Derek Scott
30 luglio 1994. La sera del quadruplice omicidio.
Erano le 20:55 quando arrivammo a Orphea. Avevamo attraversato Long Island a tempo di record.
Sbucammo a sirene spiegate all’angolo della strada principale, chiusa al traffico per l’inaugurazione del festival teatrale. Un’auto della polizia locale, parcheggiata davanti alle transenne, ci fece strada nel quartiere di Penfield. La zona era stata isolata ed era invasa da autopattuglie e ambulanze giunte anche dalle cittadine vicine. Penfield Lane era delimitata da nastri della polizia, dietro i quali si accalcavano i curiosi affluiti dalla strada principale per non perdersi neppure una briciola dello spettacolo che si offriva ai loro occhi.
Jesse e io eravamo i primi agenti dell’anticrimine arrivati sul posto. Ad accoglierci fu Kirk Harvey, il comandante della polizia di Orphea.
“Sono il sergente Derek Scott della polizia di stato,” dissi, mostrando il distintivo, “e lui è il mio vice, l’ispettore Jesse Rosenberg.”
“Kirk Harvey,” si presentò il comandante, chiaramente contento di poter passare la patata bollente a qualcun altro. “Vi confesso che non so più dove mettere le mani. Non abbiamo mai avuto a che fare con delitti del genere. Ci sono quattro morti. Una vera carneficina.”
Intorno a noi c’erano poliziotti che correvano qua e là urlando ordini e contrordini. Essendo il più alto in grado, decisi di prendere in pugno la situazione.
“Bisogna chiudere tutte le strade,” intimai al comandante Harvey. “Faccia mettere dei posti di blocco. Chiederò rinforzi alla stradale e a tutte le unità della polizia di stato disponibili.”
A una ventina di passi da noi, sull’asfalto, giaceva il cadavere di una donna in abbigliamento sportivo, immersa nel proprio sangue. Ci avvicinammo lentamente. Accanto a lei c’era un agente che evitava accuratamente di guardarla.
“L’ha trovata il marito, che adesso è in quell’ambulanza laggiù, se volete interrogarlo. Ma la parte più agghiacciante è lì dentro,” disse, indicando la casa di fronte a noi. “Un bambino e sua madre...”
Ci dirigemmo subito verso la casa. Per non perdere tempo, decidemmo di passare per il prato, e ci ritrovammo con i piedi a mollo in quattro dita d’acqua.
“Merda!” imprecai. “Mi sono bagnato le scarpe, imbratterò dappertutto. Come mai c’è tutta questa melma? È da settimane che non piove.”
“Si è rotto il tubo dell’irrigatore automatico,” rispose il poliziotto che piantonava l’ingresso. “Stiamo cercando di chiudere l’acqua.”
“Non toccate niente,” ordinai. “Dobbiamo lasciare tutto com’è, finché non arrivano quelli della scientifica. E mettete dei nastri di delimitazione ai due lati del giardino: non voglio che la scena del delitto venga contaminata da fango e acqua.”
Mi asciugai alla bell’e meglio le suole delle scarpe sui gradini della veranda. Poi entrammo in casa: la porta era stata sfondata a calci. Davanti a noi, nel corridoio, giaceva una donna crivellata di proiettili. Accanto a lei c’era una valigia aperta, riempita a metà. A destra, un piccolo soggiorno nel quale si vedeva il corpo di un bambino di una decina d’anni, anche lui ucciso da un’arma da fuoco e accasciato tra le tende della finestra, come se l’assassino l’avesse falciato mentre cercava di nascondersi. In cucina c’era un uomo sulla quarantina, disteso sul ventre in un’agghiacciante pozza di sangue: ammazzato mentre tentava di scappare.
Il tanfo di morte, di budella e di sangue era insopportabile. Uscimmo subito dalla casa, pallidi e scioccati da ciò che avevamo appena visto.
Dopo qualche istante ci chiamarono nel garage. Due poliziotti avevano trovato altre valigie nel bagagliaio dell’auto. Evidentemente, il sindaco e la sua famiglia si accingevano a partire.
La notte era calda, e il giovane vicesindaco Brown sudava nel suo elegante completo mentre percorreva la strada principale più in fretta che poteva, aprendosi un varco nella ressa. Aveva lasciato il teatro appena era stato informato di ciò che era successo, e aveva deciso di raggiungere Penfield Crescent a piedi, convinto di metterci meno che in macchina. Aveva ragione: il centro di Orphea, nero di folla, era impraticabile. All’angolo di Durham Street, alcuni concittadini, allarmati da voci inquietanti, lo videro e lo circondarono per avere notizie: lui non rispose e si mise a correre. Svoltò a destra all’altezza di Bendham Road e proseguì fino alla zona residenziale. Attraversò strade deserte fiancheggiate da case buie, e poi notò in lontananza una certa agitazione. Man mano che si avvicinava, vedeva un alone di luci sempre più intense solcato dai bagliori dei lampeggianti delle autopattuglie. La folla di curiosi andava infittendosi. Alcuni lo chiamarono, ma lui li ignorò e continuò a correre. Si fece largo fino al nastro che delimitava la scena del delitto. Il vicecomandante Gulliver, vedendolo, sollevò il nastro per farlo passare. Alan Brown rimase come inebetito dalla scena: il rumore, le luci, un corpo coperto da un lenzuolo bianco sul marciapiede... Non sapeva dove dirigersi. Poi notò con sollievo il volto familiare di Kirk Harvey, il comandante della polizia di Orphea, con il quale Jesse e io stavamo parlando.
“Kirk!” disse il vicesindaco Brown, precipitandosi verso il comandante. “Cosa sta succedendo, in nome del cielo? È vero quello che dicono? Joseph e la sua famiglia sono stati assassinati?”
“Proprio così, Alan,” rispose in tono grave Harvey, indicando con il mento la casa da cui andavano e venivano decine di poliziotti. “Li hanno trovati tutti e tre morti lì dentro. Un massacro.”
Poi Harvey ci presentò al vicesindaco.
“Avete già una pista? Qualche indizio?” ci chiese Brown.
“Al momento non sappiamo niente,” risposi. “Ma mi colpisce che sia successo proprio la sera dell’inaugurazione del festival.”
“Pensa che le due cose siano collegate?”
“È troppo presto per dirlo. D’altronde, non capisco come mai il sindaco fosse in casa. Non avrebbe dovuto essere al Grand Theater?”
“Sì, avevamo appuntamento alle 19. Non vedendolo arrivare, ho provato a chiamarlo a casa, ma non ha risposto nessuno. Dato che lo spettacolo doveva cominciare, ho improvvisato il discorso inaugurale e la poltrona del sindaco è rimasta vuota. Poi, durante l’intervallo, mi hanno detto cos’era successo.”
“Alan,” disse il comandante Harvey, “abbiamo trovato dei bagagli nell’auto del sindaco. Pare che lui e la famiglia fossero in partenza.”
“In partenza? Che significa: ‘In partenza’? Quale partenza?”
“Stiamo vagliando tutte le ipotesi,” risposi. “Ultimamente il sindaco le era sembrato preoccupato? Le ha detto di avere ricevuto minacce? Temeva per la propria incolumità?”
“Minacce? No, non mi ha mai detto niente del genere. Posso... Posso andare a dare un’occhiata?”
“Meglio evitare di contaminare la scena del delitto,” lo dissuase Harvey. “E comunque, non è un bello spettacolo, Alan. Una vera carneficina. Il bambino è stato ucciso nel soggiorno; Leslie, la moglie, nel corridoio; e Joseph in cucina.”
Il vicesindaco Brown vacillò. Le gambe gli cedettero: si sedette sul marciapiede e il suo sguardo tornò a posarsi sul lenzuolo bianco a qualche decina di passi da lui.
“Ma se sono morti tutti nella casa, lì chi c’è?”
“Una povera giovane, Meghan Padalin,” risposi. “Stava facendo jogging. Dev’essere passata davanti alla casa mentre l’assassino stava uscendo, e così è stata uccisa anche lei.”
“È pazzesco!” disse il vicesindaco, affondando il viso tra le mani. “È un incubo!”
In quell’istante ci raggiunse il vicecomandante della polizia, Ron Gulliver, che si rivolse direttamente a Brown:
“I giornalisti continuano a porre domande. È il caso che qualcuno faccia una dichiarazione per la stampa.”
“Non... Non credo di poter affrontare una cosa del genere,” farfugliò il vicesindaco, pallidissimo.
“Devi farlo, Alan,” disse il comandante Harvey. “Ormai sei tu il sindaco di questa città.”