Capitolo otto
Non permettere mai a un itinerario rigido di scoraggiarti dall’intraprendere un’avventura inattesa.
Guida per tutti alla Torre di Babele, III, II
Nonostante le misteriose declamazioni della maschera e l’entusiasmo di Pining, Senlin si aspettava ancora di trovare file di sedie foderate di velluto, un palcoscenico, un proscenio e un sipario: per farla breve, si aspettava un teatro.
Invece se ne stava sulla soglia di una sala rivestita di piastrelle bianche che gli ricordava gli spogliatoi del collegio frequentato tanto tempo prima. Panche di cedro e cubicoli correvano per tutta la lunghezza. Decine di seriosissimi inservienti in bianco camminavano in fretta spingendo rastrelliere di abiti, trasportando pile di asciugamani e facendo rotolare ceste colme di scarpe lucide. I loro vestiti, a differenza di quelli della maschera che aveva appena pagato, erano sgualciti a causa del lavoro. L’aria era satura di vapore e di un aroma aggressivo che copriva tutto il resto, un misto di acqua di colonia, sapone e lozione per capelli. Finalmente capì cos’era quello spazio: il dietro le quinte. Ma il palco dov’era? E chi si esibiva?
Senlin fu preso in consegna da un inserviente che reggeva un asciugamano bianco perfettamente piegato con una saponetta appoggiata sopra. Aveva capelli ben pettinati color della pietra e guance scarne, arrossate per la rasatura; per il resto, trasudava tutta la raffinatezza di un venditore di esche.
Senlin si allarmò quando si accorse che era armato. Al fianco portava una pistola a colpo singolo. Un ulteriore sguardo agli altri inservienti nella stanza rivelò che la maggioranza era armata. Non avvezzo a vedere pistole esibite in pubblico (nemmeno l’unico poliziotto di Isaugh ne portava regolarmente una), ipotizzò significasse che stava per entrare in una sezione della Torre più ligia alla legge.
Rivolse quindi un sorriso cordiale al suo rozzo accompagnatore il quale, più che guidarlo, lo spinse dentro una cabina doccia aperta.
Nonostante l’ansia, Senlin gradì il getto caldo e il ruvido sapone al sandalo. Sembrava il primo accenno di vero lusso che la Torre gli offriva. Si sarebbe trattenuto più a lungo sotto lo spruzzo fumante se l’arcigno inserviente non l’avesse scosso.
Poi l’uomo gli prese le misure con un metro da sarto, mentre Senlin stava in piedi avvolto nel suo asciugamano. Dopodiché sparì e a un certo punto tornò con un cambio di abiti: una marsina da maggiordomo e una pettorina bianca inamidata. Entrambi gli andavano a pennello ma nessuno dei due donava al suo fisico asciutto. Era un maggiordomo poco convincente. Il farfallino rosso risultava così assurdo addosso a lui che Senlin lo levò immediatamente. L’inserviente, però, lo recuperò all’istante e glielo rimise al collo senza fare troppi complimenti.
«Niente modifiche al costume, signore» disse l’uomo dai capelli grigi come l’acciaio. «Legga le regole sul programma.» Lentamente gli furono chiare tutte le implicazioni di quanto gli era stato detto dalla maschera: era attore e anche spettatore. Non era teatro. Era una farsa. Una finzione, come un gioco infantile. Certo che non c’era un vero pubblico. Chi avrebbe mai voluto assistere?
L’inserviente gli ordinò di mettere i suoi abiti e gli oggetti di valore nella tracolla. Senlin obbedì con apprensione. Era riluttante all’idea di separarsi dai soldi, dai biglietti del treno e dalla Guida, ma non sembrava avere alternative. Il fatto che l’operazione fosse gestita con tanta efficienza e prevedesse un tale livello di sicurezza gli infondeva un po’ di speranza. Inoltre, non era certo l’unico a tenere i soldi nella scarpa, per cui quanto poteva essere effettivamente sicuro quello stratagemma?
La sua borsa venne chiusa in un pesante armadio su ruote accanto agli effetti personali di altri uomini, che sembravano tutti molto più a loro agio a separarsene. E perché no? Nessuno spettatore si preoccupava che gli venisse rubato il cappotto dal guardaroba. Quegli uomini erano lì per evadere, interpretare, recitare! Si punzecchiavano, chiacchieravano e sghignazzavano come scolari, benché grigi di capelli o calvi. C’erano anche individui più giovani, ma in genere erano leggermente sovrappeso, goffi o poco attraenti. L’impressione era che le maschere avessero scelto i soggetti privi di una certa presenza per impersonare il maggiordomo. E lui rientrava nella categoria, pensò Senlin con stizza.
Mentre veniva vestito e agghindato dall’inserviente, Senlin lesse il programma. Descriveva a grandi linee la trama che avrebbero arricchito. La rappresentazione si svolgeva in una villa, l’allestimento scenico si estendeva quindi su più stanze e comprendeva una sala da pranzo, uno studio, una cucina e una decina di altri ambienti domestici. C’erano solo quattro personaggi: una coppia di ricchi, marito e moglie, di nome Kerrick ed Alice Mayfair, il giovane apprendista del marito, Oscar Shaw, e Isaac, il maggiordomo, il suo ruolo nella farsa.
Agli interpreti si chiedeva di improvvisare un dialogo attorno al canovaccio fornito. La trama era parecchio banale. Il marito, il signor Mayfair, è logorato da questioni di affari. Considera il suo giovane partner, Shaw, come il figlio che non ha mai avuto e passa troppo tempo a prepararlo per il mondo del lavoro. La signora Mayfair, sentendosi trascurata dal marito, inizia a flirtare con Shaw, che è quindi costretto a scegliere tra il suo futuro come uomo d’affari e i sentimenti sempre più forti per la moglie del suo mentore, una donna attraente dal carattere volubile.
Senlin scoprì con sgomento che Isaac il maggiordomo si trovava alla fine a dover decidere se sostenere l’incostante padrona di casa nella sua imprudenza oppure rivelare la potenziale tresca al suo datore di lavoro, il signor Mayfair. Era un incubo. La trama era proprio il genere di melodramma sgradevole che dissuadeva i suoi studenti dal leggere. Il sottinteso era ovvio: l’amore, puro ed eterno, regnava supremo. Lui non credeva in quel genere di amore: repentino, egoistico e insaziabile. Come così spesso lo dipingevano i poeti, era solo lussuria con indosso una maschera raffinata. Riteneva che il vero amore fosse più simile a un percorso di apprendimento: era profondo, discreto e non aveva mai fine.
L’inserviente afferrò la spalla di Senlin con una mano callosa, scuotendolo dai suoi pensieri piccati, e lo condusse alla parte opposta della stanza, verso un corridoio ricoperto di moquette. Il passaggio di fronte a lui aveva qualcosa di un albergo sfarzoso. Porte imbiancate erano presenti su entrambi i lati anche se, a differenza di tutti gli altri alberghi che aveva visitato, quel corridoio non aveva angoli. Piuttosto si allungava senza fine curvandosi gradualmente fino a sparire dalla vista. Era occupato da centinaia di uomini di varie corporature, tutti con indosso marsina e pettorina, come Senlin. L’onnipresenza del farfallino rosso che gli irritava il collo lo faceva sentire meno appariscente ma ancora più ridicolo.
Era come se si trovasse tra due specchi e si stesse osservando raddoppiato, più volte, fino a svanire. La scena gli dava le vertigini.
Lo sgarbato inserviente gli consegnò una chiave e disse: «Si trovi una porta aperta nel corridoio. Se non è chiusa a chiave, allora lo spettacolo ha ancora bisogno di qualcuno che interpreti Isaac, il maggiordomo. Gli altri attori potrebbero aver già cominciato. Si chiuda la porta alle spalle. La sua chiave apre tutte le porte interne senza contrassegni e quella da cui è entrato. Se uscirà nel corridoio non potrà più rientrare. Se uscirà dalla porta di un altro personaggio, verrà rimosso dal Salotto. Ci sono domande?».
Un po’ stordito, ma non nella posizione di chiedere spiegazioni al suo accompagnatore, scosse la testa.
«Si goda la sua recita.»
“Attraversa il Salotto. Raggiungi i Bagni. La troverai lì” si ripeté ancora Senlin.
Avvertì la familiare stretta alla gola, il formicolio alle dita, il restringimento del campo visivo che gli annunciavano l’arrivo del panico. In quello spazio angusto c’erano troppe persone. Doveva fuggire. Si fece largo a spallate lungo il corridoio pieno di maggiordomi che gironzolavano e chiacchieravano, nessuno dei quali sembrava avere fretta di trovare una porta aperta. Dopotutto, quella era la loro vacanza avventurosa! Sperimentavano accenti di scena e gesti per il palcoscenico, parlavano con fare arrogante di quale schieramento avrebbero sostenuto una volta iniziato lo spettacolo. L’amore deve vincere! No, il matrimonio è qualcosa di sacro!
Senlin voleva mettersi a urlare.
Il pensiero di irrompere in una stanza sconosciuta lo rendeva nervoso, ma non quanto il corridoio dei maggiordomi. Provò una porta a caso e la trovò chiusa. Ne scosse un’altra, ma venne respinto di nuovo. Stessa cosa con la successiva. Il sudore sul palmo della mano divenne un lubrificante, le maniglie cominciarono a farsi scivolose. A ogni tentativo andato a vuoto la sua angoscia aumentava. Per un attimo si ritrovò sbalzato fuori dal suo corpo, a osservare un uomo disperato e longilineo che tirava una maniglia dopo l’altra.
I suoi sosia brontolavano e gli rivolgevano cenni sdegnati con il capo mentre si faceva strada. Li mandava a sbattere contro i pannelli di legno e la carta da parati in foglia d’oro senza scusarsi. Non poteva farne a meno. Stava impazzendo, non solo a causa dei familiari spasmi di ansia, ma per il pensiero che Marya potesse trovarsi dietro una di quelle porte, a recitare in uno spettacolo dove era la moglie di un uomo e l’amante di un altro. Afferrò un’altra maniglia come se volesse strozzarla.
Girò. Senlin si precipitò all’interno e si chiuse la porta alle spalle. C’era un silenzio meraviglioso.
Si trovava sulla soglia di una cucina. Come se fosse entrato dalla porta di servizio dell’abitazione di qualcuno. Ceppi di legna erano sistemati in una piramide ordinata accanto a una stufa panciuta. Reti colme di zucche e cipolle penzolavano dalle travi a vista del soffitto. Barattoli di marmellata luccicavano alla luce di una lampada a olio non schermata, che illuminava anche una piccola protuberanza di ottone posta in alto sul muro. L’attenzione di Senlin fu subito catturata da un prosciutto – su cui erano infilzate delle ciliegie lucide –, adagiato su un piatto da portata decorato posato su un tavolino. L’aroma di legna che bruciava, chiodi di garofano, maiale e ferro stagionato riscaldava l’aria. Era innegabilmente piacevole. E tranquillo. Stentava a credere di essere ancora nella Torre di Babele.
Senlin attizzò il fuoco e riempì il bollitore di ghisa da un robusto rubinetto verde. Gli venne spontaneo: a casa sua l’acqua era sempre in ebollizione, pronta per una tazza di tè improvvisata. Le tubature gorgogliarono e tossicchiarono come un vecchio asmatico. Quel piccolo compito domestico lo confortò. Gli schizzi di grasso sulla stufa lo fecero pensare alla colazione: focaccine, mele cotte e aringhe imburrate fritte in padella. Aveva appetito. No, molto di più, era famelico. Abbandonò le buone maniere e staccò un pezzo di cotenna dal prosciutto, che mangiò in un solo boccone. Poi tornò a prenderne un secondo e un terzo. Masticò, ansimò e masticò di nuovo. Si rimpinzò, incombendo sul prosciutto come un avvoltoio e felice di essere da solo. La carne salata gli pizzicò le labbra, screpolate dalla sete. Prese una tazza da un gancio, la riempì dal rubinetto e bevve, gemendo per il sollievo. Quando ebbe divorato tanta carne quanta ne poteva contenere il suo stomaco, ne avvolse altri pezzi in un tovagliolo e si fece scivolare il pacchettino in tasca.
La tazza di porcellana che teneva in mano attirò la sua attenzione, ma gli ci volle un istante per capire perché. Sul bordo era dipinta una ghirlanda di fiori di sanguinella dal fascino antico. Solo qualche mese prima Marya, in piena fusione delle loro due case, aveva svuotato una cassa imbottita di paglia piena di porcellane decorate con un motivo simile. Il suo servizio era un cimelio di famiglia, un dono lasciato in eredità dalla nonna il giorno del loro matrimonio. Lui aveva notato che alcuni pezzi mancavano e, per farle piacere, ma anche perché preferiva le cose complete, si era offerto di trovare i pezzi sostitutivi.
Marya l’aveva ringraziato e l’aveva tirato a sé per addolcirgli l’espressione a forza di baci. Senlin si domandò se era sempre corrucciato anche quando erano soli.
«I pezzi mancanti fanno parte del servizio» aveva detto lei. «Non puoi sostituirli. So come ognuno di essi si è rotto oppure è andato perduto. Un piatto l’ho rotto io quando avevo nove anni. Adesso sono una parte immortale di questo flusso. Mi tengo le mie mancanze, grazie.» Aveva ammiccato e si era premuta la lingua all’interno del labbro superiore. Era una smorfia che alcune volte aveva fatto in aula, molti anni prima, e ricordarla lo fece sorridere.
No, non era sempre corrucciato.
Si lasciò cadere su una sedia nella finta cucina e affondò il viso tra le mani.