Anna Kanner
Venerdì 21 settembre 2012. Il giorno in cui precipitò tutto.
Fin lì era andato tutto bene. Sia nella mia vita professionale sia in quella sentimentale con Mark. Ero ispettrice al 55º commissariato di polizia di New York. Mark, avvocato nello studio di mio padre, si occupava di una clientela selezionata che gli garantiva grossi guadagni. Ci amavamo. Eravamo una coppia felice. Nel lavoro e a casa. Due giovani sposi felici. Avevo addirittura l’impressione che fossimo più felici e realizzati della maggior parte delle coppie che conoscevo e alle quali spesso ci confrontavo.
Credo che il primo scoglio nella nostra relazione sia stato il mio cambio d’incarico al 55º commissariato. Poiché avevo dimostrato sin dall’inizio le mie capacità operative, mi proposero il ruolo di negoziatrice in un’unità d’intervento per la liberazione di ostaggi: superai brillantemente i test per quella nuova mansione.
Mark non si rese subito conto di cosa implicasse quell’incarico. Finché, all’inizio del 2012, non comparvi in TV in occasione della cattura di ostaggi in un supermercato del Queens. Le immagini in cui mi si vedeva in tuta nera, bardata di giubbotto antiproiettile e con un elmetto in mano, fecero il giro della famiglia e dei nostri amici.
“Credevo che fossi una negoziatrice,” disse Mark, sgomento, dopo aver visto più volte quella sequenza.
“Infatti è quello che sono,” confermai.
“A giudicare dalla tenuta, sembri più pronta all’azione che alla mediazione.”
“È un’unità che gestisce la liberazione di ostaggi. Per risolvere quel tipo di problemi non si ricorre allo yoga.”
Mark rimase per un po’ in silenzio, turbato. Andò a riempirsi un bicchiere di vino, si fumò un paio di sigarette, poi tornò per dirmi:
“Temo di non essere in grado di sopportare che tu faccia questo lavoro.”
“Quando mi hai sposato, sapevi i rischi del mio mestiere,” gli ricordai.
“No, quando ci siamo conosciuti eri un’ispettrice di polizia. Non facevi questo tipo di idiozie.”
“Idiozie? Mark, io salvo vite.”
Le tensioni tra me e Mark si aggravarono dopo che uno squilibrato uccise due poliziotti, sparandogli a bruciapelo mentre stavano bevendo tranquillamente un caffè in macchina, in una strada di Brooklyn.
Mark era preoccupato. La mattina, quando uscivo, spesso mi diceva: “Spero di rivederti viva, stasera.” Passarono i mesi. A poco a poco, le allusioni non bastarono più: mio marito cominciò a mostrarsi più insistente e arrivò a suggerirmi una riconversione professionale.
“Perché non vieni a lavorare con me nello studio legale? Potresti aiutarmi con le pratiche più impegnative.”
“Aiutarti? Vuoi che ti faccia da assistente? Pensi che non sia in grado di gestire delle pratiche da sola? Devo ricordarti che sono laureata in legge come te?”
“Non farmi dire cose che non ho detto. Penso solo che dovresti guardare più in là del tuo futuro immediato e considerare la possibilità di un lavoro part-time.”
“Part-time? E perché?”
“Quando avremo dei figli non vorrai stare tutto il giorno lontana da loro?”
I genitori di Mark erano due carrieristi che si erano occupati pochissimo di lui quand’era piccolo. Questo gli aveva lasciato una ferita cui cercava di rimediare lavorando come un forsennato per provvedere da solo alle necessità della coppia e permettere alla moglie di starsene a casa.
“Io non sarò mai una casalinga, Mark. Sapevi anche questo prima di sposarmi.”
“Ma non hai più bisogno di lavorare, Anna: guadagno abbastanza per tutt’e due!”
“Io amo il mio lavoro, Mark. Mi dispiace che questo ti dia tanto fastidio.”
“Almeno mi prometti di pensarci?”
“La risposta è ‘No’! Ma non preoccuparti, non saremo come i tuoi genitori.”
“Non tirare in ballo i miei, Anna!”
Mark però tirò in ballo mio padre, confidandosi con lui. E mio padre affrontò l’argomento un giorno in cui ci ritrovammo a tu per tu. Era quel famoso venerdì 21 settembre. Ricordo che era una giornata splendida: un sole sfolgorante illuminava New York, e la colonnina del mercurio superava i venticinque gradi. Quel giorno non lavoravo, e mi incontrai con mio padre per pranzare insieme sulla terrazza di un ristorantino italiano che adoravamo entrambi. Il locale non era vicino al suo studio, e immaginai che se mi aveva dato appuntamento lì in un giorno feriale era perché voleva parlarmi di una cosa importante.
In effetti, appena ci fummo seduti a tavola, mi disse:
“Anna, tesoro, so che hai problemi di coppia.”
Mancò poco che sputassi l’acqua che stavo bevendo.
“Posso sapere chi ti ha detto una cosa simile, papà?” chiesi.
“Tuo marito. Sai, ha paura per te.”
“Facevo già questo lavoro quando mi ha conosciuto.”
“Quindi vuoi sacrificare tutto per fare la piedipiatti?”
“Io adoro il mio lavoro, e questo andrebbe rispettato.”
“Rischi la pelle tutti i giorni!”
“Ma insomma, papà, potrei anche morire sotto un autobus uscendo da qui!”
“Non giocare con le parole, Anna. Mark è un ragazzo fantastico, non fare la stupida con lui.”
Quella sera Mark e io litigammo violentemente.
“Non riesco a credere che tu sia andato a piagnucolare da mio padre!” gli dissi, furibonda. “Le nostre faccende di coppia riguardano solo noi!”
“Speravo che tuo padre riuscisse a farti ragionare. È l’unica persona che abbia una qualche influenza su di te. Ma in realtà tu pensi solo alle tue piccole soddisfazioni. Sei un’egoista, Anna.”
“Io amo il mio lavoro, Mark! Sono una brava poliziotta! È così difficile da comprendere?”
“E tu non potresti sforzarti di capire che non ne posso più di avere paura per te? Di trasalire quando il tuo telefono suona in piena notte e scompari per un’emergenza?”
“Non essere in malafede: non succede così spesso.”
“Però succede. Onestamente, Anna, è troppo pericoloso! Non è più un lavoro per te!”
“E tu come fai a sapere qual è il lavoro per me?”
“Lo so, e basta.”
“Mi chiedo come faccia a essere così...”
“Tuo padre è d’accordo con me!”
“Ma io non sono sposata con mio padre, Mark! Me ne frego di quello che pensa!”
In quell’istante, il mio telefono squillò. Vidi sul display che era il mio capo. A quell’ora poteva essere solo un’emergenza, e Mark lo capì subito.
“Anna, per favore, non rispondere.”
“Mark, è il mio capo.”
“Sei in ferie.”
“Appunto. Se mi chiama, significa che è importante.”
“Cazzo, ma non sei l’unica piedipiatti della città, no?”
Ebbi un istante di esitazione. Poi risposi.
“Anna,” disse il mio capo, “c’è stata una cattura di ostaggi in una gioielleria all’angolo tra Madison e la Fifty Seven. La zona è isolata. Ci serve una negoziatrice.”
“D’accordo,” dissi, scrivendo l’indirizzo su un pezzo di carta. “Come si chiama la gioielleria?”
“Sabar.”
Riattaccai e presi la sacca con l’attrezzatura, sempre pronta accanto all’ingresso. Mi voltai per dare un bacio a Mark, ma era scomparso in cucina. Amareggiata, sospirai e me ne andai. Uscendo di casa vidi dalla finestra della loro sala da pranzo i nostri vicini che stavano finendo di cenare. Sembravano felici. Per la prima volta mi ritrovai a pensare che le altre coppie erano sicuramente più realizzate di noi.
Salii sulla mia autocivetta, posizionai sul tetto il lampeggiatore e mi allontanai nella notte.