Capitolo sei
I turisti che parlano troppo spesso e con troppo affetto della propria casa possono aspettarsi un’accoglienza tiepida. Le persone di qui chiamano questo genere di turisti nostalgici “teste sporche” o “teste di melma”. Non si può davvero fargliene una colpa. “Casa” è un’esagerazione resa reale dalla distanza.
Guida per tutti alla Torre di Babele, IV, XII
Era la prima concreta speranza di ritrovare Marya sin dal giorno in cui gli era sfuggita. Il pensiero che potesse essere ancora nei Bagni, o che almeno ci fosse stata di recente, infondeva a Senlin abbastanza speranza da affrontare i rischi che gli si paravano davanti. Per lei era pronto, se necessario, ad abbattere la Torre.
Trascorse la notte a cospirare con l’artista. Imparò molte cose sul commissario: la sua abitazione sontuosa, le feste di gala opulente, le sue allergie e i suoi saloni d’esposizione. Quando possibile, cercava di deviare l’argomento su Marya per saperne di più del periodo trascorso insieme al pittore, la sua attuale situazione, le sue condizioni. Ma ogni volta Ogier serrava le labbra. Senlin lo supplicò di accettare qualsiasi altro genere di pagamento, arrivando al punto di svuotare il contenuto dei suoi stivali sul tavolo, ma l’artista fu inamovibile. Avrebbe accettato solo il suo capolavoro. Amore in cambio di amore, nient’altro l’avrebbe smosso. Senlin non ebbe scelta se non ascoltare e acquisire informazioni sull’eccentrico tiranno e le diverse comunità nell’ambito dei Bagni, inclusa, in parte, la tormentata storia di Tarrou e la triste sorte del pittore stesso. Il preside si sentiva come una matricola che studiava per gli esami: sopraffatto dalle informazioni.
Ogni nuovo dettaglio che apprendeva riusciva solo a far sembrare l’impresa ancora più impossibile. La residenza del commissario era strettamente presidiata. A tutte le ore del giorno erano presenti due agenti armati a ciascun ingresso e alle finestre. Molte guardie avevano pistole a pietra focaia, e le altre brandivano randelli o sciabole. Peggio ancora, la casa era anche sorvegliata da una specifica razza di cane che aveva un talento straordinario per andare a caccia di ratti… e cioè per individuare un odore e gettarsi al suo inseguimento.
Il dipinto di Ogier era appeso nella sala da ballo, dietro a un vetro spesso due centimetri e mezzo. Era esposto accanto all’ingresso di un terrazzo, il che era sembrato un colpo di fortuna finché Senlin non era venuto a sapere che quel balcone era considerato il mastio della residenza e per questo protetto da due mezzi cannoni da quindici chili e da sei uomini armati di fucili. E, come se non bastasse, c’era anche da preoccuparsi della Mano Rossa, che si aggirava regolarmente nell’area in cerca di prede. Si vociferava che si spostasse a suo piacimento nella residenza, o che dormisse ai piedi del letto del commissario, o che vivesse nei muri, o che apparisse quando il suo nome veniva pronunciato a voce troppo alta.
«Che situazione disperata!» gemette Senlin.
«Esattamente. Per questo ci vuole un uomo disperato» replicò Ogier.
Quando iniziarono a comparire per le strade le luci del mattino, simili a braci, Senlin si congedò dal pittore con una promessa che non aveva speranza di mantenere. Avrebbe fatto ritorno con il suo capolavoro.
Percorse le vie principali semi deserte dei Bagni. Il gorgogliare distante delle fontane somigliava a quello del mare in una conchiglia. Provò un vago fastidio per i Bagni, la nauseante pantomima di un lido. Era una spiaggia senza mare: un luogo stupido e superficiale. Ma che importava? La sua mente si stava allontanando dai problemi più pressanti, spostandosi sul terreno familiare del biasimo per distrarsi dalla realtà incombente.
Anche se avesse avuto il fegato di attaccare direttamente il commissario, solo per superare la soglia ci sarebbe voluto un esercito. No, non si poteva fare con la forza. Cercò di immaginare se stesso mentre si muoveva furtivo di notte nella residenza, un foulard nero sul volto come un ladruncolo, un ladro dinoccolato e sgraziato. No, l’approccio furtivo era fuori discussione, quindi rimaneva solo l’imbroglio. Doveva convincere con l’inganno il commissario a consegnargli il dipinto oppure a portarlo all’aperto, dove era vulnerabile. Ammesso che esistesse un posto del genere, nei Bagni. Il commissario era un uomo estremamente sospettoso e prudente. Ingannarlo non sarebbe stato facile. E Senlin non era abituato ad agire in maniera subdola.
Le sale da concerto erano ancora silenziose e i ristorantini vuoti. Si disse che un bagno avrebbe potuto aiutarlo a concentrarsi e trovare l’ispirazione, ma scartò l’idea rapidamente, liquidandola come un piacere da codardo. Doveva affrontare la sfida. Era necessario trasformarsi in un genio del crimine. Il pensiero lo fece ridere. Se solo i suoi alunni l’avessero visto in quel momento, spogliato di tutta la sicurezza e senza autorità, un pesce fuor d’acqua. Uno storione, nel vero senso della parola.
Si domandò come tutte le sue vecchie qualità fossero diventate dei fallimenti. La calma, la pazienza, il suo amore per la riflessione, il suo rigore e la sua equanimità: erano tutti difetti. Doveva essere scaltro e arrogante. Ma anche in quel caso come poteva un presuntuoso topo di biblioteca competere con il commissario? Senlin non poteva sfidarlo su nessuna caratteristica, a meno che non diventasse una gara di difetti.
Una gara di difetti. Il pensiero lo fece ridere e, subito dopo, lo fece cominciare a tramare.
I venditori ambulanti del mattino iniziarono a percorrere le vie spingendo carretti stracolmi di dolcetti appena sfornati e frutta. Dopo arrivarono i bagnanti mattinieri e i più anziani che parlavano senza sosta di vitamine e della rispettiva forma fisica. Una coppia di bambini paffuti, sotto l’occhio vigile di un’istitutrice, ruppe lo specchio d’acqua immoto del lago, svegliando i fenicotteri con gli schizzi. Gli uccelli color corallo iniziarono a fare colazione con le abbondanti alghe che crescevano attorno alle loro zampe. Un agente doganale faceva il cascamorto con una giovane che vendeva sali da bagno e saponi profumati da un vassoio appeso al collo. L’ippopotamo meccanico ricominciò con il suo imponente spruzzo. Senlin passò attraverso tutto ciò talmente perso nei suoi pensieri che nemmeno si rese conto di dove stava andando finché non ci arrivò.
Era in piedi davanti a Tarrou, che russava sotto un asciugamano nella sua solita sdraio nei pressi del lindo bagnasciuga. Senlin gli levò l’asciugamano dalla faccia e lo usò per schiaffeggiarlo, finché non si svegliò sbuffando.
«Melma, ma lasciami in pace!» La smorfia di Tarrou si addolcì appena quando si accorse che era stato Senlin a disturbarlo. «Lo so, preside, ho perso l’aeronave! Ma non mi colpire. Mi esplode la testa!»
«Alzati, ti offro un caffè.»
«Non ho ancora fatto il mio bagno turco mattutino. Perché mi importuni così presto?»
«Perché ci sono un sacco di cose da fare, amico mio. Stasera mi accompagnerai a un gala.»
Al Caffè Risso, Senlin spiegò il suo piano tra gli scoppi di risate beffarde di Tarrou. Il gigante, nonostante i postumi della sbronza, era divertito dal piano audace di Senlin. Lo considerava uno scherzo, una complicata burla. Chi sarebbe stato tanto pazzo da rubare al commissario, l’uomo che teneva al guinzaglio quel cane psicotico, la Mano Rossa? E, oltre all’assurdità della proposta, Tarrou era disorientato dall’improvviso desiderio di Senlin di aiutare il pittore.
«Perché ti importa di quello? Che si recuperi da solo il suo scarabocchio. Non mi scomoderei neppure a raccoglierlo da terra» disse Tarrou, seguendo con la testa il passaggio di una giovane donna dal viso fresco in un paio di pantaloncini a vita alta. Quando tornò a voltarsi verso Senlin, scoprì il preside che lo studiava attentamente. «Che c’è?»
«Sono emersi alcuni fatti la notte scorsa, mentre tiravo tardi in compagnia del pittore. Sedici anni fa non hai, come dici tu, perso il senso del tempo, Tarrou. Sei venuto alla Torre con tua moglie e l’hai smarrita.»
Le parole di Senlin cancellarono l’allegria dalla faccia dell’amico. «L’hai aspettata, certo che sarebbe tornata da te, ma così non è stato.»
La giovane turista con le gambe lunghe passò ancora, in apparenza sperduta, ma stavolta Tarrou non la squadrò. «Avresti potuto far ritorno a casa, ma se lei non fosse stata là? Cosa avresti detto a suo padre, a sua madre? No, non innervosirti e non stravaccarti sulla sedia, Tarrou. Non ti sto rimproverando: ti sto ricordando com’è successo che ti sei piantato qui, come un boccone che non va né su né giù. L’hai cercata, hai atteso, afflitto da dolore e umiliazione. I barlumi di speranza non erano meno dolorosi. Le tue sostanze si sono assottigliate. Poi, proprio quando la speranza era praticamente svanita, è successo un miracolo: una lettera di tua moglie è arrivata al tuo albergo. In qualche modo, nelle settimane seguenti alla vostra separazione, aveva trovato la strada di casa. Temeva che tu ti fossi smarrito o che fossi morto, ma ti inviava dei soldi, perché non si poteva mai sapere. E tu…»
«Ti prego, basta» disse Tarrou, penosamente.
«Tu» insistette Senlin, «prendesti i soldi, ripagasti alcuni debiti, con il resto ti divertisti un po’ e non scrivesti nulla in risposta… a cosa sarebbe servito? Avresti dovuto fare ritorno a casa e spiegare tutto, faccia a faccia. Ma la vergogna te lo impediva. Il mese dopo arrivarono un’altra lettera e un’altra somma. Stava tassando il patrimonio. Elargiva una parte delle tue sostanze, nel caso che fossi ancora vivo per godertele. E tu avevi debiti nuovi da pagare e non abbastanza soldi per acquistare un volo di ritorno a casa. Trascorresti settimane a oscillare tra la vergogna e la soddisfazione dei tuoi desideri, tra spacconerie e rimorsi. Pian piano, cominciasti a frequentare gli esponenti dell’alta società del posto. Diventasti il pezzo forte delle serate mondane: la tua presenza riempiva una sala. Ogier mi ha detto che tante, tante feste sono nate al tuo arrivo e morte quando te ne sei andato. Eppure non scrivesti a tua moglie, perché per lei era meglio crederti morto.»
«Quel pittore, gli strappo la lingua e la uso per frustarlo» disse Tarrou, ma sembrava invece sul punto di strozzare Senlin, se non altro perché era a portata di mano. Gli occhi grigio scuro ardevano sotto la fronte arrossata, e tremava letteralmente dalla rabbia. «Non ti ha raccontato tutta quanta la storia. Non credere di sapere ogni cosa.»
Senlin scosse la testa con la rigida severità di un patriarca. «Mi ha mostrato un ritratto che ti ha fatto nei giorni in cui eravate amici. La barba era un po’ meno spruzzata di grigio, ma non c’è dubbio che fossi tu. Mi ha detto tutto del vostro litigio dopo che, ubriaco, gli hai confessato ogni cosa. Dopo quella volta non sei più riuscito a tollerarne la compagnia.»
«Oh, quella è la sua versione di come si sono guastati i nostri rapporti!» Tarrou sbuffò e picchiò ritmicamente il pugno sul tavolo. «Lascia che ti racconti la mia, e poi vediamo chi è il gentiluomo.»
«Non mi interessa. Non ti sto rimproverando!» Senlin prese la mano dell’amico. «Siamo la stessa persona. Nel raccontare la tua storia ho ripetuto la mia. Ho perso mia moglie in questo luogo orribile. L’ho cercata e ho affrontato molte difficoltà, e mi sono dimostrato un codardo. Sono quasi impazzito per la speranza e il senso di colpa. Mi sono stordito bevendo. Mi sono nascosto dalla mia vita. Sono rovinato, Tarrou. Non potrò mai fare ritorno a casa. Non da solo.»
Per la seconda volta nelle ultime ore Senlin si ritrovò a descrivere in che modo aveva smarrito Marya. Rivelata la propria tragedia, condivise quanto appreso dal pittore, senza omettere alcun dettaglio, nonostante il disagio che gli provocava. Era insopportabile pensare che era stata così vicina. Magari si erano incrociati per la strada decine di volte e avevano guardato sempre dalla parte sbagliata.
Ogier aveva detto che Tarrou era inaffidabile, un falso amico, e Senlin poteva solo sperare che la sua attuale onestà fosse sufficiente per dimostrare che si sbagliava.
Al termine della sorprendente confessione del preside, Tarrou sospirò e rilassò le spalle. I suoi occhi luccicavano umidi mentre guardava il traffico fugace che scorreva sotto il ribollente mosaico di luce. «Mi spiace per tua moglie, Tom. È un genere di scoramento, questo, che non augurerei a nessuno. Il senso di vuoto più intenso…»
Senlin non poteva permettere che Tarrou scivolasse nell’autocommiserazione, anche se magari un amico migliore gli sarebbe stato di conforto. Era tardi per la commiserazione. «Non ho molto tempo. Potrà sembrare sconsiderato, ma ho una possibilità, una piccola possibilità di trovarla. Mia moglie non è sana e salva a casa, Tarrou. È qui da qualche parte, e si è smarrita. Ne ho la prova.» Udì l’eco dell’avvertimento di Ogier sotto le parole che gli nascevano in gola e sentì la vecchia paura che faceva ritorno. Magari il pittore aveva ragione a dire che la Torre rendeva impossibile l’amicizia. Ma che altra speranza c’era?
«Ti prego, amico mio, fallo per me, per il bene di mia moglie, aiutami a rubare questo quadro.»
«La stai approcciando nel modo sbagliato, preside. Perché rischiare la vita quando sarebbe molto più semplice affrontare il pittore e costringerlo a cantare?» disse Tarrou. «Certo, è testardo, ma potremmo cavargli fuori la verità.» Alzò i pugni e li strinse.
«Restituire un dipinto rubato ingiustamente è una cosa, torturare un uomo un’altra» replicò Senlin, e Tarrou si accorse che era inamovibile su quel punto, che si trattasse di finta indignazione o di sincera convinzione. «Non permetterò alla Torre di trasformarmi in un tiranno.»
«Non hai idea di cosa può fare la Torre!» Tarrou rise e agitò una mano tentando di scacciare l’improvvisa pietà di Senlin.
Visto che il preside non reagiva, la risata di Tarrou diventò un sospiro di disagio. «Oh, è troppo tardi. Sei già pazzo. Riesci a immaginare cosa farebbe il commissario a chi venisse pizzicato a rubargli qualcosa? Cosa credi che preferirebbe tua moglie tra un marito martirizzato e uno lontano ma vivo?» Scrutò il viso di Senlin in cerca di qualche salutare sintomo di paura. Invece vide il preside che si piegava in avanti con fare deciso. «Hai davvero intenzione di andare fino in fondo?»
«Sì.»
Tarrou tirò fuori una fiaschetta argentata dall’accappatoio bianco e se la portò rapidamente alle labbra. «Il tuo piano è pessimo. Te ne rendi conto? Se il tuo piano fosse un cavallo, avrebbe tre zampe e due teste.» Si leccò le labbra e riavvitò il tappo della fiaschetta.
Senlin sedeva senza argomentazioni, sebbene Tarrou sembrasse attenderne una. Fu quindi il gigante a cedere per primo. «Oh, e va bene! Entreremo in città in sella al tuo cavallo, preside, il tuo traballante, improbabile cavallo.» Si alzò improvvisamente e si tastò le tasche in cerca del borsellino. «Mi servirà un vestito nuovo. Qualcosa di orribile e da vero pavone.»
Dall’esterno la residenza del commissario ricordava un albergo sfarzoso. Un colonnato la collegava alla strada pubblica. Ogni colonna era cinta da un ampio nastro nero. La facciata di marmo bianco era decorata da ghirlande verdi appese sopra a finestre illuminate dalla luce elettrica. Due file di agenti doganali erano disposte, impeccabili, accanto a porte dal rivestimento a pannelli alte come il colonnato stesso.
Senlin studiò la villa mentre aspettava l’arrivo del suo compagno cospiratore. Si era lavato per bene e aveva l’abito stirato e spazzolato con cura. Sembrava persino elegante, quasi totalmente per merito del cappello a cilindro che Tarrou gli aveva prestato e aveva insistito perché indossasse. Nonostante ciò, con tutta la stravaganza che lo circondava, se si fosse messo un grembiule da pescivendolo sarebbe stato lo stesso. Lo stile degli ospiti del commissario era tanto vivido e variegato che Senlin si domandò se non fosse finito a un ballo in maschera. Ed erano centinaia. Uomini con parrucche bianche o tricorni accompagnavano donne con tiare luccicanti e gonne a crinolina o vesti lunghe e turbanti ingioiellati. Lui indossava ancora il panciotto e i pantaloni neri attillati, per l’occasione ripuliti dai fili sciolti. Somigliava più a un’ombra che a un ospite. Sperava che l’opulenza di Tarrou bastasse per entrambi.
E così fu. Quando comparve Tarrou, Senlin non riuscì a decidere se sembrasse più un re o il buffone di corte. I pantaloni ricamati in oro si gonfiavano assurdamente all’altezza del ginocchio, il suo cappello enorme pareva un cuscino adatto al trono di uno sceicco, e indossava babbucce di feltro con la punta ricurva. La barba e i capelli erano stati regolati e impomatati e aveva ancora il colorito acceso dopo un recente bagno. Si inchinò con fare teatrale a Senlin. «Ammira, il suicidio della moda! No, no, perdonami: la moda del suicidio!»
Senlin abbozzò un sorriso fiacco. «Devo avvertirti, sono tremendo alle feste. Sono abituato a nascondermi dietro alla personalità brillante di mia moglie.» Si raddrizzò la cravatta nera e sottile.
«Farai un’impressione migliore sul nostro anfitrione vestito come un beccamorto. Lui è diverso dai suoi ospiti, colorati e sgargianti come fuochi artificiali e ottusi come sassi. Non ama le personalità brillanti, senza offesa per tua moglie» disse Tarrou, battendo le mani sulle spalle dell’amico. Tirò Senlin vicino a sé e sussurrò dietro a un sorriso da uomo di spettacolo: «Il commissario è di buon carattere quanto una ghigliottina».
«Non è confortante» fece Senlin, rannicchiandosi nella giacca. Una fluttuante sensazione di intorpidimento gli riempì lo stomaco. Il suo coraggio se ne andava, ritornava e se ne andava ancora. «Non mi sento molto bene.»
«La devi veramente sfinire, tua moglie» disse Tarrou, e rise.