Capitolo diciassette
Ricordo ancora un passaggio di quella sconclusionata Guida per tutti. “Le stravaganze, le avventure e l’amore costituiscono la vera attività commerciale della Torre.” Non riesco a immaginare un terzetto meno esatto. Del resto chi, sano di mente, sarebbe mai venuto in visita ci fosse stato scritto: “La vera attività commerciale della Torre è costituita da tirannia, smembramenti e crepacuore”?
La Torre di tutti, i travagli di
uno
T. Senlin
La neve rivelava la forma del vento. Senlin guardava le folate nette che strattonavano le fiamme che dal Fringuello d’oro erano balzate nel porto. Nutrendosi della polvere di carbone che rivestiva la banchina, il fuoco avvampava verso la Torre. L’incendio presto divise i facchini: una metà scappò verso la galleria prima che le fiamme sbarrassero quella via di fuga, l’altra metà rimase nel porto, sotto l’ombra cupa della nave da guerra del commissario.
I cannoni sul ponte dell’Ararat spararono una raffica di arpioni sulla banchina, e per un attimo sembrò che un mostruoso nautilo stesse tentando di afferrare il porto con la sua massa di tentacoli. Poi le picche d’arrembaggio si conficcarono nelle travi di legno e le funi penzolanti si tesero.
Agenti in giacca blu saettarono lungo le cime, appesi a carrucole che si ammassarono in fondo alle funi come le sfere di un abaco. Non appena ebbero toccato terra con gli stivali, sguainarono le sciabole, e nel giro di pochi secondi il commissario ebbe un plotone nel Porto di Goll.
Gli agenti, in netto contrasto con gli uomini del porto, erano adornati tutti allo stesso modo, con spalline e galloni dorati, e apparivano professionali e calmi, facendo agitare i rimanenti macchinisti di Rodion e i facchini di Goll. Se non fosse stato per Iren, i difensori raffazzonati sarebbero fuggiti, anche tra le fiamme. Roteando al suo fianco la catena con l’uncino, l’amazzone li radunò e li riportò verso la battaglia.
Goll era svanito. Per Senlin la fuga del piccolo capo non fu una sorpresa. Era sopravvissuto alla Torre per merito della sua astuzia, non dei suoi pugni. E comunque non bisognava essere molto perspicaci per accorgersi di quanto la situazione fosse disperata.
Momentaneamente dimenticato nel mezzo della nuova guerra, Senlin afferrò Adam per un braccio e disse: «Con te facciamo i conti dopo. Adesso non c’è tempo. Vai alla nave. Rifornisci il bruciatore. Tieniti pronto a partire appena saliamo a bordo».
«Cosa intendi fare?»
«Assicurarmi che Iren venga con noi.»
Adam, che pochi attimi prima era stato certo che l’amazzone stesse per colpirlo a morte, non fu entusiasta della cosa. «Lasciala. È una bestia.»
Senlin afferrò il giovane per il bavero e lo tirò tanto vicino che Adam riuscì a sentire la forza del fiato del direttore quando gli ordinò: «Di’ signorsì». Il ragazzo aveva gli occhi sbarrati e lucidi di paura: non aveva mai visto prima quel lato di Senlin. Dal canto suo, Senlin sapeva di non potersi più permettere di negoziare e spiegargli ogni azione e passaggio. O Adam obbediva in quel momento, o non l’avrebbe fatto mai. Prima si stabiliva la cosa, meglio era.
Restarono quasi naso a naso per un istante, poi Adam ripeté la frase, aggiungendo una parola che aveva già usato in precedenza, ma senza esserne davvero convinto: «Signorsì, capitano».
Quando Senlin recuperò l’aerobarra nella neve che continuava ad accumularsi e si unì alla lotta, fu evidente che si trovava dalla parte sbagliata di una disfatta. Gli uomini di Rodion, già feriti ed esausti dallo scontro con la ciurma della Nube di pietra e demoralizzati per la perdita del loro capo, caddero rapidamente al cospetto degli agenti del commissario. I facchini se la cavarono appena meglio. Il loro coraggio fu stroncato dall’organizzazione del nemico. Erano abituati ad azzuffarsi nello scalo o a caricare come una folla inferocita, tattiche entrambe inutili di fronte a una forza superiore per numero e addestramento.
Soltanto Iren dava loro speranza contro l’assalto furioso. Da sola era più devastante di una fila di fucilieri. Il suo grembiule di cuoio si allargava mentre le braccia robuste infondevano vita alla catena. Gli agenti che si erano ritrovati nella traiettoria dell’uncino sembravano caduti sotto una sega circolare. Tentarono di stringersi attorno all’amazzone, ma lei rifiutava di restare ferma e finire sotto la calca. Saltava ovunque, come una trottola impazzita, agile quasi quanto Voleta. Per due volte un agente le sparò, e due volte il proiettile giunse in ritardo, tentando di colpire la sua sagoma sfocata. Attraversò invece l’aria e trovò un altro agente in cui affondare.
Senlin non riusciva a raggiungerla. Ogni volta che pensava di essersi aperto un varco, quello veniva ostruito da agenti in ritirata che si stringevano arti insanguinati. Tentavano disperatamente di allontanarsi da Iren e dalla sua elica devastante. Pesino in mezzo al caos, Senlin non smetteva di ammirarne la grazia, seppur raccapricciante.
Nel guardarla combattere, rivide tutti gli insegnamenti che gli aveva inculcato, combinati in un unico e fluido riflesso. A lungo aveva creduto che fosse stata troppo dura con lui quando si erano allenati, ma in quel momento capì che lo aveva trattato con cautela. Era stato come un cucciolo nelle fauci di una leonessa.
Era una maestra della violenza. E stava vincendo la battaglia.
Poi una figura familiare, sgraziata, si arrampicò oltre il bastione dell’Ararat. Il ventre rotondo e gli arti filiformi, il largo cappello di paglia e gli abiti di lino bianco erano inconfondibili. Lo spettro lasciò la teleferica mentre si trovava ancora a sei metri da terra. Atterrò accucciato nello spiazzo che Iren si era ritagliata tra le file di agenti, che allargarono ancora di più il cerchio, come la bocca di un serpente che si dilata per fare spazio all’apparizione dei denti. La Mano Rossa si raddrizzò e disse: «Lo sai che è solo la terza volta in questo secolo che nevica nella Valle di Babele? È davvero raro. Sono lieto che tu abbia potuto assistervi».
La neve scendeva copiosa. Aveva iniziato a spegnere i fuochi che lambivano inutilmente la facciata di pietra della Torre. Senlin voleva sperare che ciò aprisse la porta ai rinforzi, ma sembrava più probabile che aprisse invece la porta alla fuga. Almeno per il momento, i pochi faccini ancora in piedi parevano intenti a guardare l’imminente scontro tra il campione del porto e il cane da guardia del commissario. Nemmeno loro erano immuni all’orgoglio locale.
I due gladiatori non avrebbero potuto essere più diversi. Iren roteò la catena sopra la testa finché, tesa dalla sua stessa velocità, il tintinnio non divenne un nitido accordo musicale. La Mano Rossa regolò le chiavette sulla fascia metallica. Le fiale di siero rosso, luminoso, avvamparono svuotandosi nel suo braccio. Sembrava tranquillo, come un uomo che carica un vecchio e pregiato orologio. Muovendosi in cerchio, Iren tracciava eleganti figure nella neve. La Mano Rossa unì le dita dietro la schiena e sembrò brillare un po’ più intensamente.
Se il sicario stava cercando di indurla a non considerarlo un rivale degno e feroce, non funzionò. Iren fece scattare la catena all’altezza dell’anca dell’assassino, intenzionata a spezzarlo a metà.
La Mano Rossa si abbassò a terra, come se fosse stata risucchiata dal terreno, e la catena sibilò sopra il suo corpo, inoffensiva. Prima che l’uncino avesse fatto ritorno nella mano di Iren, il boia era già saltato di nuovo in piedi.
«Siamo sul lato sottovento delle montagne» disse. «Il ferro si estrae più facilmente su questo lato per via della storica penuria di vegetazione che si trasforma in terreno e sotterra la roccia. Per non parlare, certo, della scarsità di pioggia e vento.»
Iren si mosse ancora. Fece roteare un’altra volta la catena, sempre più veloce, finché non le si gonfiarono le vene del braccio, sollevato come un pilastro, e i tendini della mascella non si tesero all’inverosimile. Scagliò l’arma verso l’assassino con un grugnito esplosivo, l’uncino in traiettoria obliqua, diretto nel punto tra la spalla e il collo.
La Mano Rossa si inclinò all’indietro, un movimento impercettibile ma efficace, e afferrò la catena a mezz’aria, mentre lo superava e cominciava a rallentare. La tirò bruscamente e Iren, sbilanciata, gli cadde addosso. Le centrò il mento con quello che sembrava un semplice montante, ma il risultato fu drammatico. Il colpo la scaraventò in aria. Rimbalzò sulle scapole e scivolò per tre metri nella neve, distesa sulla schiena.
Ebbe a malapena il tempo di abbassare il mento sul petto prima che la Mano Rossa le saltasse addosso. Iren si spostò rapidamente, evitando che il sicario le schiacciasse le costole con le ginocchia. Agganciando le gambe alle sue, lo ribaltò sotto di sé. Lo afferrò per il collo e iniziò a colpirlo alla testa senza pietà. Puro martellamento, come un fabbro che percuote in fretta una sbarra di ferro prima che si raffreddi. Il cappello volò via dalla testa dell’assassino, mettendo in mostra i capelli biondi, da bambino. La Mano Rossa sembrò momentaneamente intontita, vulnerabile. Il sorrisetto distaccato era sparito, le labbra erano contratte per proteggere i denti.
Il vantaggio di Iren durò poco; i colpi che avrebbero ucciso chiunque altro fecero solo ribollire il sangue della Mano Rossa, che riuscì a liberare un braccio da sotto il ginocchio dell’amazzone, dove lei l’aveva immobilizzato, e le afferrò il polso con la risolutezza di una morsa. Ruotò la presa con tanta forza che la gigantessa, pur riuscendo a convogliare lo slancio in una capriola difensiva, venne scaraventata via.
Separati, si rimisero in piedi. Iren estrasse un coltello dalla cintura e lo scagliò contro il suo rivale. L’arma sprofondò, tremolante, per cinque centimetri nella sua carne, appena sotto lo sterno. Gli agenti tutt’intorno trattennero il fiato all’unisono. A Senlin balzò il cuore in gola mentre allungava il collo al di sopra del muro di spettatori. Ce l’aveva fatta! Di certo quello era un colpo fatale. Aspettavano tutti che si accasciasse. Ma così non fu. La Mano Rossa grugnì, come un uomo scosso da un sonno profondo, e si strappò la lama dal petto. Venne via facilmente, come fosse stata una spina.
La ferita stillò sangue luminoso per un breve istante. «Il ferro può essere temprato in acciaio, oppure può essere limato e poi trasformato nel più leggero dei gas: l’idrogeno. Ciò illustra il paradosso della coscienza: siamo vapore allo stato solido.»
D’istinto Iren ruotò togliendosi dalla traiettoria quando la Mano Rossa le restituì la punta proprio come l’aveva ricevuta. Le mancò la testa di un soffio.
Il sicario balzò, quasi fosse stato scagliato da una catapulta. Volando sopra la testa dell’amazzone, la afferrò per le spalle e la trascinò con sé, come se pesasse poco più di un mantello. Quando la Mano Rossa appoggiò di nuovo i piedi a terra, Iren venne scaraventata verso l’alto. Atterrò di schiena sull’impalcatura fumante di una gru bruciacchiata. La struttura, già indebolita dall’incendio, le crollò addosso. Sarebbe stata sicuramente bruciata viva se la neve non avesse da poco domato le fiamme.
Senlin riusciva solo a vedere i suoi stivali che sporgevano senza vita dal cumulo di legno carbonizzato.
Si voltò per fuggire, ma fu immediatamente afferrato da dietro da due agenti, che gli presero un braccio ciascuno. Lo fecero girare e lo portarono di peso verso l’Ararat. La Mano Rossa si strofinò scocciata la macchia di sangue che le sporcava la camicia. Ritrovò il cappello, sgualcito ma non strappato, e se lo rimise in testa. Dalla base della fortezza fluttuante si allungò un ponte mobile, il cui bordo sfregava avanti e indietro lungo il molo, mentre l’immenso vascello lottava per restare fermo nel mezzo della tempesta. Il commissario Pound, con indosso un austero abito nero e la sua mostruosa maschera antigas, attraversò spedito il ponte. Senlin fu costretto a fronteggiare il tiranno ipocondriaco, che in piedi, con disinvoltura, si stringeva le dita dei guanti e ispezionava il campo di battaglia.
«Setacciate il porto. Portatemi qualsiasi carico troviate!» ordinò ai suoi, poi, rivolgendosi a Senlin, disse: «Se solo sapessi chi hai infastidito con questa marachella idiota». La sua voce ronzava attraverso le zanne in foglia d’oro smussate della maschera. «Non mi è nemmeno permesso ucciderti, perché c’è un lungo e illustre elenco di uomini che vuole contribuire alla tua fine. Immagino che dovranno organizzare una lotteria o tirare a sorte per aggiudicarsi la soddisfazione di sezionarti.»
Senlin alzò le spalle quasi con modestia, come se fosse piacevolmente stupito da tutta quell’attenzione. «Magari potreste tenere un’asta. So quanto le adorate, voi collezionisti d’arte. Quale modo migliore per gonfiare il prezzo dell’opera di un povero artista?» Fissò lo sguardo nelle lenti oscurate della maschera come se potesse vedere l’ampia fronte, la pelle femminea e gli occhi privi di colore. Voleva che il commissario sapesse che non aveva paura. «Il mio crimine è stato restituire una creazione al suo creatore.»
Un suono simile al richiamo di una cornacchia esplose dalla maschera, poi si ripeté tre volte. Il commissario stava ridendo di lui. Si piegò in due e scosse la testa. «Stai parlando di quel terribile dilettante gobbo? Non ha dipinto lui il capolavoro!»
«Ma certo che sì. Era firmato. E ho visto le altre sue opere. Si chiamava Ogier, o si tratta di una qualche incredibile coincidenza?»
«Era un impostore e un falsario che si era innamorato della sua farsa! Si era spinto al punto da ricreare lo studio del vero Ogier sopra quella maledetta profumeria in modo che tutti i suoi dipinti puzzassero come gli originali.» Il commissario era ancora di buon umore, chiaramente gongolava per la confusione di Senlin. «Il dipinto che hai rubato ha cent’anni.»
«Allora perché mi ha chiesto di rubarlo?» domandò Senlin, la cui sicurezza si stava tramutando in perplessità.
«Ah» disse il commissario, avvicinandosi e dandogli una pacca sul petto, con fare distaccato, come a un vecchio cavallo.
Senlin non riusciva più a immaginare l’espressione del viso nascosto di Pound. Vedeva solo il proprio riflesso nelle lenti del commissario. Non era più grande di un’immagine in un medaglione.
«Questo è il punto: perché ti ha chiesto di rubarlo? E perché non se l’è tenuto? Perché restituirtelo?»
Senlin recuperò la sfuggente padronanza di sé e disse: «Avresti dovuto domandarlo a lui».
Il commissario arretrò. «Oh, volevo farlo, anche se ho un’idea abbastanza precisa della risposta. Questa è una vecchia faida. In ogni caso mi sarebbe piaciuto conversare con il pittore, ma sai com’è, signor Senlin, a volte un falconiere non può impedire che il suo falcone riduca a brandelli la lepre.» Fece un cenno del capo verso la Mano Rossa, che proprio in quel momento stava emergendo dalla neve.
Reggeva sottobraccio la cassa di Senlin. La appoggiò con grande cautela ai piedi del commissario. «L’ho trovata al centro di un bel po’ di attenzione. C’erano un cerchio di tracce e un cadavere.»
«Aprila» disse il commissario.
Senlin era disorientato dalla rivelazione che Ogier era un impostore, ma non aveva tempo di rifletterci. Era concentrato sulla cassa con la trappola e sulla Mano Rossa che incombeva su di essa.
Il sicario, che ovviamente non aveva bisogno di attrezzi per sollevare il coperchio inchiodato, lo tirò via delicatamente. Si ritrovò davanti un mucchietto di paglia, e cominciò a strappare l’imbottitura dalla cassa finché non rivelò il bordo di una tela. Mentre la Mano Rossa lavorava, nuvolette di polvere bianca turbinavano nell’aria, mescolandosi con la neve. Nessuno, a parte Senlin, sembrò notarne la presenza. Aveva cosparso la paglia da imballaggio con abbastanza polvere da drogare cento uomini. Trattenne il fiato.
La Mano Rossa liberò il dipinto e lo girò verso il commissario. La voce di Pound si incrinò, piena di rabbia. «Cos’è questo?» Afferrò il quadro e lo spinse davanti alla faccia di Senlin che, credendo di essere sul punto di essere colpito, ansimò. Un familiare pizzicore gli si insinuò nelle narici e gli scese in gola. Rabbrividì. La sua intenzione era di usare il Chrom Bianco come ultimo disperato attacco alle facoltà mentali dei suoi nemici. Finire esposto a sua volta al potente stupefacente non era parte del piano.
Prima che il commissario potesse interrogare ancora Senlin, la Mano Rossa arretrò vacillando con un grugnito selvaggio, cogliendo tutti di sorpresa. «Chi va là?» gridò. Con lo sguardo vitreo seguiva spettri invisibili. Sussultò e schiaffeggiò l’aria, ritraendosi da un suono che nessun altro era in grado di sentire. Il commissario sbraitò per cercare di far ritornare in sé il suo assassino, ma la mente della Mano Rossa ormai era in un luogo irraggiungibile. Arretrò addosso a un agente, paralizzato dal terrore. Il sicario trasalì, si girò di scatto, afferrò la testa dell’uomo e la torse, finché il mento non fu sulla spina dorsale. Il poverino cadde a terra come uno straccio bagnato.
La situazione precipitò rapidamente nel caos. La Mano Rossa dilaniava le fila dei suoi compatrioti, la sua forza fuori dal comune intensificata dal delirio. Usava uomini come mazze, sbattendoli uno contro l’altro, fino a che entrambi non erano altro che gusci privi di vita. Ne buttava altri giù dal porto come se fossero privi di ossa e peso. La neve diventava rossa mentre il calore sprigionato dai mutilati e dai morti la trasformava in fanghiglia.
La Mano Rossa gridò: «Chi va là?» più e più volte, benché nessuno osasse rispondergli. Vennero sparati alcuni colpi e brandite le spade, ma ciò non fece altro che incrementare la violenza, il panico che causava fuoco amico e colpi a casaccio.
Gli uomini che tenevano Senlin non lo mollarono, ma arretrarono di qualche passo, usandolo come scudo indifeso tra loro e l’assassino fuori controllo. Senlin, allungando il collo in ogni direzione in cerca di una via di fuga o di aiuto, vide una cosa che gli avrebbe scaldato il cuore, se non fosse stato certo che si trattasse di un’allucinazione causata dal Bocconcino.
Edith correva verso di lui, spingendo via gli uomini del commissario, i gomiti sollevati come il vomere di un aratro. Era una visione meravigliosa, ma ricordò a se stesso che quella era la Torre. Nessuno stava giungendo in soccorso.
La Mano Rossa, avendo devastato le forze del commissario, si rivolse a Senlin, sempre tenuto su per le braccia. Le vene dell’assassino rilucevano con tale intensità da brillare attraverso la pelle: una ragnatela fiammeggiante. Il sicario balzò verso di loro con un braccio in avanti come un ariete. Senlin gettò tutto il suo peso a destra, mettendo l’agente che lo teneva alla sua sinistra sulla traiettoria dell’assalto. L’uomo venne colpito sull’orecchio, si irrigidì e cadde, trascinando Senlin e l’altro agente in un mucchio di corpi che si dimenavano scomposti.
Schiacciato tra i due uomini, uno privo di sensi, forse morto, e l’altro terrorizzato e imprecante, Senlin cercò di liberarsi. Il peso che sentiva sopra di sé svanì quando la Mano Rossa tirò su per il collo l’agente che borbottava volgarità, soffocando il flusso di parole e tenendolo come un contadino tiene un pollo prima di decapitarlo. Il sicario gli strinse il collo finché non fece un improvviso schiocco umidiccio, come un uovo che cade a terra. Agitandosi come un granchio sulla schiena, indifeso e bloccato sopra all’altro agente, Senlin fissò a bocca aperta il boia in preda alle allucinazioni. La Mano Rossa si muoveva a scatti, sbatteva gli occhi con fare quasi infantile. Disse ancora: «Chi va là?», ma debolmente. La sua intelligenza era svanita, ridotta a un semplice istinto primitivo. Con aria quasi annoiata, la sua mano simile a una stella splendente si allungò per afferrare Senlin.
Il pugno di Edith colpì l’assassino alla tempia con la velocità di un treno in discesa. L’impatto mandò la Mano Rossa lunga distesa su un fianco, sulle assi coperte di neve.
«Come?» chiese Senlin, non credendo neppure in quel momento alla sua presenza. Solo in seguito Edith avrebbe spiegato come aveva afferrato la fune di un’ancora e, dondolando, aveva raggiunto la travatura sotto la piattaforma. Aveva carambolato come una palla da biliardo ed era quasi precipitata verso la morte. Ma poi era riuscita ad aggrapparsi a dei brandelli di seta impigliati, un rimasuglio aggrovigliato del Fringuello d’oro. Aveva trascorso la mezz’ora successiva ad arrampicarsi su per i raccordi a croce congelati, nel bel mezzo di una tempesta epocale.
Edith tirò in piedi Senlin dicendo: «Dobbiamo andare alla nave!». Mentre stava ancora parlando, la Mano Rossa si era già rialzata. Uno degli occhi sporgeva fuori dall’orbita, inclinato verso un angolo assurdo, cieco. Una luce rossa si riversava dalla fessura. Il colpo sembrava aver attenuato la follia causata dalla droga. Quel che restava del suo sguardo era più lucido. Faceva gelare il sangue ed era puntato su Edith.
Si fiondò su di lei. Edith lo afferrò per le mani. Lottarono in equilibrio instabile, scivolando nella neve sempre più profonda. Senlin sguainò la spada dal fodero di un agente, a cui non serviva più. Era sul punto di andare in aiuto della donna quando una sciabola balenò tra loro, rapida come una ghigliottina. Il commissario balzò indietro con la sua spada, dando a Senlin solo un momento per abbozzare una difesa, prima di menare un altro fendente.
Senlin barcollò sotto il colpo. La guardia a coppa della spada di Pound era munita di punte argentee, il cui scopo fu immediatamente evidente quando centrò la guancia di Senlin.
Qualcosa di caldo gli colò lungo il collo. Spinse il commissario indietro sbilanciandolo sui talloni e assunse la posizione da combattimento che gli aveva insegnato Iren. Parò gli affondi del suo avversario, sperando che i muscoli ricordassero le reazioni istintive che l’amazzone aveva cercato di inculcargli con tanta fatica.
Ma, prima di poter sviluppare una certa sicurezza nel suo approccio, prima che una sembianza di ritmo ammorbidisse i suoi arti da marionetta che si muovevano a scatti, Marya uscì da dietro il commissario, come da dietro un angolo della loro vecchia casa. Indossava una lunga camicia da notte bianca con l’orlo all’uncinetto. Era scalza. Stava bevendo del tè da una delle sue adorate tazze di porcellana scheggiate. Aveva un’aria dolce e inconsapevole; un’aria che di solito non superava la prima ora del mattino, il genere di espressione che solo il suo amato avrebbe potuto vedere.
Senlin pagò un prezzo doloroso per quel calo di concentrazione: una pressione pungente gli trasmise una scossa lungo i nervi del braccio. Abbassò gli occhi e vide che il commissario gli aveva trafitto la spalla. Quando la spada venne estratta, il dolore acuto divenne continuo e martellante.
«È stata davvero una soddisfazione» disse Pound. «Non puoi immaginare quanto sono stato rimproverato per averti fatto scappare.» Attaccò ancora, ma Senlin deviò il colpo. «Dov’è il mio dipinto?»
Cercando di ignorare il pianoforte verticale che era appena apparso alle spalle del commissario, Senlin rispose: «Al sicuro».
«È una parola che non esiste» scherzò Pound.
Marya sembrava ignara del fatto che il marito era coinvolto in un duello. Appoggiò la tazza di tè sul bordo del pianoforte. Sventolò la camicia da notte come una pianista sul palco prima di sedersi sulla panchetta. Lanciò un’occhiata sopra la spalla, in direzione di Senlin: «Cosa dovrei suonare?» chiese scostandosi i capelli dal viso. La familiare allegria del suo sorriso gli fece male al cuore.
«Quello che ti piace» disse Senlin. Il commissario, confuso dalla frase non pertinente, la prese come un invito ad avanzare.
Mentre la loro schermaglia ricominciava, Marya iniziò a suonare nel suo caratteristico stile esplosivo. Eseguì un vecchio, frenetico reel, che era popolare nel pub del loro paese e su cui i loro concittadini battevano le mani. Senlin poteva quasi sentirli. No, li sentiva davvero, e anche i boccali sbattuti sui tavoli e le gambe delle sedie trascinate sul pavimento. Mentre ascoltava, i suoi muscoli si scioglievano. I movimenti si fecero più fluidi. Poi venne colpito di striscio sul dorso della mano, ma non provò dolore, come se qualcuno gli avesse solamente accarezzato la peluria. Pound appariva distante, come un uomo in piedi in fondo a un tunnel, che agitava le braccia. Il coperchio del pianoforte di Marya si spalancò e ne scaturì della luce solare, simile a un diadema d’oro, che guizzava a ritmo con la canzone. Una frotta di aquiloni si unì alla luce, volò fuori dalla cassa armonica legato alle corde del piano, ognuna delle quali vibrava di colore e suoni.
Senlin inciampò in una delle funi d’arrembaggio che legavano l’Ararat al porto. Marya e il suo piano sparirono. Dovette contorcersi e slittare nella neve per non perdere l’equilibrio: si agitò in modo scomposto, pericolosamente vicino all’abisso. Pound, troppo impaziente e valutando male la distanza, menò un fendente, ma colpì solo la fune che aveva fatto incespicare Senlin, tranciandola. I venti scuotevano con forza la nave del commissario, tentando di risucchiarla fuori dalla Torre, nella tempesta ribollente. La semplice perdita di quell’ancoraggio generò una reazione a catena. La fune di arrembaggio più vicina vibrò sotto la pressione aggiuntiva, poi si spezzò. L’Ararat si disallineò rispetto al porto e il ponte mobile, prima perfettamente in asse, si inclinò bruscamente.
Pound, capendo che la sua nave stava per essere sradicata dagli ormeggi, corse verso il ponte mobile, che sfregava fuori controllo lungo la parte terminale della banchina. Alle sue spalle uno degli arpioni si strappò. Poi un altro, e un altro ancora, finché non rimase una sola debole corda. Il commissario saltò sul ponte mobile proprio mentre un gradiente verticale del vento spingeva verso il basso l’Ararat. L’ultima fune si spezzò. Pound rimase sospeso in aria per un momento: braccia e gambe mulinarono come le zampe di un gatto che cade e il ponte mobile sbatacchiò all’estremità delle sue catene. Poi la corrente cambiò ancora, e il varco di accesso della nave sembrò inghiottire il commissario, che sparì nelle profondità dell’imbarcazione. L’Ararat si sollevò e uscì dal porto, inghiottita dalla neve. Senlin, di nuovo lucido, si guardò attorno in cerca di Edith e la trovò sulla piattaforma, pericolosamente in piedi vicino allo strapiombo. Teneva la Mano Rossa per la collottola, con il braccio teso, come si tiene un serpente velenoso. L’assassino si agitava, ma aveva i piedi sollevati da terra e non poteva protendere all’indietro le braccia abbastanza da raggiungerla. L’arto meccanico, con incisi svolazzi e frecce, come viticci su un tronco, brillava nella luce rossa del suo prigioniero. Edith lo fece penzolare sopra al precipizio. Era un miracolo che l’avesse preso, e Senlin non riusciva a capire perché esitasse, perché non lasciasse andare il sicario incontro al suo destino.
Ad alcuni passi di distanza, Senlin sentì la Mano Rossa che parlava con la voce gorgogliante, alterata. «Aspetta sorella, aspetta! Che cosa dirai alla Sfinge? Non puoi farlo!»
La natura bizzarra di quella supplica, l’allusione a una specie di rapporto familiare, lo fece rabbrividire. Di certo Edith non stava valutando la preghiera di quella mostruosità!
Eppure, per quanto sembrasse impossibile, la donna era titubante. Senlin non riuscì a vedere il suo viso in quel lungo istante in cui ponderò il destino della Mano Rossa. Poi aprì la mano, il braccio le ricadde lungo il fianco e l’assassino sparì.
Senlin la raggiunse, provando un intenso sollievo. Di certo, pensò, era naturale esitare prima di uccidere un altro essere umano, per quanto abietto e perverso. Edith aveva solo riflettuto un momento, per concedere alla sua coscienza il tempo di sincronizzarsi con le conclusioni che il buon senso e la giustizia avevano già tratto. Non l’avrebbe mai lasciato vivere.
Poi Senlin vide che il piccolo cassetto sulla spalla sporgeva, offrendo la batteria di siero rosso brillante ormai scarica perché venisse sostituita. Il possente braccio di ottone le penzolava inerte lungo il fianco.
Edith gli rivolse un’occhiata al tempo stesso mesta e sollevata. «E a volte finisce il carburante proprio al momento giusto» disse, riecheggiando la loro conversazione della sera prima. Senlin non riuscì a farsi venire in mente nulla da rispondere.
Un tuono rimbombò nelle nuvole dense di neve, poi il tuono originò un fischio e il fischio diventò un’esplosione contro la facciata della Torre. «Stanno sparando alla cieca con i cannoni!» esclamò Senlin, quasi felice: piuttosto che prolungare quel momento di disagio preferiva farsi sparare addosso. «Dobbiamo andarcene prima che piazzino un colpo fortunato, ma non senza aver recuperato Iren.»
Senlin raccolse l’aerobarra e il ritratto di Marya fatto da Ogier, che la tempesta aveva ripulito dalla droga, e poi si diresse in fretta con Edith alla gru crollata. Trovarono l’amazzone semisepolta sotto un mucchio di neve, priva di conoscenza ma gemente.
«Sei sicuro che voglia venire con noi? L’hai reclutata o è un rapimento?» chiese Edith.
Senlin ci pensò su per un momento, poi una palla di cannone colpì il ciglio del porto, dove si erano trovati fino a poco prima, sollevando un geyser di schegge.
«Ha importanza?» domandò.
La estrassero dai rottami. Edith faceva del suo meglio con un braccio solo. Trascinarono l’amazzone come una slitta fino alla passerella della Nube di pietra. Ci volle l’aiuto di tutti per issarla a bordo. Nel frattempo, Adam riferì lo stato della nave. Tutto era pronto per il decollo.
I colpi di cannone erano più regolari, ma non meno feroci. L’Ararat era ancora sospesa, nascosta dalle nubi, a poca distanza dal porto.
Senlin non aveva alcun interesse a farsi spingere in quella direzione. Poteva solo confidare che la correte d’aria che aveva individuato non fosse stata perturbata dalla tempesta.
Edith, assumendo con naturalezza i compiti di primo ufficiale, orchestrò il lancio. Si posizionò al timone e ordinò a Voleta e Adam di mollare gli ormeggi al suo segnale. «Ora!» gridò, con una voce che si fece strada tra il vento e le cannonate. Non appena furono sciolte le cime, tirò la leva e il portello della zavorra si aprì di scatto, riversando in un istante tutto il suo contenuto di acqua salata.
La nave fluttuò verso l’alto a una velocità da voltastomaco. Il vento li respinse verso la Torre. Per un attimo sembrò che dovessero essere scagliati contro gli impenetrabili blocchi di pietra, ma poi scivolarono nella corrente scoperta da Senlin, e il loro sbandamento mortale cessò. In un batter d’occhio il Porto di Goll cadde dietro il sipario della tempesta. I cannoni dell’Ararat si ritirarono. Erano fuggiti.
Ma non c’era tempo per esultare. Non avevano zavorra e la rotta era fuori dal loro controllo. Stavano salendo a tutta velocità verso il cuore della tempesta.