Jesse Rosenberg

Domenica 27 luglio 2014

Il giorno dopo l’inaugurazione del festival

Le sette del mattino. Il sole sorgeva su Orphea. Quella notte nessuno aveva dormito.

In centro, solo desolazione. La strada principale continuava a essere blindata, ingombra di ambulanze e autopattuglie, percorsa da poliziotti e disseminata di oggetti di ogni tipo lasciati dal pubblico in fuga per la gigantesca ondata di panico provocata dagli spari all’interno del Grand Theater.

Dapprima c’era stata la fase dell’azione. Le unità d’intervento della polizia avevano battuto a lungo l’intera zona in cerca dell’uomo che aveva sparato. Inutilmente. Si era anche provveduto a mettere in sicurezza la città per evitare che qualche sciacallo saccheggiasse i negozi, approfittando della confusione. Fuori dal perimetro di sicurezza erano state montate alcune tende di pronto soccorso per curare i feriti lievi, perlopiù vittime della calca, e le persone in stato di shock. Quanto a Dakota Eden, che versava in condizioni disperate, era stata trasportata in elicottero in un ospedale di Manhattan.

Il nuovo giorno annunciava il ritorno alla calma. Bisognava capire cos’era successo al Grand Theater. Chi aveva sparato? E com’era riuscito a introdurre un’arma nonostante le misure di sicurezza adottate?

Al comando di polizia, dove l’agitazione e il fermento non si erano ancora placati, Anna, Derek e io ci preparavamo a interrogare Harvey e gli altri attori della compagnia, in quanto testimoni diretti dei fatti. Travolti dall’ondata di panico, si erano sparpagliati per la città: rintracciarli non era stato facile. Adesso erano tutti in una sala-riunioni, e dormivano chi sul pavimento, chi sdraiato sul tavolo centrale, in attesa di essere ascoltati. Mancavano solo Jerry Eden, che era andato con la figlia in ospedale, e Alice Filmore, di cui si erano perse le tracce.

Il primo a essere interrogato fu Harvey, e il colloquio avrebbe avuto un esito che non ci saremmo mai aspettati. Poiché non c’era più nessuno che lo proteggesse, cominciammo a torchiarlo senza tanti complimenti.

“Dimmi cosa sai, maledizione!” urlò Derek, sbatacchiando Harvey. “Voglio subito un nome, sennò ti spacco i denti. Voglio un nome! Immediatamente!”

“Ma non ne ho la più pallida idea,” gemette Harvey. “Te lo giuro!”

Derek lo scagliò contro un muro della saletta degli interrogatori. Harvey si accasciò sul pavimento. Lo sollevai e lo misi a sedere su una sedia.

“Adesso devi parlare, Kirk,” gli intimai. “Devi dirci tutto. Questa storia è durata troppo.”

Il viso di Harvey si contrasse in una smorfia angosciata: stava per scoppiare a piangere.

“Come sta Dakota?” chiese, con voce strozzata.

“Male!” urlò Derek. “Per colpa tua!”

Harvey si prese la testa tra le mani.

“Devi raccontarci tutto, Kirk,” gli dissi con voce ferma, ma senza aggressività. “Perché hai voluto mettere in scena questo spettacolo? Cosa sai?”

“Lo spettacolo è una truffa,” mormorò. “Non ho mai avuto la minima idea di chi fosse l’autore del quadruplice omicidio.”

“Però sapevi che quella sera il suo obiettivo era Meghan Padalin e non il sindaco Gordon?”

Harvey annuì.

“Nell’ottobre del 1994,” disse, “quando la polizia di stato ha annunciato che l’autore del quadruplice omicidio era Ted Tennenbaum, non ne ero del tutto convinto. Ostrovski mi aveva detto di avere visto Charlotte al volante del camioncino di Tennenbaum, e questo non riuscivo a spiegarmelo. Ma non avrei scavato più a fondo se, dopo qualche giorno, non mi avessero telefonato i vicini di casa dei Gordon: avevano appena scoperto due fori di proiettile nello stipite in muratura del loro garage. Se n’erano accorti perché avevano deciso di riverniciarlo. Sono andato a casa loro, ho estratto i due proiettili dal muro e ho chiesto alla scientifica di raffrontarli con quelli recuperati dai cadaveri delle vittime del quadruplice omicidio: provenivano tutti dalla stessa pistola. Stando alla traiettoria, erano stati sparati dal parco. A quel punto ho capito tutto: l’obiettivo dell’assassino era Meghan. Prima le aveva sparato nel parco, l’aveva mancata, e lei era scappata verso la casa del sindaco, per chiedere aiuto. Ma l’assassino l’aveva raggiunta e uccisa. Poi aveva freddato anche i Gordon, perché erano stati testimoni dell’omicidio.”

Mi resi conto che Harvey era un poliziotto straordinariamente perspicace.

“Perché all’epoca non ci hai detto niente?” chiese Derek.

“Ho cercato disperatamente di contattarvi,” si difese Harvey. “Ho chiamato sia te sia Rosenberg alla centrale della polizia di stato. Mi hanno detto che avevate avuto un incidente e che eravate in ferie per qualche giorno. Quando ho spiegato che volevo parlarvi del quadruplice omicidio, mi hanno risposto che ormai il caso era chiuso. Allora sono venuto a cercarvi a casa. Da te, Derek, ho trovato una donna che mi ha detto di andarmene e di lasciarti in pace, soprattutto se si trattava di parlare di quel caso. Poi sono andato a bussare a casa di Jesse, più volte, ma non mi ha mai risposto nessuno!”

Derek e io ci guardammo, rendendoci conto che all’epoca avevamo toppato di brutto.

“E a quel punto cos’hai fatto?” chiese Derek a Harvey.

“Be’, era un bel casino!” disse Harvey. “Riassumendo: Charlotte Brown era stata vista al volante del camioncino di Tennenbaum al momento degli omicidi, ma secondo la polizia di stato il colpevole era Tennenbaum, anche se a mio avviso c’era stato uno sbaglio circa il vero obiettivo dell’assassino. Come se non bastasse, non potevo parlarne con nessuno: i miei colleghi della polizia di Orphea non mi rivolgevano più la parola da quando, per potermi prendere qualche giorno di ferie, mi ero inventato che mio padre aveva il cancro, e i due responsabili dell’inchiesta per la polizia di stato – cioè voi – risultavano irreperibili. Quindi era davvero un bel casino. Ho cercato di sbrogliare da solo la matassa esaminando eventuali omicidi avvenuti recentemente nella regione. Ma l’unica morte sospetta era quella di un tizio che si era schiantato con la moto su un rettilineo a Ridgesport. Pensando che valesse la pena approfondire, ho contattato la stradale e, parlando con il poliziotto che si era occupato dell’incidente, ho saputo che un agente dell’ATF era andato a interrogarlo. Allora ho contattato quel tizio e mi ha detto che il motociclista era un imprendibile boss locale e che, secondo lui, in quell’incidente c’era puzza di bruciato. A quel punto, temendo di mettere il naso in qualche losco affare della delinquenza organizzata, ho deciso di parlarne con Lewis Erban, uno dei miei colleghi. Ma Lewis non è mai venuto all’appuntamento che gli avevo dato. Era una faccenda troppo complicata per risolverla da solo, così ho deciso di scomparire.”

“Perché avevi paura di ciò che stavi per scoprire?”

“No, perché ero solo! Completamente solo, capisci? E non ne potevo più di quella solitudine. Mi sono detto che la gente si sarebbe preoccupata non vedendomi più. E che qualcuno si sarebbe chiesto il perché delle mie improvvise dimissioni dalla polizia. Sapete dov’ero nelle prime due settimane della mia ‘scomparsa’? A casa mia! Ero chiuso in casa ad aspettare che qualcuno bussasse e chiedesse che fine avevo fatto. Ma non è venuto nessuno. Nemmeno i vicini. Nes-su-no. Sono rimasto tappato in casa, non sono uscito neanche per fare la spesa. Ero sempre accanto al telefono, che però non ha mai squillato. L’unica visita che ho ricevuto è stata quella di mio padre, venuto a portarmi qualcosa da mangiare. È rimasto seduto con me sul divano del soggiorno per diverse ore. In silenzio. Poi mi ha chiesto: ‘Cosa aspettiamo?’ Al che ho risposto: ‘Qualcuno, ma non so chi.’ Alla fine ho deciso di trasferirmi all’altro capo del paese e di rifarmi una vita. Mi sono detto che era l’occasione buona per dedicarmi a tempo pieno alla scrittura di un testo teatrale. E quale soggetto migliore di quel delitto che ai miei occhi era ancora irrisolto? Una notte, prima di andarmene definitivamente, mi sono introdotto di nascosto nel comando di polizia, di cui avevo ancora le chiavi, e ho preso il fascicolo d’indagine sul quadruplice omicidio.”

“Ma perché hai lasciato lì quel biglietto con scritto ‘Qui comincia la Notte Buia’?” chiese Anna.

“Perché me ne andavo da Orphea con l’idea che un giorno, conclusa la mia indagine, sarei tornato e avrei rivelato a tutti la verità, servendomi di uno spettacolo teatrale che avrebbe avuto un enorme successo. Avevo lasciato la città come un miserabile ed ero determinato a tornare da eroe, mettendo in scena La Notte Buia.”

“Perché hai ripreso lo stesso titolo?” chiese Anna.

“Perché quel titolo doveva essere l’ultimo sberleffo a tutti quelli che mi avevano umiliato. La Notte Buia, nella sua forma originale, non esisteva più: i miei colleghi, come rappresaglia per il finto cancro di mio padre, avevano distrutto tutti i brogliacci e i manoscritti che conservavo gelosamente nel mio ufficio, e l’unica copia rimasta, rilegata manualmente, che avevo lasciato in conto vendita nella libreria di Cody, era in mano al sindaco Gordon.”

“Come facevi a saperlo?” chiesi.

“Me l’aveva detto proprio Meghan Padalin, che lavorava nella libreria. Era stata lei a suggerirmi di lasciare una copia del mio testo nella sezione inediti degli autori locali. Lì ogni tanto passava qualche celebrità di Hollywood, quindi c’era la possibilità che il testo venisse letto e apprezzato da qualche personaggio importante. Solo che poi, a metà luglio, dopo la carognata che mi avevano fatto i colleghi, quando andai in libreria per recuperare l’ultima copia rimasta del testo, Meghan mi disse che l’aveva appena comprata il sindaco. Allora andai da lui per farmela ridare, ma Gordon sostenne di non averla più. Pensai che volesse nuocermi in qualche modo, visto che aveva letto il lavoro e gli aveva fatto schifo. L’aveva addirittura strappato davanti a me! Perché comprarselo in libreria, se non per farne chissà quale uso a mio danno? Perciò, andandomene da Orphea, volevo dimostrare che nulla può impedire il trionfo dell’arte. Puoi bruciarla, boicottarla, proibirla, censurarla, ma l’arte rinasce sempre. Pensavano di distruggermi? Sarei ritornato più forte che mai! Ecco qual era il mio piano. Perciò ho affidato a mio padre il compito di vendere la casa e mi sono trasferito in California. Con i soldi della vendita avevo di che vivere per un po’. Mi sono rituffato nel fascicolo d’indagine. Ma mi sono ritrovato completamente bloccato: giravo a vuoto. E meno progressi facevo, più questa storia mi ossessionava.”

“Quindi ci stai rimuginando da vent’anni?” chiese Derek.

“Sì.”

“E che conclusioni ne hai tratto?”

“Nessuna. Da un lato l’incidente di moto, e dall’altro Meghan. Non avevo nient’altro.”

“Pensi che Meghan stesse indagando sull’incidente di Jeremiah Fold e sia stata uccisa per questo?”

“Non lo so. Quella è una cosa che ho inventato per lo spettacolo. Ho pensato che sarebbe stata suggestiva come prima scena. C’è davvero un nesso tra Meghan e l’incidente?”

“Il problema è proprio quello,” risposi. “Anche noi, come te, siamo convinti che ci sia un nesso tra la morte di Meghan e quella di Fold, ma non siamo mai riusciti a trovare un collegamento tra loro.”

“Come vedete, c’è qualcosa di molto strano,” disse Harvey, con un sospiro.

Adesso Kirk Harvey era ben diverso dal regista irritabile e folle che era stato nelle ultime due settimane. Ma allora perché interpretare quel ruolo? Perché quello spettacolo senza capo né coda? Perché quelle stravaganze? Quando glielo chiesi, rispose come se si trattasse di un’ovvietà:

“Ma per esistere, Rosenberg! Per esistere! Per attirare l’attenzione! Per essere finalmente degnato di uno sguardo! Mi sono detto che non sarei mai riuscito a trovare la soluzione di questo caso. Stavo raschiando il fondo. Vivevo in una roulotte, senza famiglia né amici. Facevo colpo solo su una manciata di attori disperati, illudendoli di poter conquistare una fama che non sarebbe mai arrivata. Che fine avrei fatto? Quando Stephanie Mailer è venuta trovarmi a Los Angeles, in giugno, ho cominciato a sperare di poter finire il mio testo. Le ho detto tutto quello che sapevo, pensando che lei si sarebbe comportata nello stesso modo.”

“Quindi Stephanie sapeva che l’obiettivo dell’assassino era Meghan Padalin?”

“Sì, sono stato io a dirglielo.”

“E lei cosa sapeva?”

“Non ne ho idea. Quando ha capito che ignoravo chi fosse il colpevole, ha deciso di andarsene. ‘Non ho tempo da perdere,’ mi ha detto. Le ho chiesto almeno di condividere le informazioni che aveva, ma si è rifiutata. Abbiamo avuto un piccolo diverbio al Beluga. Cercando di trattenerla, ho afferrato la sua borsa, che si è rovesciata, facendo cadere sul pavimento i documenti della sua inchiesta, l’accendino, il portachiavi con quella ridicola pallina gialla. L’ho aiutata a raccogliere tutto, cercando di approfittarne per leggere i suoi appunti. Inutilmente. Quindi sei arrivato tu, caro Rosenberg. All’inizio non volevo rivelarti niente: non mi andava di farmi fregare due volte. Ma poi mi sono detto che forse quella era la mia ultima possibilità di tornare a Orphea e andare in scena per l’inaugurazione del festival.”

“Senza un vero testo da rappresentare?”

“Volevo solo il mio quarto d’ora di gloria. Era l’unica cosa che m’interessava. E l’ho avuto. Per due settimane si è parlato di me. Ero al centro dell’attenzione, ero sui giornali; ho diretto un gruppo di attori di cui ho fatto ciò che volevo. Ho messo in mutande il grande critico Ostrovski e l’ho fatto sbraitare in latino – proprio lui che nel 1994 aveva stroncato ferocemente la mia esibizione. Poi ho fatto la stessa cosa con quel porco di Gulliver, che nel 1994 mi aveva umiliato. L’ho ridicolizzato, facendolo recitare seminudo con un allocco impagliato in mano. Mi sono vendicato, sono stato rispettato. Ho vissuto.”

“Ma la fine dello spettacolo erano solo pagine bianche. Perché?”

“Contavo su di voi. Pensavo che avreste trovato il colpevole prima dell’inaugurazione, quindi ero tranquillo. Mi sarei limitato ad annunciare l’identità ormai nota dell’assassino, lamentandomi perché avevate rovinato tutto.”

“Ma noi non l’abbiamo trovato.”

“Avevo comunque previsto che Dakota lasciasse in sospeso quella frase: avrei fatto ripetere la Danza dei Morti. Avrei umiliato Ostrovski e Gulliver per ore. Poteva anche trasformarsi in uno spettacolo infinito, che durava fin nel cuore della notte. Ero pronto a tutto.”

“Ma avresti fatto la figura dell’idiota,” gli fece notare Anna.

“Mai quanto il sindaco Brown. Il suo festival sarebbe andato a rotoli, la gente avrebbe preteso il rimborso del biglietto. Avrebbe perso la faccia, e la sua rielezione sarebbe stata compromessa.”

“Quindi tutto questo era per danneggiare Brown?”

“Tutto questo era per non essere più solo. Perché La Notte Buia, in fondo, rappresenta la mia solitudine abissale. Ma, purtroppo, sono riuscito soltanto a far soffrire chi non c’entrava. E adesso, per colpa mia, Dakota, quella ragazza deliziosa, è sospesa tra la vita e la morte.”

Ci fu qualche istante di silenzio. Poi gli dissi:

“Avevi ragione su tutta la linea. Abbiamo ritrovato il tuo testo teatrale. Il sindaco Gordon lo teneva in banca, in una cassetta di sicurezza. Tra quelle pagine c’è il nome di Jeremiah Fold dissimulato da un codice. Quindi il nesso tra Fold, il sindaco Gordon e Meghan Padalin c’è, eccome. Avevi capito tutto, Kirk. Avevi in mano tutte le tessere del puzzle. Adesso bisogna solo unirle.”

“Permettetemi di aiutarvi,” supplicò Kirk. “Sarà il mio modo di rimediare.”

Annuii.

“Purché ti comporti bene.”

“Te lo giuro, Jesse.”

Per prima cosa, volevamo capire ciò che era successo esattamente la sera precedente al Grand Theater.

“Io ero tra le quinte e guardavo Dakota,” disse Harvey. “Accanto a me c’erano Alice Filmore e Jerry Eden. All’improvviso ci sono stati gli spari. Dakota è crollata a terra. Jerry e io ci siamo precipitati verso di lei, raggiunti subito dopo da Charlotte.”

“Hai visto da dove provenivano gli spari?” chiese Derek. “Dalla prima fila? Dall’altro lato del palcoscenico?”

“Non ne ho la minima idea. La sala era immersa nell’oscurità e avevamo i riflettori puntati addosso. Comunque, chi ha sparato era dal lato del pubblico, questo è certo, perché Dakota è stata colpita al petto ed era rivolta verso la platea. La cosa che non mi spiego, però, è come sia stato possibile introdurre una pistola in sala. Le misure di sicurezza erano molto rigide.”

Per rispondere a questa domanda, e prima di interrogare gli altri componenti della compagnia, ci riunimmo con il maggiore McKenna, Montagne e il sindaco Brown in una sala-conferenze del Grand Theater, per fare un primo punto della situazione.

In quella fase non avevamo nessuna indicazione su chi avesse sparato. Nessun indizio. Nel Grand Theater non c’erano videocamere di sicurezza, e gli spettatori interrogati non avevano visto niente. Tutti avevano ripetuto la stessa cosa: al momento degli spari, la sala era immersa nell’oscurità totale. “Lì dentro c’era buio pesto,” avevano detto. “Ci sono stati due spari, l’attrice è stramazzata, e poi c’è stato il panico generale. Come sta quella povera ragazza?”

Non avevamo nessun elemento nuovo.

McKenna ci informò che la pistola non era stata rinvenuta né in sala né nelle strade intorno al teatro.

“Chi ha sparato deve avere approfittato del panico per abbandonare il teatro e sbarazzarsi dell’arma chissà dove,” concluse McKenna.

“Non potevamo certo impedire alla gente di uscire,” aggiunse Montagne, come per giustificarsi. “Si sarebbero calpestati a vicenda e ci sarebbero stati dei morti. Nessuno di noi poteva immaginare che il pericolo venisse dall’interno: la sala era stata completamente bonificata.”

Era proprio su quel punto che, nonostante l’assenza di indizi concreti, stavamo per fare un decisivo passo avanti nell’indagine.

“Com’è potuta entrare in teatro una persona armata?” chiesi.

“Non riesco a spiegarmelo,” rispose McKenna. “Gli agenti di servizio agli ingressi del Grand Theater sono tutti abituati a situazioni delicate. Si occupano della sicurezza quando ci sono conferenze internazionali, parate, spostamenti del governatore a New York. La procedura è rigorosissima: la sala è stata prima ispezionata con i cani addestrati al rilevamento di esplosivi e di armi da fuoco, quindi è stata posta sotto sorveglianza assoluta. Durante la notte non è potuto entrarci nessuno. Poi, all’apertura delle porte, il pubblico e la compagnia sono stati sottoposti ai controlli di sicurezza anche con il metal-detector.”

C’era per forza qualcosa che ci sfuggiva. Dovevamo scoprire com’era stato possibile che in sala entrasse una pistola. Per vederci chiaro, McKenna convocò l’ufficiale responsabile della sicurezza della sala. Questi ci ripeté parola per parola la procedura descritta dal maggiore.

“Dopo che l’abbiamo perlustrata con i cani, la sala è rimasta blindata fino all’apertura,” disse l’ufficiale. “Sarebbe stata pronta per accogliere persino il presidente degli Stati Uniti.”

“Quando avete aperto le porte, sono state controllate tutte le persone che entravano?” chiesi.

“Tutte, senza eccezioni,” confermò l’ufficiale.

“Noi, però, non siamo stati controllati da nessuno,” gli fece notare Anna.

“Chi esibiva un distintivo della polizia non veniva perquisito,” ammise l’ufficiale.

“In sala sono entrati molti poliziotti?” chiesi.

“No, capitano: solo alcuni colleghi in borghese, agenti della polizia di stato che facevano avanti e indietro tra la sala e l’esterno del teatro per assicurarsi che non ci fossero intoppi.”

“Jesse,” disse in tono preoccupato il maggiore McKenna, “non vorrai dirmi che sospetti che sia stato un poliziotto!”

“Voglio soltanto capire,” risposi, per poi chiedere all’ufficiale di descrivermi dettagliatamente quali erano i dispositivi di sicurezza attivati nel teatro.

Per rispondermi nella maniera più esatta possibile, l’ufficiale chiamò il responsabile dell’unità cinofila, che ci spiegò come avevano proceduto.

“Abbiamo suddiviso l’area da perlustrare in tre zone: foyer, sala e locali dietro le quinte, compresi i camerini. Setacciamo sempre una zona per volta, per essere sicuri di non tralasciare niente. Quando abbiamo cominciato, in sala c’erano gli attori che provavano, quindi ci siamo dedicati innanzitutto ai locali dietro le quinte. Quella era la zona più impegnativa, perché comprende anche un seminterrato molto vasto. Dopo avere completato le operazioni lì, abbiamo chiesto agli attori di sospendere le prove per il tempo necessario a ispezionare la sala, in maniera che i cani non venissero distratti dalla loro presenza.”

“E a quel punto dove sono andati gli attori?” chiesi.

“Nei camerini. Poi, prima di rientrare in sala, si sono dovuti sottoporre al metal-detector perché l’area restasse in sicurezza. Così potevano passare senza problemi da una zona all’altra.”

Derek si diede una manata sulla fronte.

“Gli attori sono stati perquisiti quando sono arrivati al Grand Theater?” chiese.

“No. Ma le loro borse sono state fiutate dai cani nei camerini, e poi sono stati sottoposti tutti al metal-detector.”

“Capisco,” disse Derek. “Ma poniamo che un attore fosse arrivato in teatro con una pistola e se la fosse tenuta addosso mentre vi occupavate dei camerini, tutto sarebbe stato regolare. Poi, mentre passavate a setacciare la sala e gli attori si trovavano nei camerini già ispezionati, avrebbe potuto lasciare la pistola lì, che a quel punto era considerato una zona sicura. Quindi sarebbe tornato in sala e avrebbe superato senza problemi il metal-detector.”

“Sì, in quel caso l’arma sarebbe sfuggita ai cani. Non abbiamo fatto fiutare gli attori.”

“Ecco allora com’è stata introdotta l’arma,” dissi. “Chi ha sparato, ha portato dentro l’arma il giorno prima. Le misure di sicurezza erano state annunciate dai giornali, e lui ha avuto il tempo di prevedere tutto. Ieri la pistola era già all’interno del Grand Theater: non ha dovuto fare altro che prenderla nel suo camerino prima dell’inizio dello spettacolo.”

“Quindi a sparare sarebbe stato uno degli attori?” chiese il sindaco Brown, sgomento.

“Non c’è più il minimo dubbio,” rispose Derek.

Chi aveva sparato era lì, nella stanza accanto, proprio sotto i nostri occhi.

Per prima cosa, sottoponemmo gli attori al guanto di paraffina, ma nessuno di loro aveva tracce di polvere da sparo sulle mani o sui vestiti. Esaminammo anche gli abiti di scena, mandammo agenti a perquisire i camerini e le stanze d’albergo. Ma ancora una volta senza alcun risultato. Chi aveva sparato poteva averlo fatto indossando un paio di guanti o anche un soprabito, e questo avrebbe spiegato l’assenza di tracce. E comunque aveva avuto tutto il tempo di sbarazzarsi della pistola, cambiarsi e farsi la doccia.

Harvey aveva detto che al momento degli spari si trovava con Alice e Jerry. Riuscimmo a contattare telefonicamente Jerry. Dakota era in sala operatoria da ore, e non aveva nessuna notizia. Però ci confermò che quando le avevano sparato, lui era con Alice e Harvey. Considerando che Jerry, oltre a non avere nessun rapporto con i fatti del 1994, non poteva certo essere sospettato di aver attentato alla vita della figlia, la sua testimonianza era assolutamente attendibile. E questo permetteva di escludere dall’elenco degli indiziati sia Harvey sia Alice.

Passammo il resto della giornata a interrogare gli altri attori. Inutilmente. Nessuno aveva visto nulla. Quanto a dove si trovasse ognuno di loro al momento degli spari, sostenevano tutti di essere stati da qualche parte dietro le quinte, vicino a Harvey. Nessuno però ricordava di avere visto gli altri. Era un vero e proprio rompicapo.

Quando finimmo, era quasi sera, e non avevamo fatto passi avanti.

“Com’è possibile che non abbiate nuovi elementi?” sbottò McKenna, quando lo informammo della situazione.

“Niente tracce di polvere da sparo sugli attori. E nessuno ha visto niente,” riepilogai.

“Eppure siamo quasi certi che a sparare sia stato uno di loro!”

“Lo so, maggiore. Ma non abbiamo alcun elemento concreto. Neanche il minimo indizio. È come se si coprissero a vicenda.”

“E li avete interrogati tutti?” chiese ancora il maggiore.

“Tutti tranne Alice Filmore.”

“E perché non l’avete interrogata?”

“Perché è introvabile, maggiore,” rispose Derek. “Ha il telefono staccato. Steven Bergdorf dice che dopo gli spari sono usciti dal teatro insieme e che la ragazza sembrava terrorizzata. A quanto pare, gli ha detto che voleva tornare subito a New York. Comunque, la testimonianza di Eden la esclude dagli indiziati: al momento degli spari era con lui e Harvey. Vuole che contatti la polizia di New York?”

“No,” disse il maggiore, “non serve, visto che la ragazza non è tra gli indiziati. Avete già abbastanza da fare con gli altri.”

“Ma come dobbiamo agire con il resto della compagnia?” chiesi. “Ormai sono dodici ore che li tratteniamo.”

“Se non avete elementi contro di loro, lasciateli andare. Non abbiamo altra scelta. Ma informateli che non devono varcare i confini dello stato.”

“Ha notizie di Dakota, maggiore?” chiese Anna.

“L’intervento è finito. I chirurghi hanno estratto i due proiettili e hanno cercato di ridurre i danni agli organi interni. Ma la ragazza ha avuto una grossa emorragia ed è in coma farmacologico. I medici temono che non superi la notte.”

“Maggiore, può chiedere che i due proiettili vengano analizzati?” domandai.

“Certo. Perché?”

“Mi chiedo se non provengano dalla pistola di un poliziotto.”

Ci fu un lungo silenzio. Poi il maggiore si alzò e mise fine alla riunione.

“Andate a riposarvi,” disse. “Mi sembrate tre zombie.”

Arrivata a casa, Anna ebbe la brutta sorpresa di trovare il suo ex marito seduto in veranda.

“Mark? Che ci fai qui?”

“Eravamo tutti in pensiero per te, Anna. In televisione non fanno altro che parlare della sparatoria al Grand Theater. Non hai risposto né alle nostre telefonate né agli SMS.”

“Ci mancavi solo tu, Mark. Sto bene, grazie. Puoi tornartene a casa.”

“Quando ho saputo cos’era successo qui, ho subito pensato alla gioielleria Sabar.”

“Ti prego, non cominciare!”

“E tua madre ha pensato la stessa cosa.”

“Allora dovresti sposare lei. Sembra che tra voi ci sia un’affinità incredibile.”

Mark rimase seduto per far capire che non aveva intenzione di andarsene. Anna, sfinita, si lasciò cadere sulla sedia accanto a lui.

“Credevo che fossi venuta a Orphea per il piacere di stare in una città dove non succedeva niente,” disse Mark.

“Era proprio così,” rispose Anna.

“È come se all’epoca avessi deciso di operare in quell’unità d’intervento solo per farmi dispetto.”

“Smettila di fare sempre la vittima, Mark. Ti ricordo che quando mi hai conosciuto ero già una piedipiatti.”

“È vero,” ammise lui. “E devo confessarti che per me faceva parte del tuo fascino. Ma hai mai provato a metterti nei miei panni per qualche istante? Pensa: un giorno incontro una donna straordinaria, brillante, bella, divertente, e ho perfino la fortuna di sposarla. Ma ecco che quella donna sublime comincia a mettersi un giubbotto antiproiettile per andare al lavoro. E quando la vedo uscire di casa, con la pistola semiautomatica nella fondina, mi chiedo se la rivedrò viva. E ogni volta che sento una sirena o che in televisione parlano di una sparatoria o di una qualsiasi situazione di pericolo, mi chiedo se non sia coinvolta anche lei. E quando suonano alla porta mi domando: è un vicino che viene a farsi prestare il sale? È lei che ha dimenticato le chiavi? O è un ufficiale in divisa venuto ad annunciarmi che mia moglie è morta nell’esercizio delle sue funzioni? E l’angoscia quando tarda a rincasare! E la preoccupazione quando non richiama, nonostante le abbia lasciato decine di messaggi! E gli orari assurdi che mi costringono a vivere al contrario, perché lei va a dormire quando io mi sveglio! E le telefonate improvvise che la fanno uscire in piena notte! E gli straordinari! E i week-end annullati! Ecco com’era la mia vita con te, Anna.”

“Adesso basta, Mark!”

Ma lui non aveva intenzione di fermarsi.

“Rispondi, Anna: al momento di lasciarmi, hai provato almeno per un istante a metterti al mio posto? E a cercare di capire cosa mi avevi costretto a vivere? Per esempio, quando dovevamo vederci al ristorante per cenare dopo il tuo turno e invece, poiché Madame aveva avuto un’emergenza all’ultimo secondo, mi toccava aspettare per ore, per poi tornare a casa e andarmene a letto senza avere mangiato. O tutte le volte che mi hai detto: ‘Sto arrivando’, e invece non sei mai arrivata perché avevi qualche problema con il lavoro. Ma con le migliaia di piedipiatti di quel cazzo di NYPD, è possibile che non avessi mai un collega al quale scaricare eccezionalmente quel problema per raggiungermi a cena? Perché io, mentre la signora Anna salvava il mondo, sugli otto milioni di abitanti di New York mi sentivo sempre l’ottomilionesimo, quello di cui ci si occupa per ultimo! La polizia mi aveva tolto mia moglie!”

“No, Mark,” obiettò Anna, “Sei stato tu a perdermi. Sei stato tu a non saper tenermi!”

“Dammi un’altra possibilità, ti prego.”

Anna esitò a lungo prima di rispondergli:

“Ho conosciuto una persona. Qualcuno con cui mi trovo bene. Credo di essermi innamorata. Mi dispiace.”

Mark la guardò a lungo, in un silenzio assoluto e raggelante. Sembrava sconvolto. Poi disse, con amarezza:

“Forse hai ragione, Anna: sono stato io a perderti. Ma non dimenticare che, dopo quello che è successo nella gioielleria Sabar, non eri più la stessa. E avremmo potuto evitarlo! Quella sera non volevo che andassi! Ti ho chiesto di non rispondere a quel cazzo di telefono, ricordi?”

“Sì, ricordo.”

“Se non fossi andata in quella gioielleria... Se, una volta tanto, mi avessi ascoltato, oggi saremmo ancora insieme.”