Jesse Rosenberg

Venerdì 11 luglio 2014

15 giorni prima dell’inaugurazione del festival

Anna e io stavamo bevendo un caffè in un bar del porto di Orphea, in attesa di Derek.

“Quindi hai lasciato Kirk Harvey in California?” mi chiese Anna, quando finii di raccontarle cos’era successo a Los Angeles.

“Quel tizio è un bugiardo,” dissi.

In quel momento arrivò Derek. Sembrava preoccupato.

“Il maggiore McKenna ce l’ha a morte con te,” mi disse. “Dopo quello che hai fatto ad Harvey, stai rischiando di farti cacciare. Non devi avvicinarti a quell’uomo per nessun motivo.”

“Lo so,” risposi. “E comunque non corro nessun pericolo di farlo, visto che Harvey è a Los Angeles.”

“Il sindaco ci vuole parlare,” disse Anna. “Immagino che voglia farti una lavata di capo.”

Vedendo l’occhiata che mi lanciò Brown quando entrammo nel suo ufficio, capii che Anna aveva ragione.

“Capitano Rosenberg, sono stato informato di ciò che ha fatto al povero Kirk Harvey. È una cosa indegna della sua funzione.”

“Quel tizio voleva prenderci in giro tutti: non ha la minima informazione utile sull’indagine del 1994.”

“E lei questo lo sa perché Harvey non ha parlato sotto tortura?” ironizzò il sindaco.

“Signor sindaco, ho perso il controllo e mi dispiace, ma...”

“Lei mi disgusta, Rosenberg. E la avverto: se osa anche solo sfiorare quell’uomo, la distruggo.”

In quell’istante l’assistente di Brown annunciò all’interfono l’imminente ingresso di Kirk Harvey.

“L’ha fatto venire lo stesso?” chiesi, sbalordito.

“Il suo spettacolo è fantastico,” si giustificò il sindaco.

“Ma è un bidone!” esclamai.

La porta dell’ufficio si spalancò di colpo e apparve Harvey. Appena mi vide, si mise a urlare:

“Quest’uomo non può restare qui in mia presenza! Mi ha pestato senza motivo!”

“Kirk, non hai nulla da temere,” lo rassicurò il sindaco Brown. “Qui sei sotto la mia protezione. E comunque il capitano Rosenberg e i suoi colleghi se ne stavano andando.”

Ci invitò a uscire e noi obbedimmo, per non esasperare gli animi.

Appena ce ne fummo andati, nell’ufficio del sindaco arrivò Meta Ostrovski. Entrando nella stanza, squadrò per un istante Harvey e poi si presentò:

“Sono Meta Ostrovski, il critico più temuto e famoso di questo paese.”

“Oh, ma io ti conosco!” lo incenerì con lo sguardo Harvey. “Peste! Verme! Vent’anni fa ti sei divertito a umiliarmi!”

“Ah, non potrò mai dimenticare l’orrore del tuo atroce spettacolo, che ogni sera ci feriva le orecchie dopo Zio Vania! Era così orrendo da rendere ciechi i rari spettatori che vi assistevano!”

“Ingoia quella linguaccia velenosa, Ostrovski: ho appena scritto il più grande spettacolo teatrale degli ultimi cent’anni!”

“Come osi autoincensarti?” si inalberò Ostrovski. “Solo un critico può decidere cosa sia buono e cosa no. Sono l’unico abilitato a decidere il valore del tuo spettacolo. E il mio giudizio sarà spietato!”

“Lei dirà che è uno spettacolo straordinario!” sbottò il sindaco Brown, rosso di rabbia, mettendosi fisicamente tra i due litiganti. “Devo ricordarle il nostro patto, Ostrovski?”

“Mi aveva parlato di uno spettacolo portentoso, Alan!” protestò il critico. “Non dell’ultima porcheria firmata Kirk Harvey!”

“Ma a te chi ti ha invitato, reflusso gastrico che non sei altro?” inveì Harvey.

“Come osi parlarmi?” si adombrò Ostrovski, portandosi le mani alla bocca. “Posso rovinare la tua carriera con uno schiocco di dita!”

“Vi ordino di piantarla subito con queste idiozie!” sbraitò Brown. “È questa l’immagine che volete dare ai giornalisti?”

Il sindaco aveva urlato così forte che i vetri dell’ufficio avevano tremato. Nella stanza calò un silenzio di tomba. Ostrovski e Harvey assunsero un’aria contrita e si guardarono la punta delle scarpe. Il sindaco si sistemò il colletto della giacca e, sforzandosi di avere un tono pacato, chiese a Kirk:

“Dov’è il resto della compagnia?”

“Non ci sono ancora attori,” rispose Harvey.

“Che significa: ‘Non ci sono ancora attori’?”

“Farò il casting qui, a Orphea,” rispose Harvey.

Brown sbarrò gli occhi, sgomento:

“Che significa: ‘Farò il casting qui’? Lo spettacolo debutta tra quindici giorni!”

“Non preoccuparti, Alan,” lo rassicuro Harvey. “Preparerò tutto nel week-end. Audizioni lunedì, prima prova giovedì.”

“Giovedì?” ripeté Brown, con voce strozzata. “Ma così ci saranno solo nove giorni per allestire lo spettacolo che dev’essere il fiore all’occhiello del festival!”

“Nove giorni sono più che sufficienti. Ho provato questo testo per vent’anni. Fidati di me, Alan, lo spettacolo farà un tale scalpore che si parlerà del tuo schifosissimo festival anche negli angoli più sperduti del paese.”

“Vedo che con gli anni ti sei completamente bevuto il cervello, Kirk!” urlò Brown, fuori di sé. “Annullo tutto! Posso sopportare il fallimento, ma non l’umiliazione.”

Ostrovski si mise a ridacchiare. Harvey estrasse dalla tasca un foglio sgualcito, lo aprì e lo agitò davanti agli occhi del sindaco.

“Hai firmato un impegno, figlio di una spogliarellista! Sei obbligato a lasciarmi fare il mio spettacolo!”

In quell’istante un’impiegata del comune aprì la porta interna dell’ufficio.

“Signor sindaco, la sala stampa è piena di giornalisti che cominciano a spazientirsi. Attendono tutti il grande annuncio.”

Brown sospirò: non poteva più tirarsi indietro.

* * *

Steven Bergdorf entrò nel palazzo comunale di Orphea e si presentò in portineria per essere accompagnato in sala stampa. Diede il proprio nome al commesso, chiese se si dovesse firmare un registro e si accertò che l’edificio fosse munito di videocamere di sorveglianza da cui essere ripreso: la conferenza-stampa sarebbe stata il suo alibi. Quello era il giorno fatidico: avrebbe ucciso Alice.

Al mattino era uscito di casa come se andasse al lavoro. Aveva semplicemente detto alla moglie che avrebbe preso la macchina per andare a una conferenza stampa in periferia. Poi era passato a prendere Alice a casa sua: quando aveva caricato nell’auto la valigia della ragazza, lei non si era accorta che nel baule non c’erano altri bagagli. Si era addormentata nel giro di qualche minuto e aveva continuato a dormire per tutto il viaggio, con la testa poggiata sulla sua spalla. E i pensieri omicidi di Bergdorf si erano dissolti in un batter d’occhi. Vedendola così appisolata, gli era sembrata incredibilmente tenera: come aveva potuto anche solo pensare di ucciderla? Si era ritrovato persino a ridere di se stesso: non sapeva neanche come uccidere qualcuno! Man mano che macinava miglia, il suo umore era cambiato: era contento di essere lì, con lei. L’amava, anche se tra loro era finita la magia. Approfittando della strada per riflettere, aveva infine deciso che l’avrebbe piantata quel giorno stesso. Sarebbero andati a passeggiare al porto, le avrebbe spiegato che non poteva più continuare così, che dovevano lasciarsi, e Alice avrebbe capito. E visto che lui sentiva che tra loro le cose non erano più come prima, anche lei avrebbe necessariamente provato la stessa sensazione. Erano adulti. Sarebbe stata una separazione senza traumi. In serata sarebbero tornati a New York, e tutto sarebbe rientrato nella normalità. Non vedeva l’ora che quella giornata finisse! Aveva bisogno di ritrovare la calma e la stabilità della vita famigliare. Gli premeva solo una cosa: ritrovarsi in vacanza nella casetta del Champlain Lake, con sua moglie che si occupava delle spese come aveva sempre fatto con tanta diligenza.

Alice si era svegliata mentre arrivavano a Orphea.

“Hai dormito bene?” le aveva chiesto gentilmente Bergdorf.

“Per niente, sono stanca morta. Non vedo l’ora di farmi un pisolino in albergo. I loro letti sono così comodi! Spero che avremo la stessa stanza dell’anno scorso. Era la 312. Ti farai dare quella, vero, Stevie?”

“In albergo?” aveva ripetuto Bergdorf, con voce strozzata.

“Certo! Spero proprio che andremo al Lake Palace. Oh, Stevie, per carità, non dirmi che hai fatto il cafone spilorcio e hai prenotato un motel da quattro soldi! Non sopporterei l’idea di dormire in una di quelle topaie da pezzenti.”

Bergdorf, con le budella annodate, si era fermato sul ciglio della strada e aveva spento il motore.

“Alice,” le aveva detto in tono risoluto, “dobbiamo parlare.”

“Che ti prende, tesoro? Sei pallidissimo.”

Lui aveva tratto un respiro profondo e si era lanciato:

“Non ho previsto di passare il week-end con te. Voglio lasciarti.”

Averle confessato tutto, l’aveva fatto sentire subito meglio. Alice l’aveva guardato con aria stupita, poi era scoppiata a ridere.

“Oh, Stevie, c’ero quasi cascata! Dio mio, per un istante mi hai fatto paura.”

“Non sto scherzando, Alice,” l’aveva incalzata lui. “Non ho neanche portato la valigia. Sono venuto qui per rompere con te.”

Alice si era voltata sul sedile e aveva visto che effettivamente nel bagagliaio c’era solo la sua valigia.

“Steven, ma che ti prende? E perché mi hai detto che mi portavi a Orphea per il week-end, se invece volevi rompere?”

“Ieri sera pensavo ancora di voler passare il fine-settimana con te, ma poi ho capito che dovevamo troncare la nostra relazione. È diventata letale.”

“Letale? Ma che stai dicendo, Stevie?”

“A te interessano solo il tuo libro e i regali che ti faccio. Abbiamo quasi smesso di fare l’amore. Alice, penso che tu abbia approfittato abbastanza di me.”

“Quindi t’importa solo di scopare, Steven?”

“Ho preso la mia decisione. È inutile girarci intorno. Tra l’altro, non avrei mai dovuto venire fin qui. Torniamo a New York.”

Bergdorf aveva rimesso in moto e aveva iniziato la manovra per fare inversione.

“L’indirizzo e-mail di tua moglie è tracy.bergdorf@lightmail.com, vero?” aveva chiesto a quel punto Alice, in tono pacato, mentre cominciava a digitare sulla tastiera del cellulare.

“Come hai avuto il suo indirizzo?” esclamò Bergdorf.

“Tua moglie deve sapere cosa mi hai fatto. Lo sapranno tutti.”

“Non puoi dimostrare niente!”

“Toccherà a te dimostrare di non aver fatto niente, Stevie. Sai bene come funzionano queste cose. Andrò dalla polizia e mostrerò i tuoi messaggi su Facebook. Dirò loro che mi hai circuita e che un giorno mi hai dato appuntamento al Plaza, dove mi hai fatto ubriacare per poi abusare di me in una stanza dell’albergo. Dirò che mi minacciavi e che per molto tempo non ho avuto il coraggio di parlare a causa di ciò che hai fatto a Stephanie Mailer.”

“Che cosa ho fatto a Stephanie?”

“Hai abusato di lei e l’hai licenziata quando ha voluto rompere!”

“Ma io non ho fatto niente del genere!”

“Dimostralo!” aveva urlato Alice, con uno sguardo di odio. “Racconterò alla polizia che Stephanie si era confidata con me, dicendomi cosa le avevi fatto subire e che aveva paura di te. Sbaglio, o martedì la polizia è venuta nel tuo ufficio, Stevie? Oh, mio Dio, spero che tu non sia già sulla loro lista dei sospetti!”

Bergdorf, impietrito, aveva poggiato la fronte sul volante. Era incastrato senza via di scampo. Alice gli aveva dato dei buffetti sulla spalla con aria di condiscendenza, per poi sussurrargli all’orecchio:

“Adesso ingrani la marcia e mi porti al Lake Palace. Camera 312, ricordi? E mi fai passare un week-end da sogno, come avevi promesso. E se ti comporti bene, forse ti lascerò dormire nel letto e non sulla moquette.”

Bergdorf non aveva avuto altra scelta che quella di obbedire. Aveva raggiunto il Lake Palace. Completamente al verde, aveva presentato la carta di credito del “Magazine” come garanzia per il pagamento del soggiorno. La stanza 312 era una suite e costava novecento dollari a notte. Alice aveva voglia di fare un sonnellino, e lui l’aveva lasciata in albergo per andare alla conferenza-stampa del sindaco. La sua presenza in comune avrebbe giustificato l’uso della carta di credito aziendale qualora l’amministrazione avesse fatto domande. E, soprattutto, sarebbe stato il suo alibi se la polizia l’avesse interrogato dopo il ritrovamento del corpo di Alice. Avrebbe detto di trovarsi lì per la conferenza stampa – cosa che tutti avrebbero potuto confermare – e di ignorare che in città c’era anche lei.

Adesso, mentre percorreva il corridoio per raggiungere la sala stampa, si interrogava su quale fosse il modo migliore per ucciderla. Al momento, la soluzione ideale gli sembrava quella del topicida nel cibo. Ma quel piano implicava il non essere stato visto in pubblico con Alice, quando invece si erano presentati insieme in albergo. Si rese conto che il suo alibi si era già dissolto: il personale del Palace li aveva visti arrivare insieme.

Un commesso gli rivolse un cenno, strappandolo dalle sue riflessioni, e lo fece entrare in una sala gremita, nella quale i giornalisti stavano ascoltando attentamente il sindaco Brown che concludeva il suo intervento:

“È per questo che sono felicissimo di annunciarvi che lo spettacolo inaugurale del festival di Orphea sarà La Notte Buia, l’ultima opera del regista Kirk Harvey, che verrà rappresentata in anteprima mondiale al Grand Theater.”

Il sindaco era seduto al centro di un lungo tavolo di fronte al pubblico. Bergdorf notò, sbalordito, che alla sua sinistra c’era Meta Ostrovski e alla sua destra quel Kirk Harvey che, l’ultima volta che l’aveva visto, vestiva i panni di comandante della polizia di Orphea.

Il regista prese la parola: “È da vent’anni che preparo La Notte Buia e sono orgoglioso che il pubblico possa finalmente scoprire questo gioiello, che sta già suscitando l’entusiasmo dei più importanti critici del paese, tra i quali il leggendario Meta Ostrovski, che è qui con noi e potrà dirci ciò che davvero pensa di questo spettacolo.”

Ostrovski, pensando alle sue vacanze al Lake Palace pagate dai contribuenti di Orphea, sorrise annuendo alla folla di fotografi che lo bersagliavano di scatti.

“Un allestimento eccezionale, amici miei, davvero eccezionale,” assicurò. “Di una qualità rara. Sapete bene quanto io sia avaro di complimenti. Ma in questo caso, tanto di cappello! Si tratta della rinascita del teatro mondiale!”

Bergdorf si chiese cosa ci facesse lì Ostrovski. Nel frattempo Kirk Harvey, galvanizzato dalla bella accoglienza, riprese la parola:

“Se questo spettacolo è così eccezionale,” disse, “è perché a rappresentarlo saranno attori presi tra gli abitanti della contea. Ho rifiutato i più grandi attori di Broadway e di Hollywood per offrire un’opportunità ai cittadini di Orphea.”

“Sta parlando di dilettanti?” lo interruppe Michael Bird, presente nel pubblico.

“Non sia volgare,” disse stizzito Harvey. “Parlo di attori veri!”

“Una compagnia di dilettanti e un regista sconosciuto: il sindaco Brown fa le cose in grande!” ribatté seccamente Bird.

Scoppiarono risate, e la sala fu percorsa da un brusio generale. Il sindaco, cercando di evitare guai peggiori, decise di intervenire:

“Quello di Kirk Harvey è uno straordinario allestimento di teatro-verità.”

“Il teatro-verità è di una noia mortale,” ribatté un giornalista di una radio locale.

“Il grande annuncio si rivela un colossale bidone,” disse amareggiato Bird. “Credo che questo spettacolo non abbia niente di sensazionale. Il sindaco Brown tenta in tutti i modi di salvare il suo festival e, soprattutto, la sua elezione in autunno. Ma noi non siamo stupidi!”

Allora Harvey gridò:

“Questo spettacolo è eccezionale perché sarà l’occasione per fare rivelazioni esplosive! Non è stata fatta mai piena luce sul quadruplice omicidio del 1994. Lasciandomi rappresentare il mio spettacolo, il sindaco Brown permetterà di sollevare il velo su quella vicenda e scoprire tutta la verità.”

Ormai il pubblico era conquistato.

“Harvey e io abbiamo fatto un patto,” spiegò il sindaco, che avrebbe preferito tacere quel particolare, ma capiva che era determinante per convincere i giornalisti. “In cambio dell’ospitalità che daremo al suo spettacolo, Harvey fornirà alla polizia tutte le informazioni in suo possesso.”

“Ma questo avverrà solo la sera della prima,” precisò Harvey. “Prima del debutto non divulgherò niente. Non vorrei che, una volta messa al corrente la polizia, mi si impedisse di rappresentare il mio capolavoro.”

“Certo, la sera della prima,” confermò Brown. “Quindi spero che affluisca un pubblico numeroso, per sostenere questo spettacolo che permetterà di ristabilire la verità.”

Le sue parole furono accolte da qualche istante di silenzio sbigottito, dopodiché i giornalisti, rendendosi conto di essere in possesso di una notizia di prim’ordine, cominciarono ad agitarsi rumorosamente.

* * *

Nel suo ufficio al comando di polizia di Orphea, Anna aveva fatto installare un televisore e un lettore di cassette Vhs.

“Buzz Leonard ci ha dato il video dello spettacolo del 1994,” mi disse. “Lo visioneremo sperando di scoprire qualcosa.”

“La vostra visita a Leonard è stata produttiva?” chiesi.

“Eccome!” rispose Derek in tono entusiasta. “Per prima cosa, Leonard ci ha parlato di un litigio tra Harvey e il sindaco. Harvey voleva mettere in scena il suo spettacolo durante il festival, e pare che Gordon gli abbia detto: ‘Finché sarò vivo, non lo permetterò’. Gordon è stato assassinato e Harvey è riuscito a rappresentare il suo spettacolo.”

“Sarebbe stato lui a uccidere il sindaco?” chiesi.

Derek era perplesso.

“Non so,” rispose. “Mi sembra piuttosto esagerato ammazzare il sindaco, la sua famiglia e una povera passante solo per uno spettacolo teatrale.”

“Harvey era il comandante della polizia,” gli fece notare Anna. “La Padalin potrebbe averlo riconosciuto vedendolo uscire dalla casa dei Gordon, e lui non avrebbe avuto altra scelta che uccidere anche lei. Mi pare che l’ipotesi regga.”

“Macché!” disse scettico Derek. “Secondo te il 26 luglio, prima di dare inizio allo spettacolo, Harvey prenderà il microfono e annuncerà alla sala: ‘Signore e signori, sono stato io a massacrarli tutti’?”

Risi immaginandomi la scena. “Harvey è abbastanza folle da farlo,” dissi.

Derek guardò la lavagna magnetica sulla quale aggiungevamo gli elementi man mano che l’indagine procedeva.

“Ormai sappiamo che i soldi del sindaco provenivano da tangenti versate da imprenditori locali e non da Ted Tennenbaum,” disse. “Ma allora vorrei tanto sapere a cosa servivano le ingenti somme che Tennenbaum prelevava dal proprio conto, visto che non erano destinate a Gordon.”

“Comunque,” dissi, “c’è sempre la faccenda del suo veicolo nei pressi della casa del sindaco nello stesso orario degli omicidi. Si trattava proprio del suo camioncino: la nostra testimone è stata categorica. Leonard ha potuto confermarvi che Tennenbaum si era assentato dal Grand Theater a quell’ora, come avevamo accertato all’epoca?”

“Sì, Jesse, ce l’ha confermato senza ombra di dubbio. Ma pare che non fosse l’unico a essere misteriosamente scomparso dal teatro in quella mezz’ora. Perché Charlotte, che recitava con la sua compagnia, e che era anche l’amichetta di Harvey...”

“La splendida amichetta che l’ha piantato?”

“Proprio lei. Ebbene, Leonard dice che quella sera Charlotte si è assentata dalle 19 alle 19:30. Cioè, al momento degli omicidi. E che è tornata in teatro con le scarpe bagnate.”

“Intendi bagnate com’era bagnato il prato del sindaco Gordon per via del tubo rotto?” chiesi.

“Esatto,” disse con un sorriso Derek, divertito che ricordassi quel particolare. “Ma aspetta, non è tutto: la Charlotte in questione lasciò Harvey per mettersi con Alan Brown. Si sono follemente innamorati e hanno finito per sposarsi. E lo sono tuttora, tra l’altro.”

“Questa sì che è una rivelazione!” esclamai.

Guardai i documenti che avevamo trovato nel deposito di Stephanie e attaccato alla lavagna magnetica. C’erano il suo biglietto d’aereo per Los Angeles e il foglio con scritto: “Trovare Kirk Harvey.” Quello l’avevamo fatto, ma Harvey le aveva forse detto più di quanto avesse detto a noi? Poi il mio sguardo si posò sul ritaglio della prima pagina del “Chronicle” con la foto cerchiata di rosso, in cui c’eravamo Derek e io che guardavamo il cadavere della Padalin coperto da un lenzuolo. Proprio dietro di noi si vedevano Kirk Harvey e Alan Brown. Si stavano guardando. O forse stavano dicendosi qualcosa. Osservai meglio e notai la mano di Brown. Il pollice, l’indice e il medio erano alzati, come per indicare il numero 3. Era un segnale per qualcuno? Per Harvey? Sotto la foto, c’era la frase che Stephanie aveva scritto con il pennarello rosso: “Ciò che nessuno ha visto.”

“Che c’è?” mi chiese Derek.

“Qual è il comune denominatore tra Kirk Harvey e Alan Brown?” gli chiesi a mia volta.

“Charlotte Brown,” rispose.

“Esatto,” confermai. “All’epoca gli esperti assicuravano che si trattasse di un uomo, ma non potrebbero essersi sbagliati? L’omicida non potrebbe essere una donna? È questo che non abbiamo visto nel 1994?”

Poi passammo a visionare il video dello spettacolo del 1994. La qualità dell’immagine non era granché e l’inquadratura era fissa. Si vedeva solo il palcoscenico, il pubblico era fuori campo. La ripresa iniziava con la cerimonia inaugurale. Si vedeva il vicesindaco Alan Brown salire sul palco con aria imbarazzata e avvicinarsi al microfono. C’era una breve pausa, durante la quale Brown si tormentava il colletto della camicia come se avesse caldo. Poi estraeva dalla tasca un foglio di carta sul quale doveva aver preso appunti in fretta e furia mentre era seduto in platea. “Signore e signori,” diceva, “prendo la parola al posto del sindaco Gordon, che stasera non è con noi. Poiché pensavo che ci avrebbe raggiunto, purtroppo non ho potuto preparare un vero discorso. Perciò mi limiterò a dare il benvenuto a...”

“Stop,” gridò improvvisamente Anna a Derek, per fargli mettere in pausa la cassetta. “Guardate!”

L’immagine si bloccò. Si vedeva Alan Brown solo sul palco e con il foglio in mano. Anna si alzò dalla sedia per andare a prendere un’immagine dalla lavagna magnetica, trovata anch’essa nel deposito di mobili. Si trattava esattamente della stessa scena: Brown davanti al microfono, con in mano il foglio, che Stephanie aveva cerchiato con il pennarello rosso.

“Quest’immagine è tratta dal video,” disse Anna.

“Quindi Stephanie ha visto questo video,” mormorai. “Chi gliel’ha procurato?”

“Stephanie è morta, ma è sempre un passo avanti rispetto a noi,” sospirò Derek. “E perché avrà cerchiato il foglio?”

Ascoltammo il resto del discorso, ma non vi trovammo nulla di interessante. Stephanie aveva cerchiato il foglio per il discorso pronunciato da Brown o per ciò che era scritto su quel pezzo di carta?

* * *

Ostrovski stava camminando lungo Bendham Road. Non riusciva a mettersi in contatto con Stephanie: il suo cellulare era sempre staccato. Aveva cambiato numero? Perché non rispondeva? Allora decise di andare a trovarla a casa. Seguì la progressione dei numeri civici, verificando ancora una volta l’indirizzo appuntato su un taccuino con la copertina di cuoio da cui non si separava mai. Arrivò infine davanti al numero 77 e si fermò, sgomento: sembrava che nell’edificio fosse scoppiato un incendio; l’accesso era impedito da nastri di polizia.

Scorse un’autopattuglia che risaliva lentamente la strada e fece segno al poliziotto al volante.

Il vicecomandante Montagne fermò l’auto e abbassò il finestrino.

“Qualche problema, signore?” chiese a Ostrovski.

“Cos’è successo?”

“C’è stato un incendio. Perché?”

“Sto cercando una persona che abita in quella casa. Si chiama Stephanie Mailer.”

“Stephanie Mailer? Ma è stata assassinata, lo sanno tutti!”

Ostrovski rimase di sasso. Montagne richiuse il finestrino e avviò l’auto verso la strada principale. A un tratto la sua ricetrasmittente annunciò un alterco di coppia nel parcheggio del porto. Era lì vicino. Il sergente disse all’operatore che si sarebbe recato immediatamente sul posto e accese il lampeggiatore. Dopo un minuto, arrivò nel parcheggio, al centro del quale era ferma una Porsche nera con gli sportelli aperti: una ragazza stava correndo verso il molo, goffamente inseguita da un tizio alto che, a giudicare dall’età, poteva essere suo padre. Montagne azionò per qualche istante la sirena: uno stormo di gabbiani si alzò in volo, e la coppia si arrestò all’istante. La ragazza si voltò a guardare con aria divertita.

“Complimenti, Dakota!” gridò Jerry Eden. “Ecco che arrivano i piedipiatti! Cominciamo bene!”

“Polizia di Orphea, non si muova!” gli intimò Montagne. “Abbiamo ricevuto la segnalazione di un alterco di coppia.”

“Di coppia?” ripeté Jerry, sbalordito. “Questa è bella! Lei è mia figlia!”

“Quest’uomo è tuo padre?” chiese Montagne alla ragazza.

“Purtroppo sì, signore.”

“Da dove venite?”

“Da Manhattan,” rispose Jerry.

Montagne controllò i loro documenti e chiese a Dakota:

“Perché correvi in quel modo?”

“Volevo scappare.”

“Scappare da cosa?”

“Dalla vita, signore.”

“Tuo padre ti ha violentata?” le chiese il sergente.

“Violentarla, io?” trasecolò Jerry.

“Mi faccia la cortesia di tacere,” gli disse seccamente Montagne. “Non sto parlando con lei.”

Prese in disparte Dakota e le fece di nuovo quella domanda. Lei scoppiò a piangere.

“No, certo che no: mio padre non mi ha toccata,” disse tra un singhiozzo e l’altro.

“Allora perché sei ridotta così?”

“È da un anno che sono ridotta così.”

“Perché?”

“Oh, sarebbe troppo lungo da spiegare.”

Montagne non insistette e li lasciò risalire in macchina.

“Ecco cosa si ottiene a fare figli!” gridò Jerry, chiudendo con forza lo sportello della Porsche, per poi mettere in moto e lasciare il parcheggio rombando. Dopo qualche minuto, arrivò con Dakota al Lake Palace, dove aveva prenotato una suite. Con una sorta di lunga processione rituale, i facchini li accompagnarono nella suite 308.

Nella suite attigua, la 310, Ostrovski, che era appena rientrato in albergo, si sedette sul letto tenendo tra le mani la foto incorniciata di una ragazza dal viso radioso. Era Meghan Padalin. Il critico osservò a lungo la fotografia, poi mormorò: “Scoprirò chi è stato. Te lo giuro.” Poi baciò il vetro che li separava.

Nella suite 312, mentre Alice era in bagno, Steven Bergdorf rifletteva con una luce febbrile negli occhi: barattare uno spettacolo teatrale con rivelazioni investigative era una novità senza precedenti nella storia della cultura. Il suo istinto gli suggeriva di fermarsi per un po’ a Orphea. Non solo per soddisfare il suo zelo giornalistico, ma anche perché riteneva che qualche giorno supplementare negli Hamptons gli avrebbe dato il tempo per sistemare la vicenda sentimentale con Alice. Uscì in terrazza per telefonare in tutta tranquillità al vicedirettore del “Magazine”, Skip Nalan.

“Mancherò qualche giorno per coprire l’affare del secolo,” disse a Nalan, e gli spiegò ciò cui aveva appena assistito. “Un ex comandante della polizia diventato drammaturgo e regista mette in scena il suo spettacolo in cambio di rivelazioni su un delitto commesso vent’anni fa e che tutti credevano risolto. Farò un reportage sul campo così avvincente che la rivista andrà a ruba. Triplicheremo le vendite!”

“Prenditi tutto il tempo che ti serve,” rispose Nalan. “Pensi che sia roba seria?”

“Seria? Non immagini quanto! È una cosa enorme.”

Poi telefonò alla moglie, e le disse che si sarebbe trattenuto qualche giorno a Orphea per gli stessi motivi che aveva spiegato a Nalan qualche istante prima. Dopo un attimo di silenzio, Tracy gli chiese con voce preoccupata:

“Steven, cosa sta succedendo?”

“Un fantastico spettacolo teatrale, tesoro, te l’ho appena detto. È un’opportunità unica per il ‘Magazine’. Come sai, ultimamente gli abbonamenti sono in caduta libera.”

“No,” riprese lei, “quello che intendevo è: cosa sta succedendo a te? C’è qualcosa che non va e lo vedo benissimo. Non sei più lo stesso. Hanno telefonato dalla banca e dicono che il tuo conto è in rosso.”

“Il mio conto?” ripeté Bergdorf, con voce strozzata.

“Sì, il tuo conto corrente,” confermò Tracy.

Era troppo tranquilla per sapere che anche il conto-deposito della famiglia era stato svuotato. Ma era solo questione di tempo: presto l’avrebbe scoperto. Bergdorf si sforzò di mantenere la calma.

“Sì, lo so. Poi hanno chiamato anche me e abbiamo chiarito tutto. Avevano sbagliato a riportare una transazione. Va tutto bene.”

“Fa’ quello che devi fare a Orphea, Steven. Spero che poi andrà meglio.”

“Andrà molto meglio, Tracy. Te lo prometto.”

Riattaccò. Quello spettacolo teatrale era una manna dal cielo: così avrebbe potuto sistemare tutto serenamente con Alice. Prima era stato troppo brutale. E, soprattutto, poco elegante: fare un discorso del genere in macchina! Adesso invece le avrebbe spiegato tutto con comodo, e lei avrebbe capito. Non ci sarebbe stato più bisogno di ucciderla. Tutto si sarebbe risolto.