Jesse Rosenberg
Giovedì 10 luglio 2014
16 giorni prima dell’inaugurazione del festival
Avevo passato la notte in cella e all’alba mi fecero uscire. Mi portarono in un ufficio dove c’era un telefono con la cornetta poggiata sulla scrivania. All’altro capo della linea c’era il maggiore McKenna.
“Jesse,” urlò il maggiore, “sei impazzito? Come ti salta in mente di massacrare un povero disgraziato dopo avergli devastato la roulotte?”
“Le chiedo scusa, maggiore. Quell’uomo diceva di avere informazioni cruciali sul quadruplice omicidio del 1994.”
“Me ne sbatto delle tue scuse, Jesse! Non c’è giustificazione possibile per ciò che hai fatto. Comincio a pensare che tu non sia nelle condizioni psichiche adatte per condurre quest’indagine.”
“Mi riprenderò, maggiore, glielo giuro.”
Il maggiore sospirò a lungo; poi, addolcendo improvvisamente il tono, disse:
“Ascolta, Jesse, mi rendo conto di quanto sia difficile per te rivivere quello che è successo nel 1994. Ma devi controllarti. Ho dovuto smuovere mari e monti per tirarti fuori da questo pasticcio.”
“Grazie, maggiore.”
“Quell’Harvey non sporgerà denuncia se t’impegni a stare alla larga da lui.”
“Lo farò, maggiore.”
“Bene. Adesso trovati un volo per New York e vieni subito qui. Hai un caso da risolvere.”
Mentre ero in viaggio dalla California a Orphea, Anna e Derek andarono a parlare con Buzz Leonard, il regista dello spettacolo d’apertura, che adesso viveva nel New Jersey ed era diventato docente di arte drammatica in un college.
Lungo la strada, Derek fece il punto della situazione ad Anna.
“Nel 1994,” le spiegò, “gli elementi d’indagine che ci avevano fatto sospettare di Ted Tennenbaum erano due: le transazioni finanziarie, che poi però avevamo scoperto non provenire da lui, e la sua assenza dal Grand Theater quando c’era stato un principio d’incendio in uno dei camerini. Chiaramente, la possibilità che si fosse assentato era un fattore cruciale. Una testimone, Lena Bellamy, che abitava vicino ai Gordon, sosteneva di aver visto il camioncino di Tennenbaum in strada poco prima degli spari, mentre Tennenbaum asseriva di non aver mai lasciato il teatro, poiché quella sera prestava servizio come pompiere. Si trattava della parola della Bellamy contro quella di Tennenbaum. Ma ecco che, successivamente, Buzz Leonard aveva dichiarato che prima dell’inizio dello spettacolo un asciugacapelli aveva preso fuoco in un camerino e che Tennenbaum era irreperibile.”
“Se Tennenbaum non era al Grand Theater,” disse Anna, “potrebbe aver preso il camioncino ed essere andato a massacrare il sindaco Gordon e la sua famiglia.”
“Esatto.”
Su una parete del salotto in cui li ricevette, Buzz Leonard, un sessantenne dai capelli radi, conservava la locandina incorniciata dello spettacolo del 1994.
“Quell’allestimento di Zio Vania al festival di Orphea è rimasto inciso nella memoria di molti. Vi ricordo che eravamo solo una filodrammatica universitaria: il festival era ai suoi primi vagiti e il comune di Orphea non poteva sperare di attirare una compagnia di professionisti. Ma noi abbiamo comunque offerto al pubblico uno spettacolo eccezionale. Il Grand Theater ha registrato il tutto esaurito per dieci sere di seguito, e l’entusiasmo dei critici è stato unanime. Un vero trionfo. Il successo è stato tale che tutti pensavano che gli attori di Zio Vania avrebbero fatto carriera.”
Lo sguardo sognante di Buzz Leonard lasciava capire con quanto piacere ricordasse quel periodo. Per lui il quadruplice omicidio era stato solo un fatto di cronaca senza molta importanza.
“E poi?” chiese Derek, curioso. “Anche gli altri membri della compagnia, oltre a lei, hanno fatto carriera nel teatro?”
“No, nessuno ha proseguito su quella strada. Non posso biasimarli, perché il nostro è un mondo estremamente difficile. Purtroppo l’ho sperimentato sulla mia pelle: aspiravo a Broadway e sono finito in un college minore. Tra quei ragazzi c’era solo una persona che poteva diventare una vera star: Charlotte Carell. Interpretava il ruolo di Elena, la seconda moglie del professor Serebrijakov. Era straordinaria, in scena calamitava tutti gli sguardi. Aveva un’aura di ingenuità e di distacco che la rendeva superiore. Più presente, più intensa. Se devo essere onesto, il successo di quello spettacolo al festival è stato tutto merito suo. Nessuno di noi era alla sua altezza.”
“Perché non ha continuato a fare l’attrice?”
“Perché non le interessava. Quello era il suo ultimo anno di università, studiava veterinaria. Stando alle ultime notizie che ho avuto di lei, ha aperto una clinica per animali a Orphea.”
“Aspetti un attimo,” disse Anna, capendo all’improvviso. “La Charlotte di cui parla è per caso Charlotte Brown, la moglie del sindaco di Orphea?”
“Sì, proprio lei,” confermò Leonard. “Si sono incontrati grazie a quello spettacolo: è stato un colpo di fulmine. Erano una gran bella coppia. Sono andato al loro matrimonio, ma col passare degli anni abbiamo perso i contatti. È un vero peccato.”
A quel punto intervenne Derek:
“Ma questo significa che l’affascinante amichetta di Kirk Harvey nel 1994 era Charlotte, la futura moglie del sindaco?”
“Sì, esatto. Non lo sapeva, sergente?”
“Non ne avevo la più pallida idea,” rispose Derek.
“Sapete, quel Kirk Harvey è un povero idiota, un piedipiatti pretenzioso e un artista fallito. Voleva fare il drammaturgo e il regista, ma non aveva neanche un briciolo di talento.”
“Eppure mi risulta che il suo primo spettacolo avesse avuto un certo successo.”
“Ha avuto successo per un solo motivo: ci recitava Charlotte. Lo spettacolo in sé non valeva niente, ma lei lo ha nobilitato. Se Charlotte in scena avesse letto l’elenco telefonico, agli spettatori sarebbe sembrato così bello da restare incantati. Tra l’altro, non capisco come mai quella ragazza abbia potuto mettersi con uno squinternato come Harvey. È uno dei misteri inspiegabili della vita. Tutti noi abbiamo incontrato delle ragazze fantastiche e sublimi che si erano invaghite di tizi tanto brutti quanto idioti. E comunque, per farla breve, quello era così imbecille che non ha saputo tenersela.”
“Per quanto tempo sono rimasti insieme?”
Leonard rifletté per qualche istante, poi rispose:
“Un anno, credo. Harvey bazzicava i teatri di New York, e Charlotte anche. È così che si sono conosciuti. Lei ha partecipato al famoso primo spettacolo di Harvey, il cui successo gli ha dato un breve momento di gloria. Era la primavera del 1993. Me lo ricordo perché è stato in quel periodo che abbiamo cominciato a preparare Zio Vania. Harvey si è montato la testa, si è illuso di avere talento e ha scritto un altro spettacolo. Quando si è saputo che a Orphea ci sarebbe stato un festival teatrale, si è convinto che il suo lavoro sarebbe stato scelto come spettacolo principale. Ma io quel testo l’avevo letto, e faceva schifo. In parallelo, ho proposto al comitato artistico del festival il nostro Zio Vania, e siamo stati scelti dopo vari provini.”
“Harvey doveva avercela a morte con lei!”
“Altroché! Diceva che l’avevo tradito, che senza di lui non mi sarebbe mai venuto in mente di presentare lo spettacolo al festival. E questo in effetti era vero. Ma il suo spettacolo non sarebbe mai stato scelto comunque. Era il sindaco in persona a opporsi.”
“Il sindaco Gordon?”
“Sì. Ho sentito un battibecco tra lui e Harvey un giorno che Gordon mi aveva dato appuntamento nel suo ufficio. Doveva essere metà giugno. Ero arrivato in anticipo e aspettavo davanti alla porta. All’improvviso Gordon l’ha aperta per sbattere fuori Harvey. Gli ha detto: ‘Harvey, il suo testo è orrendo. Finché sarò vivo, non permetterò che lo rappresenti a Orphea! Sarebbe una vergogna per la città.’ E a quel punto ha stracciato il testo che gli aveva dato Harvey.”
“Il sindaco ha detto: ‘Finché sarò vivo’?” chiese Derek.
“Precise parole,” confermò Leonard. “Tanto che, quando Gordon è stato assassinato, i ragazzi della compagnia si sono chiesti se non ci fosse lo zampino di Harvey. Tra l’altro, per rendere ancora più imbarazzante la cosa, all’indomani della morte del sindaco, Harvey si è impadronito del palcoscenico del Grand Theater in seconda serata, dopo la nostra rappresentazione, per recitare un monologo orrendo.”
“Chi gliel’ha permesso?” chiese Derek.
“Ha approfittato della confusione generale provocata dal quadruplice omicidio. Diceva a tutti che l’aveva concordato con il sindaco Gordon, e gli organizzatori l’hanno lasciato fare.”
“Perché non ha mai informato la polizia di quello scambio tra Joseph Gordon e Kirk Harvey?”
“A che pro?” chiese Leonard, con una smorfia. “Sarebbe stata la sua parola contro la mia. E poi, a dire il vero, Harvey non mi sembrava tipo da assassinare un’intera famiglia. Era così negato da essere quasi comico. Quando si concludeva la rappresentazione del nostro Zio Vania, mentre gli spettatori si alzavano per lasciare la sala, lui correva in scena e urlava: ‘Attenzione, la serata non è finita! Adesso, ecco a voi: Io, Kirk Harvey, di e con il famoso Kirk Harvey!’”
Anna non riuscì a trattenere una risata.
“Sta scherzando?” chiese.
“Non potrei essere più serio,” rispose Leonard. “A quel punto cominciava il suo soliloquio, di cui ricordo ancora le prime parole: ‘Io, Kirk Harvey, l’uomo senza spettacolo!’ berciava. Ho dimenticato il resto, ma rammento che tutti noi uscivamo di corsa dalle quinte per raggiungere la galleria e guardarlo mentre si sgolava. Ha tenuto duro fino all’ultimo. Di fronte alla sala senza più uno spettatore, continuava impassibile a recitare in presenza dei tecnici e degli addetti alle pulizie. Poi, finito il recital, scendeva dal palco e se ne andava, senza che nessuno lo prendesse minimamente in considerazione. A volte capitava che gli addetti alle pulizie si sbrigassero prima e che qualcuno di loro interrompesse Harvey in piena declamazione dicendogli: ‘Basta così, signore! Chiudiamo la sala, dobbiamo andarcene.’ Poi le luci si spegnevano lasciandolo al buio. E mentre Harvey si umiliava sulla scena, Alan Brown ci raggiungeva in galleria e corteggiava Charlotte, seduta accanto a lui. Scusate, ma perché vi state interessando a questi aspetti generali? Al telefono non mi avevate detto che vi interessava un episodio in particolare?”
“Esatto, signor Leonard,” rispose Derek. “Ci interessa soprattutto l’incidente dell’asciugacapelli che ha preso fuoco in un camerino la sera della prima di Zio Vania.”
“Ah, sì, me lo ricordo perché all’epoca un ispettore è venuto a chiedermi se il pompiere di servizio si fosse comportato in maniera insolita.”
“Quell’ispettore era il mio collega d’indagine, Jesse Rosenberg,” precisò Derek.
“Sì, esatto, si chiamava Rosenberg. Gli dissi che quel vigile del fuoco mi era sembrato molto nervoso e, soprattutto, che quella sera verso le 19 aveva preso fuoco un asciugacapelli e il pompiere era irreperibile. Per fortuna, sono riuscito a trovare un estintore e a domare l’incendio prima che incenerisse l’intero camerino. Sarebbe potuta essere una catastrofe.”
“Stando al verbale di allora, il pompiere è ricomparso solo intorno alle 19:30,” disse Derek.
“Sì, corrisponde a quello che ricordo. Ma se avete letto la mia testimonianza, perché avete voluto incontrarmi? È successo vent’anni fa... Sperate che possa aggiungere qualcosa?”
“Nel verbale lei dice che si trovava nel corridoio, poi ha visto del fumo filtrare da sotto la porta di un camerino e ha chiamato il pompiere di servizio, che però non c’era.”
“Esatto,” confermò Leonard. “Ho aperto la porta del camerino, ho visto quell’asciugacapelli che emetteva fumo e iniziava a prendere fuoco. È successo tutto in pochi secondi.”
“Capisco,” disse Derek. “Rileggendo la sua testimonianza, però, mi sono chiesto come mai chi si trovava nel camerino non abbia provveduto lui stesso a cercare di spegnere il principio d’incendio.”
“Perché il camerino era vuoto!” esclamò Leonard, rendendosi conto all’improvviso di quel particolare. “Dentro non c’era nessuno.”
“Però c’era un asciugacapelli acceso?”
“Sì,” confermò Leonard, perplesso. “Non capisco come mai questo particolare non mi abbia incuriosito... Ero così frastornato dall’incendio...”
“A volte abbiamo qualcosa proprio davanti agli occhi e non lo vediamo,” disse Anna, rievocando a modo suo la fatidica frase pronunciata da Stephanie.
“Mi dica, Buzz,” continuò Derek, “chi occupava quel camerino?”
“Charlotte Brown,” rispose all’istante il regista.
“Come fa a esserne così sicuro?”
“Perché ricordo che quell’asciugacapelli difettoso era il suo. Diceva sempre che quando lo usava troppo, si surriscaldava e faceva fumo.”
“Quindi sarebbe stato un atto deliberato: avrebbe lasciato acceso volontariamente l’asciugacapelli?” chiese stupito Derek. “Perché?”
“No, non è andata così,” disse Leonard, raccogliendo i ricordi. “Quella sera ci fu un black-out: l’impianto elettrico non riusciva a sopportare il carico. Erano all’incirca le 19. Me lo ricordo perché mancava un’ora all’inizio della rappresentazione ed ero in ansia perché i tecnici faticavano a risolvere il problema. C’è voluto un bel po’, ma alla fine ce l’hanno fatta, e poi c’è stato quel principio d’incendio.”
“Questo significa che Charlotte ha lasciato il camerino durante il black-out,” dedusse Anna. “L’asciugacapelli era acceso e, quando è tornata la corrente, ha ripreso a funzionare. Ma Charlotte non c’era.”
“Ma se non era nel suo camerino, dov’era?” si chiese a voce alta Derek. “Da qualche altra parte in teatro?”
“Se fosse stata tra le quinte,” disse Leonard, “sarebbe accorsa per via del trambusto causato dal principio d’incendio. C’era gente che gridava e una grande agitazione. Però ricordo che Charlotte è venuta da me a lamentarsi per la scomparsa del suo asciugacapelli almeno mezz’ora dopo. Lo so per certo perché ero terrorizzato all’idea di non essere pronto per il momento in cui si sarebbe alzato il sipario. La parte ufficiale dell’inaugurazione era già cominciata, non potevamo permetterci di ritardare. Charlotte è entrata nel mio camerino e mi ha detto che qualcuno le aveva preso l’asciugacapelli. Allora mi sono arrabbiato e le ho risposto: ‘Il tuo asciugacapelli è andato a fuoco, adesso è nella spazzatura! Non ti sei ancora pettinata? E perché hai le scarpe bagnate?’ Ricordo che le sue calzature di scena erano zuppe. Come se avesse volutamente camminato nell’acqua. A trenta minuti dall’inizio dello spettacolo. Che angoscia!”
“Aveva le scarpe bagnate?” ripeté Derek.
“Sì. Questi particolari li ricordo bene perché sul momento pensai che lo spettacolo sarebbe stato un disastro. Mancava mezz’ora all’alzarsi del sipario. Visti i fusibili saltati, il principio d’incendio e l’attrice principale che non era pronta e si presentava con le scarpe zuppe, ero ben lontano dall’immaginare l’accoglienza trionfale che avremmo avuto quella sera.”
“E poi lo spettacolo si è svolto normalmente?” chiese Derek.
“Tutto è stato perfetto.”
“Quando ha saputo che il sindaco Gordon e la sua famiglia erano stati assassinati?”
“C’è stato un certo scompiglio durante l’intervallo, ma non ci abbiamo fatto molto caso. Volevo che i miei attori si concentrassero sullo spettacolo. All’inizio del secondo atto ho visto che alcuni spettatori se n’erano andati, compreso il vicesindaco Brown. L’ho notato perché era seduto in prima fila.”
“A che punto se n’è andato il vicesindaco?”
“Questo non ve lo saprei dire. Ma se può esservi d’aiuto, ho la registrazione video dello spettacolo.”
Leonard andò a frugare tra le reliquie stipate nella libreria e tornò con una vecchia cassetta VHS.
“Abbiamo fatto la registrazione della prima, per ricordo. La qualità non è granché – i mezzi dell’epoca erano inadeguati –, ma potrebbe aiutarvi a ricreare l’atmosfera. Dovete solo promettermi di restituirmela, ci tengo molto.”
“Certo,” gli garantì Derek. “Grazie del suo preziosissimo aiuto, signor Leonard.”
Uscendo dalla casa di Leonard, Derek sembrava molto preoccupato.
“Che c’è, Derek?” gli chiese Anna, salendo in macchina.
“Questa faccenda delle scarpe,” rispose lui. “Ricordo che la sera degli omicidi il tubo dell’irrigatore automatico dei Gordon si era rotto e il prato davanti alla loro casa era semiallagato.”
“Pensi che Charlotte sia coinvolta?”
“Adesso sappiamo che non era a teatro in un lasso di tempo che corrisponde a quello degli omicidi. Se si è assentata per mezz’ora, aveva tutto il tempo di andare nel quartiere di Penfield e tornare al Grand Theater mentre tutti la credevano nel suo camerino. Ripenso alla frase di Stephanie Mailer, nella quale diceva che avevamo la risposta davanti agli occhi, ma non la vedevamo. E se quella sera, mentre il quartiere di Penfield era isolato ed erano stati messi posti di blocco in tutta la regione, in realtà l’autore del quadruplice omicidio si trovava sul palco del Grand Theater, davanti a centinaia di spettatori che costituivano il suo alibi?”
“Secondo te, questa videocassetta ci aiuterà a capire qualcosa di più?”
“Lo spero, Anna. Se si vedesse il pubblico, forse potremmo scoprire un particolare che c’era sfuggito. Devo confessarti che, all’epoca della nostra indagine, quello che era successo durante lo spettacolo non ci era sembrato molto interessante. È solo grazie a Stephanie Mailer che stiamo cominciando a valutarlo con attenzione.”
* * *
In quell’istante, nel suo ufficio al comune, Alan Brown ascoltava stizzito i dubbi del suo vice, Peter Frogg:
“Kirk Harvey sarebbe il tuo asso nella manica per il festival? L’ex comandante della polizia? Devo ricordarti la sua esibizione in Io, Kirk Harvey?”
“No, Peter, ma pare che il suo nuovo spettacolo sia eccellente.”
“E come fai a saperlo? Non l’hai neanche visto! È stato un pazzo a promettere alla stampa uno spettacolo teatrale strabiliante!”
“E cosa avrei dovuto fare? Avevo il fiato di Michael Bird sul collo, dovevo trovare una via d’uscita. Peter, è da vent’anni che lavoriamo insieme, ti ho mai dato occasione di dubitare di me?”
La porta dell’ufficio si socchiuse: una segretaria infilò timidamente la testa nello spiraglio.
“Ho chiesto di non essere disturbato!” urlò il sindaco.
“Lo so, signor sindaco. Ma c’è una visita imprevista: il grande critico Meta Ostrovski.”
“Ci mancava solo questo!” esclamò Frogg, sgomento.
Qualche minuto dopo Ostrovski, con un sorriso a trentadue denti, era stravaccato in poltrona davanti al sindaco. Era contento di avere lasciato New York per andare in quella deliziosa cittadina dove si sentiva rispettato secondo il suo giusto valore. Tuttavia la prima domanda del sindaco lo turbò:
“Signor Ostrovski, non ho ben capito cos’è venuto a fare a Orphea.”
“Ebbene, incantato dal vostro grazioso invito, sono venuto ad assistere al vostro celeberrimo festival teatrale.”
“Ma immagino che sappia che il festival comincia solo tra due settimane,” gli fece notare il sindaco.
“Lo so benissimo,” rispose Ostrovski.
“E quindi cosa...?” chiese il sindaco.
“Quindi cosa cosa?”
“È qui per fare cosa?” riformulò il sindaco, che cominciava a perdere la pazienza.
“Per fare cosa cosa?” domandò Ostrovski. “Si esprima in maniera più chiara, amico mio: ho la sensazione di non seguirla.”
Peter Frogg, rendendosi conto dell’esasperazione del suo capo, gli diede il cambio.
“Il sindaco vuole sapere se c’è un motivo per la sua venuta... diciamo così, un po’ prematura a Orphea.”
“Un motivo per la mia venuta? Ma insomma, siete stati voi a invitarmi qui. E quando finalmente arrivo, gioviale e fraterno, mi chiedete cosa ci faccio qui? Sbaglio, o in questo atteggiamento c’è un briciolo di perversione narcisistica? Se preferite, torno a New York a dire a tutti che Orphea è la terra fertile dell’arroganza e della disonestà intellettuale!”
Il sindaco ebbe un’idea improvvisa.
“Non vada da nessuna parte, signor Ostrovski! Penso di avere bisogno di lei.”
“Ecco, visto che ho fatto bene a venire?”
“Domani, venerdì, terrò una conferenza-stampa per annunciare lo spettacolo d’apertura del festival. Sarà un’anteprima mondiale. Vorrei che lei prendesse posto accanto a me e dichiarasse che si tratta dello spettacolo più straordinario cui ha assistito in tutta la sua vita.”
Ostrovski squadrò il sindaco, sbalordito dalla richiesta.
“Vuole che io menta in maniera spudorata alla stampa, incensando uno spettacolo che non ho mai visto?”
“Proprio così,” confermò Brown. “In cambio, a partire da stasera e fino alla fine del festival, la ospiterò in una suite del Lake Palace.”
“Affare fatto, amico mio!” esclamò Ostrovski, entusiasta. “In cambio di una suite, le prometto gli elogi più sperticati!”
Quando Ostrovski se ne fu andato, il sindaco incaricò Frogg di organizzare il soggiorno del critico.
“Alan, una suite al Palace per tre settimane?” disse il vicesindaco, con voce strozzata. “Stai scherzando? Ci costerà una fortuna.”
“Non preoccuparti, Peter. Troveremo un sistema per far tornare i conti. Se il festival è un successo, la mia rielezione sarà garantita e ai cittadini non fregherà niente se abbiamo sforato il budget. Oltretutto, possiamo sempre ridimensionare la prossima edizione.”
* * *
A New York, nell’appartamento degli Eden, Dakota stava riposando nella sua stanza. Sdraiata sul letto, con gli occhi fissi al soffitto, piangeva in silenzio. Le avevano finalmente permesso di lasciare il Mount Sinai Hospital e tornare a casa.
Non ricordava più cos’avesse fatto quel sabato notte, dopo essere scappata di casa. Rammentava confusamente di aver raggiunto Leyla a una festa e di essersi strafatta di ketamina e alcol; poi, vagabondaggi per strade sconosciute, un club, un appartamento, un ragazzo che la baciava e una ragazza che faceva altrettanto. Ricordava di essersi ritrovata a scolare una bottiglia di vodka sul tetto di un edificio, di essersi avvicinata al bordo per guardare la strada che luccicava sotto di lei. Si era sentita irrimediabilmente attratta dal vuoto. Aveva avvertito il desiderio di buttarsi. Per vedere. Ma non l’aveva fatto. Forse era per quello che si strafaceva. Per avere il coraggio di buttarsi, un giorno. Di sparire. Di essere in pace. Due poliziotti l’avevano svegliata in un vicolo, mentre dormiva sull’asfalto, con gli indumenti laceri. Stando agli esami ginecologici che le avevano fatto in ospedale, non era stata violentata.
Fissava il soffitto. Una grossa lacrima scivolò sulla sua guancia fino all’angolo delle labbra. Come aveva fatto a ridursi così? Era stata una brava studentessa, dotata, ambiziosa, amata. Non le mancava niente. Aveva una vita facile, senza problemi, genitori che le erano sempre stati vicini. Qualunque cosa desiderasse, l’aveva ottenuta. Poi c’era stata Tara Scalini, con la tragedia che ne era derivata. Da allora, si detestava. Aveva voglia di distruggersi. Aveva voglia di morire. Aveva voglia di graffiarsi la pelle fino a sanguinare, di ferirsi in maniera che tutti vedessero i segni sul suo corpo e capissero quanto si odiava e quanto soffriva.
In quel momento suo padre stava origliando da dietro la porta. Non la sentiva neanche respirare. Socchiuse il battente. Dakota abbassò di scatto le palpebre per fingere di dormire. Jerry si avvicinò al letto, con la moquette spessa che soffocava il rumore dei suoi passi. Vide che la figlia aveva gli occhi chiusi e uscì dalla stanza. Attraversò il grande appartamento e tornò nella cucina, dove lo aspettava la moglie, seduta su uno sgabello alto davanti al bancone.
“Allora?” gli chiese Cynthia.
“Sta dormendo,” rispose Jerry.
Si servì un bicchiere d’acqua e si sedette di fronte alla moglie, dall’altro lato del bancone.
“Cosa facciamo?” chiese angosciata Cynthia.
“Non lo so,” sospirò Jerry. “A volte mi dico che non c’è più niente da fare. È un caso disperato.”
“Jerry, non ti riconosco più. Avrebbero potuto violentarla! Quando ti sento parlare così, ho la sensazione che tu abbia rinunciato a tua figlia.”
“Cynthia, abbiamo provato con la terapia individuale, con la terapia di famiglia, con il guru, con il pranoterapeuta, con medici di ogni tipo – le abbiamo provate tutte! L’abbiamo mandata due volte in comunità, e in entrambe le occasioni è stato un disastro. Non riconosco più mia figlia. Cosa vuoi che ti dica?”
“Che tu, però, non ci hai mai provato!”
“Cosa vorresti dire?”
“È vero: l’hai mandata da tutti i medici possibili e immaginabili, in certi casi l’hai pure accompagnata. Ma tu, personalmente, non hai mai provato ad aiutarla!”
“Ma cosa potrei fare di più rispetto ai medici?”
“Cosa potresti fare di più? Sei suo padre, maledizione! Prima non ti comportavi così con lei. Ti sei dimenticato di quanto eravate legati?”
“Sai benissimo cosa è successo nel frattempo, Cynthia!”
“Sì che lo so, Jerry! Ed è proprio per questo che devi recuperarla. Sei l’unico che possa farlo.”
“E quella poverina che ci ha lasciato la pelle?” chiese Jerry, con voce strozzata. “Potremmo mai recuperarla?”
“Smettila, Jerry! Non si può tornare indietro. Non puoi farlo tu, non posso farlo io, non può farlo nessuno. Portala via da New York, ti prego, e salvala. Questa città la sta uccidendo.”
“Via da New York, ma dove?”
“Dove eravamo felici. Portala a Orphea. Dakota ha bisogno di un padre. Non di due genitori che litigano dalla mattina alla sera.”
“Tu e io litighiamo perché...”
Jerry aveva alzato la voce, e la moglie gli mise con dolcezza un dito sulla bocca per farlo tacere.
“Salva nostra figlia, Jerry. Solo tu puoi farlo. Deve lasciare New York: portala lontano dai suoi fantasmi. Fallo, Jerry, ti scongiuro. Portala via e torna da me. Voglio ritrovare mio marito, voglio ritrovare mia figlia. Voglio ritrovare la mia famiglia.”
Scoppiò a piangere. Jerry annuì per rassicurarla, si alzò e andò con passo deciso verso la stanza della figlia. Spalancò bruscamente la porta e alzò le tapparelle.
“Ehi, che cosa stai facendo?” protestò Dakota, rizzandosi sul letto.
“Quello che avrei dovuto fare da un pezzo.”
Aprì un cassetto a caso, poi un altro, e frugò all’interno senza tanti complimenti. Dakota saltò giù dal letto.
“Smettila! Smettila, papà! Il dottor Lern ha detto che...”
Tentò di infilarsi tra il cassetto e il padre, ma lui glielo impedì scostandola con una veemenza che la stupì.
“Il dottor Lern ha detto che dovevi smetterla di strafarti!” tuonò Jerry, agitando il sacchetto pieno di polvere biancastra che aveva appena trovato.
“Lascia stare quella roba!” urlò Dakota.
“Cos’è? Ketamina di merda?”
Senza attendere la risposta della figlia, entrò nel bagno attiguo alla stanza.
“Fermati! Fermati!” urlò Dakota, tentando di recuperare il sacchetto dalla mano del padre, mentre lui la teneva a distanza con il braccio muscoloso.
“Qual è il tuo obiettivo?” le chiese Jerry mentre apriva il coperchio del water. “Ucciderti? Finire in prigione?”
“Non farlo!” lo implorò lei, scoppiando a piangere – forse per rabbia, forse per tristezza.
Jerry versò la polvere nel water e tirò l’acqua davanti allo sguardo impotente della figlia, che a quel punto urlò:
“Hai ragione. Sto cercando di uccidermi per non doverti più sopportare!”
Il padre la guardò desolato e le annunciò con voce sorprendentemente calma:
“Prepara la valigia, partiamo domattina presto.”
“Cosa? Che significa ‘Partiamo’? Io non vado da nessuna parte,” sibilò Dakota.
“Non ho chiesto il tuo parere.”
“E posso sapere dove andiamo?”
“A Orphea.”
“A Orphea? Ma che ti prende? Io laggiù non ci tornerò mai! E comunque sappi che ho già dei progetti: Leyla ha un amico che possiede una casa a Montauk e...”
“Scordati Montauk. I tuoi progetti sono appena cambiati.”
“Cosa?” urlò Dakota. “No, non puoi farmi questo! Non sono più una mocciosa: io faccio quello che voglio!”
“No, tu non fai affatto quello che vuoi. Te l’ho lasciato fare per troppo tempo.”
“Esci subito dalla mia stanza, lasciami in pace!”
“Non ti riconosco più, Dakota...”
“Sono un’adulta. Non sono più la bambina che ti recitava l’alfabeto mentre mangiava i biscotti!”
“Sei mia figlia, hai diciannove anni e farai quello che dico. E quello che dico è: prepara la valigia.”
“E la mamma?”
“Saremo solo tu e io, Dakota.”
“Perché dovrei partire con te? Prima voglio parlarne con il dottor Lern.”
“No, non ne parlerai né con Lern né con nessuno. È arrivato il momento di importi dei limiti.”
“Non puoi farmi una cosa del genere! Non puoi costringermi a partire con te!”
“E invece posso. Perché sono tuo padre e te lo ordino.”
“Ti odio! Hai capito? Ti odio!”
“Oh, lo so bene, Dakota: non c’è bisogno che me lo ricordi. E adesso prepara la valigia. Partiamo domattina presto,” ripeté Jerry, con un tono che non ammetteva indugi.
Uscì dalla stanza con passo risoluto, andò a riempirsi un bicchiere di scotch e lo svuotò in pochi sorsi, osservando dalla vetrata del soggiorno la sera stupenda che calava su New York.
Nello stesso istante, Steven Bergdorf rientrava in casa. Puzzava di sudore e di sesso. Aveva detto alla moglie Tracy che si sarebbe recato all’inaugurazione di una mostra per conto del “Magazine”, ma in realtà era andato a fare shopping con Alice. Si era abbandonato ancora una volta a spese pazze: Alice gli aveva promesso che poi si sarebbe fatta scopare e aveva mantenuto la parola. Se l’era sbattuta come un gorilla pazzo nel suo appartamentino sulla 100th Street, dopodiché Alice gli aveva chiesto di regalarle un week-end romantico.
“Partiamo domani, Stevie, andiamo a farci due giorni da amanti.”
“Impossibile,” le aveva risposto Bergdorf mentre si rimetteva i boxer, dispiaciuto di dover rinunciare poiché, oltre a essere al verde, aveva anche una famiglia.
“Con te è sempre impossibile tutto, Stevie!” aveva piagnucolato Alice, che era in vena di fare la bambina. “Perché non andiamo a Orphea, quella bella cittadina dove siamo stati la primavera dell’anno scorso?”
Bergdorf sapeva che non avrebbe mai potuto giustificare il fatto di andare a Orphea. Il jolly dell’invito al festival se l’era già giocato.
“E cosa dovrei dire a mia moglie?” le aveva chiesto.
Alice si era infuriata e gli aveva scagliato un cuscino in faccia.
“Tua moglie, tua moglie!” aveva urlato. “Ti proibisco di menzionarla in mia presenza!”
Poi l’aveva sbattuto fuori, e Bergdorf era tornato a casa.
In cucina, la moglie e i figli stavano finendo di cenare. Tracy gli sorrise teneramente; lui non osò baciarla. Sapeva di sesso.
“La mamma ha detto che andremo in vacanza al parco di Yellowstone!” gli annunciò il figlio maggiore.
“E dormiremo in un camper!” gongolò il minore.
“Vostra madre dovrebbe consultarmi, prima di fare promesse,” si limitò a ribattere Bergdorf.
“Su, Steve,” disse la moglie, “partiamo in agosto. Dimmi di sì. Ho già chiesto le ferie. E mia sorella è d’accordo a prestarci il camper.”
“Ma insomma,” sbottò Bergdorf, “siete pazzi? Un parco che pullula di pericolosissimi grizzly! Non hai letto le statistiche? L’anno scorso ci sono state decine di feriti in quel parco! E anche una donna uccisa da un bisonte! Per non parlare dei puma, dei lupi e delle sorgenti di acqua sulfurea.”
“Stai esagerando, Steve,” lo rimproverò la moglie.
“Esagerando, io? Tieni, guarda qui!”
Tirò fuori dalla tasca un testo che aveva trovato su Internet e stampato quella mattina, e lesse a voce alta: “Dal 1870, ventidue persone sono morte nelle sorgenti sulfuree di Yellowstone. La primavera scorsa un ragazzo di vent’anni, incurante dei cartelli di pericolo, si è tuffato in una pozza di acqua sulfurea. È morto sul colpo, e i soccorritori, che a causa delle condizioni meteo non hanno potuto iniziare le operazioni di recupero del corpo prima dell’indomani, hanno trovato solo i suoi sandali. L’intero cadavere era stato sciolto dallo zolfo. Non restava più nulla.”
“Bisogna essere proprio stupidi per tuffarsi in una sorgente di zolfo!” commentò la figlia.
“Hai proprio ragione, tesoro!” approvò Tracy.
“Mamma, se andiamo a Yellowstone, moriamo?” chiese preoccupato il figlio minore.
“No,” disse stizzita la madre.
“Sì!” urlò Bergdorf, prima di chiudersi in bagno con la scusa di farsi una doccia.
Fece scorrere l’acqua e si sedette sul water, avvilito. Cosa doveva dire ai suoi figli? Che il papà aveva sperperato i risparmi della famiglia perché era incapace di dominare i propri istinti?
Prima aveva licenziato Stephanie Mailer nonostante fosse una giornalista brava e promettente, poi aveva cacciato quel povero Meta Ostrovski, che non faceva male a nessuno e che, tra l’altro, era il suo critico più importante. Chi sarebbe stato il prossimo? Probabilmente lui stesso, quando qualcuno avrebbe scoperto che aveva una relazione con una collaboratrice che aveva la metà dei suoi anni, e alla quale comprava regali a spese del giornale.
Le richieste di Alice erano inesauribili, e lui non sapeva come mettere fine a quella spirale infernale. Lasciarla? Minacciava di accusarlo di stupro. Ormai Bergdorf voleva solo che quella storia finisse subito. Per la prima volta, desiderava che Alice morisse. Si disse che la vita era proprio ingiusta: se fosse morta lei al posto di Stephanie, tutto sarebbe stato semplice.
La suoneria del cellulare gli annunciò l’arrivo di un’e-mail. Si voltò istintivamente a guardare il display, e il suo viso si illuminò di colpo. Il messaggio arrivava dal municipio di Orphea. Che coincidenza! Da quando aveva scritto quell’articolo sul festival, l’anno prima, era nella mailing-list del sindaco. Aprì subito l’e-mail: si trattava dell’invito alla conferenza stampa con cui, alle 11 dell’indomani, presso il municipio di Orphea, il sindaco avrebbe “rivelato il titolo dell’eccezionale spettacolo in anteprima mondiale che avrebbe inaugurato il festival”.
Bergdorf mandò immediatamente un SMS a Alice per dirle che l’avrebbe portata a Orphea e che sarebbero partiti l’indomani mattina presto. Sentiva il cuore che gli batteva forte in petto. Stava per ucciderla.
Non avrebbe mai pensato che un giorno sarebbe stato pronto ad assassinare qualcuno a sangue freddo. Ma si trattava di un caso di forza maggiore. Era l’unica soluzione per sbarazzarsi di lei.