
“Andiamo subito al comando di polizia,” disse Graff. “Dobbiamo prepararci per l’udienza in tribunale. Di per sé non è niente di preoccupante, ma c’è la faccenda Tara Scalini. Se il giudice istruisce con cura il procedimento, non può fare a meno di accorgersi di quel precedente. E se ne terrà conto, per Dakota sarebbe un grosso guaio.”
Jerry tremava. Si sentiva così debole che chiese a Benjamin di guidare. Un quarto d’ora più tardi si presentarono al comando di polizia di Orphea e furono accompagnati in una saletta riservata agli interrogatori e ai colloqui. Dopo qualche minuto entrò Dakota, ammanettata. Quando vide il padre e la madre, la ragazza scoppiò a piangere. Il poliziotto le tolse le manette, e lei corse tra le braccia dei genitori. “La mia bambina!” esclamò Cynthia, stringendola a sé più forte che poteva.
I poliziotti uscirono dalla saletta, e gli Eden si sedettero con Graff intorno al tavolo di plastica. L’avvocato estrasse dalla valigetta un fascicolo e un bloc-notes, e si mise subito al lavoro.
“Dakota,” disse, “devo sapere cos’hai detto esattamente ai poliziotti. E soprattutto, se hai parlato di Tara.”
* * *
Al Grand Theater, le audizioni continuavano. Sul palco, il sindaco Brown si era seduto accanto ad Harvey per spingerlo ad accelerare la scelta degli attori. Ma nessuno dei candidati sembrava essere all’altezza.
“Sono tutti negati,” ripeteva Harvey. “Dovrebbe essere lo spettacolo teatrale del secolo, eppure mi vedo sfilare davanti un branco d’incapaci.”
“Cerca di sforzarti, Kirk!” lo supplicò il sindaco.
Harvey chiamò sul palco un’altra coppia di candidati. Contrariamente alle disposizioni, davanti a lui si presentarono due uomini: Ron Gulliver e Meta Ostrovski.
“Che ci fate qui voi due?”
“Io sono venuto per l’audizione!” sbraitò Ostrovski.
“Anch’io!” berciò Gulliver.
“Le disposizioni erano chiare: un uomo e una donna. Siete rifiutati entrambi.”
“Io sono arrivato prima di lui!” protestò Ostrovski.
“Io oggi sono di servizio: non posso aspettare il mio turno. Ho diritto di precedenza.”
“Ron?” disse stupito il sindaco Brown. “Ma lei non può recitare nello spettacolo!”
“Perché no?” chiese risentito il comandante Gulliver. “Mi metterò in ferie. È un’occasione unica, ho il diritto di approfittarne. E poi, nel 1994, Harvey era il comandante della polizia e ha comunque recitato.”
“Vi darò la possibilità di provare,” tagliò corto Harvey. “Ma uno dei due dovrà fare la donna.”
Chiese che gli portassero una parrucca, e questo provocò la sospensione dell’audizione per venti minuti, quanti ne occorsero per recuperare l’accessorio. Infine un volontario che conosceva i meandri del Grand Theater, tornò con una lunga chioma artificiale bionda, trovata in un magazzino. Ostrovski se la piazzò in testa e, munito del foglio sul quale era stata trascritta la prima scena, ascoltò Harvey leggere la didascalia.
È un mattino tetro. Piove. Su una strada di campagna, il traffico è bloccato: si è creato un terribile ingorgo. Gli automobilisti, esasperati, pestano furiosamente sui clacson. Una ragazza cammina sul ciglio della strada, risalendo la fila delle auto immobili. Avanza fino al cordone di polizia e si rivolge all’agente di guardia.
Ostrovski si avvicinò a Gulliver camminando come se avesse le scarpe con i tacchi alti e disse la sua battuta:
OSTROVSKI (urlando come un pazzo con voce stridula): “Cos’è successo?”
COMANDANTE GULLIVER (ricominciando tre volte): “È morto un uomo. Un tragico incidente di moto.”
Erano atroci. Ma quando ebbero finito, Harvey si alzò in piedi e applaudì esclamando:
“Siete scritturati entrambi!”
“Sei sicuro?” gli chiese sottovoce il sindaco Brown. “Sono disastrosi.”
“Ne sono più che sicuro!” s’infervorò Harvey.
“Hai rifiutato candidati molto più bravi di loro.”
“Ti ho detto che sono sicuro della mia scelta, Alan!”
Poi, rivolgendosi alla platea e agli aspiranti che la gremivano, esclamò:
“Ecco i nostri primi due attori.”
Ostrovski e Gulliver scesero dal palco tra gli applausi degli altri candidati, per poi essere bersagliati dal flash del fotografo del “Chronicle” e intercettati da un giornalista ansioso di raccogliere le loro impressioni. Ostrovski era raggiante. ‘I registi mi cercano,’ pensava, ‘i giornalisti mi tampinano: eccomi già diventato un artista adulato e riconosciuto. Oh, cara gloria, così a lungo bramata, eccoti infine!’
Davanti al Grand Theater, Alice aspettava nell’auto di Bergdorf, parcheggiata piuttosto malamente. Mentre stavano per tornare a New York, il direttore del “New York Literary Magazine” aveva deciso di dare un’occhiata alle audizioni, per avere un po’ di materiale con cui completare l’articolo che giustificava il week-end a Orphea.
“Solo pochi minuti,” aveva promesso ad Alice, che si era limitata a borbottare. Cinque minuti dopo Bergdorf usciva dal teatro. Con Alice aveva già sistemato tutto in albergo. Avevano parlato di quella separazione, e lei alla fine aveva detto che capiva e che non avrebbe fatto storie. Ma mentre stava per risalire in macchina, Bergdorf ricevette una telefonata di Skip Nalan, il suo vicedirettore.
“A che ora torni, Steven?” gli chiese Nalan, con una voce strana. “Devo parlarti, è molto importante.”
Dal suo tono, Bergdorf capì subito che c’era qualche grana, e preferì mentire:
“Non so, dipende dalle audizioni. Qui stanno succedendo cose appassionanti. Perché me lo chiedi?”
“Perché poco fa è venuta nel mio ufficio la responsabile dell’amministrazione. Mi ha mostrato gli estratti conto della tua carta di credito aziendale: ci sono delle operazioni molto strane. Acquisti di ogni tipo, soprattutto in negozi di lusso.”
“Negozi di lusso?” ripeté Bergdorf, come se cadesse dalle nuvole. “E se qualcuno mi avesse clonato la carta? Pare che in Cina...”
“La carta è stata utilizzata a Manhattan, Steven, non in Cina. Ci sono anche pernottamenti al Plaza e conti di ristorante esorbitanti.”
“Incredibile!” disse Bergdorf, continuando a fingersi sbalordito.
“Steven, c’entri qualcosa?”
“Io? Ovvio che no, Skip. Mi ci vedi a fare una cosa del genere?”
“In effetti non sarebbe da te. Ma c’è un addebito per un soggiorno al Lake Palace di Orphea. E quello puoi essere solo tu.”
Bergdorf tremava, ma si sforzò di mantenere un tono di voce rilassato.
“Sì, qualcosa di davvero strano,” disse, “hai fatto bene ad avvisarmi: in albergo avevo dato la carta di credito solo per gli extra. Quelli del comune mi avevano assicurato che la stanza era a carico loro. Temo che alla reception abbiano fatto qualche pasticcio. Li chiamo subito.”
“Meglio così,” disse Nalan, “ora mi sento più tranquillo. Non ti nascondo che per un attimo ho pensato...”
Bergdorf scoppiò a ridere.
“Secondo te, sono uno che cena al Plaza?”
“In effetti no,” disse divertito Nalan. “E comunque la bella notizia è che, stando alla banca, probabilmente non dovremo pagare niente, perché toccava a loro scoprire la truffa. Dicono che di questi casi ne succedono parecchi, con carte di credito contraffatte con i dati di quelle autentiche.”
“Vedi? È proprio come ti dicevo io!” esclamò Bergdorf, ritrovando la propria sicurezza.
“Stasera, quando rientri, va’ a sporgere denuncia al comando di polizia. È una precisa richiesta della banca per procedere al rimborso. Visto l’importo, vogliono trovare l’autore della truffa. Sono sicuri che abiti a New York.”
Ancora una volta, Bergdorf si sentì prendere dal panico: la banca l’avrebbe identificato in un batter d’occhi. In certi negozi le commesse lo chiamavano per nome. Non era proprio il caso di tornare in giornata a New York: doveva prima trovare una soluzione.
“Andrò a fare la denuncia appena torno,” assicurò a Nalan. “Ma devo dare la precedenza a quello che sta succedendo qui: lo spettacolo è fantastico, il livello degli attori così alto, il processo creativo così inaudito, che ho deciso di dedicarmici anima e corpo. Mi presenterò alle audizioni per scrivere un articolo da infiltrato. Lo spettacolo visto dall’interno. Ne verrà fuori un pezzo fantastico. Fidati del mio fiuto, Skip, sarà un toccasana per il ‘Magazine’. Pulitzer assicurato!”
E il premio Pulitzer fu ciò che Bergdorf rifilò subito dopo anche alla moglie.
“Ma quanti giorni pensi di restare ancora a Orphea?” gli chiese Tracy, preoccupata.
Capendo che lei non aveva abboccato, Bergdorf si vide costretto a ricorrere all’artiglieria pesante:
“Quanti giorni non lo so. Ma la cosa importante è che il ‘Magazine’ mi paga gli straordinari per la mia presenza qui. E, viste tutte le ore che faccio, si tratta di un bel gruzzolo! Perciò, al mio ritorno, partiremo per quella vacanza a Yellowstone!”
“Davvero?” disse Tracy, gongolante.
“Certo,” rispose il marito. “Non vedo l’ora.”
Poi riattaccò e aprì lo sportello della macchina dal lato di Alice.
“Non possiamo partire,” le disse in tono grave.
“Perché?” chiese la ragazza.
Bergdorf si rese conto che non poteva dire la verità neanche a lei. Allora si sforzò di sorridere e annunciò:
“Ho parlato con il mio vice e abbiamo deciso che parteciperai alle audizioni e scriverai un articolo da infiltrata su questo spettacolo. Un lungo articolo per il ‘Magazine’, con tanto di tua foto in copertina.”
“Oh, Stevie, è fantastico!” esclamò Alice. “Il mio primo articolo!”
Lo baciò voluttuosamente, e poi lo seguì di corsa dentro il teatro. Attesero il loro turno per ore. Quando finalmente furono chiamati sul palco, Harvey aveva scartato tutti i candidati di quella tornata, e il sindaco, accanto a lui, lo stava sollecitando a trovarne qualcuno che gli andasse bene. Pur non essendo molto convinto della prestazione di Alice e Steven, Harvey decise di scritturarli, perché Brown smettesse di lamentarsi.
“Con Gulliver e Ostrovski, sono quattro su otto,” disse il sindaco, con un certo sollievo. “Siamo già a metà.”
* * *
Era ormai tardo pomeriggio quando, nell’aula principale del tribunale di Orphea, dopo un’attesa interminabile, Dakota Eden fu finalmente convocata dal giudice Abe Cooperstin.
Accompagnata da un poliziotto, la ragazza si avvicinò al giudice con passo malfermo. Aveva gli occhi rossi per le lacrime ed era stremata per la notte in cella.
“Passiamo al caso 23450. Comune di Orphea contro Dakota Eden,” annunciò il giudice Cooperstin, scorrendo con lo sguardo il fascicolo che gli era stato consegnato. “Signorina Eden, qui leggo che ieri pomeriggio è stata arrestata mentre, a bordo dell’auto di suo padre, inalava eroina. Corrisponde al vero?”
Dakota lanciò un’occhiata terrorizzata all’avvocato Graff, che, con un cenno del capo, la incoraggiò a rispondere come avevano concordato.
“Sì, vostro onore,” rispose, con voce rotta dal pianto.
“Posso sapere per quale motivo una ragazza così graziosa fa uso di droga?”
“Ho commesso un grosso sbaglio, vostro onore. Sono in un momento difficile della mia vita. Ma sto facendo di tutto per superarlo. A New York vado da uno psicoterapeuta.”
“Quindi non è la prima volta che fa uso di droga?”
“No, vostro onore.”
“Ne fa uso regolarmente?”
“No, vostro onore. Solo qualche volta.”
“Eppure la polizia l’ha trovata in possesso di una notevole quantità di eroina.”
Dakota chinò il capo. Jerry e Cynthia si sentirono annodare le budella: se il giudice sapeva qualcosa della faccenda di Tara Scalini, Dakota rischiava grosso.
“Cosa fa nella vita?” chiese Cooperstin alla ragazza.
“Non molto, al momento,” ammise lei.
“Come mai?”
Dakota scoppiò a piangere. Aveva voglia di dirgli tutto, di parlargli di Tara. Meritava di andare in prigione. Non riuscendo a smettere di piangere, non poté rispondere alla domanda, e il giudice proseguì:
“Signorina, le confesso che nel verbale della polizia c’è un dettaglio che mi angustia.”
Ci fu un istante di silenzio. Jerry e Cynthia sentirono il cuore esplodergli nel petto: il giudice sapeva tutto. L’avrebbe sbattuta in prigione. Ma Cooperstin chiese:
“Come mai è andata a drogarsi davanti a quella casa? Chiunque altro sarebbe andato nel bosco, sulla spiaggia, in un luogo appartato. Lei, invece, si è fermata davanti al cancello di una casa. In pratica, sotto gli occhi di tutti. Ovvio che il proprietario abbia chiamato la polizia. È un comportamento strano, non trova?”
Jerry e Cynthia non ce la facevano più: la tensione era insopportabile.
“Quella è la nostra vecchia casa delle vacanze,” spiegò Dakota. “I miei genitori hanno dovuto venderla per colpa mia.”
“Per colpa sua?” ripeté il giudice, incuriosito.
Jerry avrebbe voluto alzarsi, urlare o comunque fare qualcosa per interrompere la seduta. Ma l’avvocato Graff lo tolse d’impaccio. Approfittando dell’esitazione di Dakota, rispose al posto suo:
“Vostro onore, la mia cliente sta solo cercando di riscattarsi e di riconciliarsi con la vita. Il suo comportamento di ieri era un’evidente richiesta d’aiuto. La signorina Eden si è fermata davanti a quella casa perché sapeva che lì l’avrebbero trovata. Sapeva che il padre l’avrebbe cercata proprio in quel posto. Dakota e il padre sono venuti a Orphea per ritrovarsi e ripartire con il piede giusto sul sentiero della vita.”
Il giudice distolse lo sguardo da Dakota, osservò per qualche istante l’avvocato; poi si rivolse di nuovo all’accusata:
“È vero, signorina Eden?”
“Sì,” mormorò lei.
Il giudice sembrò soddisfatto della risposta. Jerry non poté trattenere un sospiro di sollievo: il diversivo di Benjamin Graff era stato perfetto.
“Credo che lei meriti una seconda chance,” decretò Cooperstin. “Ma attenzione: è un’opportunità che non deve lasciarsi scappare. Suo padre è qui?”
Jerry si alzò di scatto.
“Sì, vostro onore. Sono Jerry Eden, il padre di Dakota.”
“Signor Eden, il discorso vale anche per lei, dato che, a quanto ho capito, lei e sua figlia siete venuti qui per ritrovarvi.”
“Proprio così, vostro onore.”
“Cosa ha previsto di fare qui a Orphea con sua figlia?”
La domanda colse alla sprovvista Jerry. Il giudice, notando la sua esitazione, aggiunse:
“Signor Eden, vuole forse dirmi che è venuto qui solo per lasciare che sua figlia trascini il proprio disagio sul bordo di una piscina d’albergo?”
“No, vostro onore. Vorremmo... Vorremmo partecipare insieme all’audizione per lo spettacolo teatrale. Da bambina Dakota diceva che da grande avrebbe fatto l’attrice. Tre anni fa ha anche scritto un testo teatrale.”
Il giudice si concesse qualche istante di riflessione. Guardò Jerry, poi Dakota, e infine disse:
“Molto bene. Signorina Eden, sospendo la pena a condizione che partecipi con suo padre a quello spettacolo teatrale.”
Jerry e Cynthia si guardarono, sollevati.
“Grazie, vostro onore,” disse Dakota, sorridendo al giudice. “Non la deluderò.”
“Me lo auguro. E sia ben chiaro: se non mantiene l’impegno, o se si fa trovare di nuovo in possesso di droga, non ci sarà alcuna clemenza: il suo caso passerà sotto la giurisdizione dello stato. Il che significa che, in caso di recidiva, andrà direttamente in carcere per svariati anni.”
Dakota promise di rigare dritto e si gettò tra le braccia dei genitori.
Usciti dal tribunale, gli Eden tornarono al Lake Palace. Dakota era sfinita e si addormentò appena si sedette sul divano della suite. Jerry fece segno a Cynthia di seguirlo in terrazza per parlare tranquillamente.
“Cynthia, che ne diresti di restare con noi? Potremmo passare un po’ di tempo tutti insieme.”
“Jerry, hai sentito cosa ha detto il giudice: dovete essere tu e Dakota.”
“Questo non impedisce che tu rimanga con noi...”
Cynthia scosse la testa.
“No, non capisci. Per me restare qui non sarebbe passare un po’ di tempo in famiglia, perché in questo momento ho l’impressione che la nostra non sia più una famiglia. Non ho più forza, Jerry. Non ho più energie. È da anni che scarichi tutto sulle mie spalle. Sì, è vero che sei tu a permetterci questo tenore di vita col tuo lavoro, e te ne sono riconoscente: non prendermi per un’ingrata. Ma quand’è stata l’ultima volta che hai investito sul nostro nucleo famigliare non solo in termini economici? Per tutti questi anni mi hai lasciata sola a occuparmi del buon andamento della famiglia. Tu ti sei limitato ad andare a lavorare. E mai una volta, Jerry... Mai una volta che mi abbia chiesto come stavo. Se avevo bisogno d’aiuto. Mai una volta che mi abbia chiesto se ero felice. L’hai dato per scontato, pensando che a Saint Barth o in un appartamento con vista su Central Park si sia per forza felici. Mai una volta, Jerry, che ti sia degnato di chiedermelo.”
“E invece tu?” ribatté Jerry. “Mi hai mai domandato se ero felice? Non ti sei mai chiesta se il mio cazzo di lavoro lo detestassi anch’io quanto lo detestavate tu e Dakota?”
“Cosa t’impediva di dimetterti?”
“Il desiderio di offrirvi una vita da sogno, Cynthia. Perché se ho fatto tutto questo, è stato solo per voi.”
“Oh, davvero, Jerry? Vorresti dirmi che preferivi la pensioncina a gestione famigliare alla nostra casa in riva all’oceano?”
“Forse sì,” mormorò Jerry.
“Non ci credo!”
Cynthia rimase per qualche istante in silenzio a guardare negli occhi il marito. Poi gli disse con voce strozzata:
“Devi ricostruire la nostra famiglia, Jerry. Hai sentito quello che ha detto il giudice: la prossima volta per Dakota ci sarà il carcere. Cosa intendi fare per evitare che ci sia una prossima volta, Jerry? Cosa intendi fare per proteggere tua figlia da se stessa e impedire che finisca in prigione?”
“Cynthia, io...”
Ma lei non lo lasciò continuare.
“Jerry, io torno a New York. Ti lascio qui con la missione di ricostruire nostra figlia. Il mio è un ultimatum. Salva Dakota. Salvala, altrimenti ti lascio. Non posso più vivere così.”
* * *
“È quella, Jesse,” mi disse Derek, indicando la scalcinata stazione di servizio in fondo a Penfield Road.
Svoltai per entrare nello spiazzo e mi fermai di fronte al piccolo emporio illuminato. Erano le 23:15. Davanti ai distributori non c’erano auto né persone: il posto sembrava deserto.
Nonostante l’ora, c’era un’afa insopportabile. All’interno dell’emporio, il condizionatore sbuffava aria gelida in tutto il locale.
Passammo tra gli scaffali pieni di riviste, bibite e patatine per raggiungere la cassa, dietro la quale, nascosto da un espositore di barrette di cioccolato, un uomo con i capelli bianchi stava guardando la televisione. Ci salutò senza staccare gli occhi dallo schermo.
“Quale distributore?” chiese.
“Non siamo qui per fare benzina,” risposi, mostrandogli il distintivo. L’uomo spense subito il televisore.
“Di che si tratta?” chiese, alzandosi in piedi.
“Lei è Marty Connors?”
“Sì. Perché, cos’è successo?”
“Signor Connors, stiamo indagando sulla morte del sindaco Gordon.”
“Il sindaco Gordon? Ma è successo vent’anni fa!”
“In base alle nostre informazioni, la sera dell’omicidio lei ha visto qualcosa.”
“Certo che ho visto qualcosa. Ma all’epoca, quando ne ho parlato con la polizia, mi hanno detto che non era niente d’interessante”
“Vorrei che mi dicesse cosa ha visto esattamente.”
“Un camioncino nero che procedeva a gran velocità. Arrivava da Penfield Road ed è andato in direzione di Sutton Street. Dritto sparato. Ero al distributore, ho avuto appena il tempo di vederlo sfrecciare.”
“Ha riconosciuto il modello?”
“Certo che l’ho riconosciuto. Era un Ford E-150 con uno strano disegno sul lunotto posteriore.”
Derek e io ci guardammo: il camioncino di Ted Tennenbaum era un Ford E-150.
“Ha visto chi c’era al volante?” chiesi a Connors.
“No, andava troppo veloce. Sul momento ho pensato che fossero dei ragazzi che facevano i cretini.”
“Che ora era?”
“All’incirca le 19, ma non so dirvi l’ora esatta. Potevano essere le 19:00, oppure le 19:10. Come ho detto, è successo in una frazione di secondo e non ci ho fatto molta attenzione. Solo più tardi, quando ho saputo cos’era successo a casa del sindaco, ho pensato che potesse esserci un nesso. E ho contattato la polizia.”
“Con chi ha parlato? Ricorda il nome del poliziotto?”
“Sì, certo che lo ricordo. È venuto a interrogarmi il comandante in persona: Kirk Harvey.”
“E...?”
“E gli ho raccontato la stessa cosa che ho raccontato a voi, ma lui ha detto che non centrava niente con l’indagine.”
Quello che Lena Bellamy aveva scorto nei pressi della casa del sindaco Gordon nel 1994 era proprio il camioncino di Ted Tennenbaum. E la testimonianza di Marty Connors, che aveva visto quello stesso veicolo arrivare da Penfield Road, non faceva che confermarlo. Perché Harvey ce l’aveva nascosto? Usciti dal piccolo emporio della stazione di servizio, ci fermammo per qualche minuto nel parcheggio. Derek aprì la cartina della città e studiammo l’itinerario seguito dal camioncino in base a quanto aveva detto Connors.
“Ha imboccato Sutton Street,” disse Derek, seguendo con l’indice il tragitto sulla carta, “e Sutton Street sbocca nella parte alta della strada principale.”
“Come ricorderai, la sera dell’inaugurazione del festival l’accesso alla strada principale era chiuso al traffico, tranne un varco nella parte superiore, per consentire ai veicoli autorizzati di raggiungere il Grand Theater.”
“Autorizzati con un permesso di transito o di sosta come quello rilasciato al pompiere in servizio quella sera?”
All’epoca ci eravamo ripromessi di scoprire se qualcuno ricordasse di avere visto Tennenbaum superare il posto di controllo che permetteva di raggiungere il Grand Theater passando per la strada principale. Poi, però, interrogando i volontari e i poliziotti che si erano dati il cambio in quel punto, avevamo capito che c’era stata una tale baraonda che nessuno aveva visto niente. Il festival aveva pagato il proprio successo: la strada principale era gremita di gente e i parcheggi intasati. Gli addetti al traffico avevano perso il controllo della situazione. L’ordine di canalizzare quella marea di auto non aveva resistito a lungo: le persone avevano cominciato a parcheggiare dove capitava e a camminare ovunque ci fosse spazio, distruggendo le aiuole. Pertanto era assolutamente impossibile capire chi fosse passato dal posto di controllo e a che ora.
“Quindi Tennenbaum ha percorso Sutton Street ed è tornato al Grand Theater, proprio come sospettavamo noi,” mi disse Derek.
“Ma perché Harvey non ce ne ha mai parlato? Grazie a quella testimonianza avremmo potuto arrestare Tennenbaum molto prima. Harvey voleva che riuscisse a farla franca?”
In quell’istante Connors si affacciò sulla soglia dell’emporio e corse verso di noi.
“Per fortuna siete ancora qui,” disse. “Mi sono appena ricordato un particolare: all’epoca ho parlato del camioncino a quell’altro tizio.”
“Quale altro tizio?” chiese Derek.
“Il nome non lo ricordo più. Ma so che non era di qui. Nel 1995, l’anno dopo gli omicidi, è tornato spesso a Orphea. Diceva che stava conducendo una sua indagine personale.”