Capitolo dieci
Il Baniano di domani è un barcone a fondo piatto brutto come il naso di un maiale. La sua unica difesa è un cannone da tredici chili tremendamente corroso. La ciurma raffazzonata di sei membri probabilmente si arrenderebbe senza nemmeno proferire parola. Una candidata priva di fascino ma ottenibile. (A una seconda ispezione, la murata si è rivelata marcia e dunque morbida come una torta. È una trappola mortale.)
La Torre di tutti, i travagli di
uno
T. Senlin
Senlin si puntellò sopra al pertugio nell’asse fracassata. Mentre si allungava verso l’apertura buia nel pavimento, il tacco di uno stivale gli si piazzò dietro al collo, minaccioso come l’unghia di un pollice per una pulce.
«Se tiri fuori qualcosa che non è una chiave, ti schiaccio» disse la Mano Rossa.
Senlin esitò. Sudore, o forse sangue, gli colava dal cuoio capelluto e lungo la mandibola. La chiave da carceriere era sotto al quadro di Marya. Non aveva scelta se non tirare fuori prima quello per raggiungerla.
«Qui dentro c’è un dipinto» disse Senlin. «Ma non è quello che stai cercando. La chiave è sotto al dipinto.»
«Fammi vedere.»
Non appena emerse il quadro, una mano luminosa balenò verso il basso e glielo strappò di mano. Senlin non riuscì a vedere l’assassino mentre lo esaminava, ma il risultato sì. La cornice esplose attorno al ritratto, scaraventato contro il muro davanti a lui. Senlin sobbalzò. Non sapeva se il dipinto si fosse rovinato o meno, ma non poteva farci niente. Con studiata lentezza tornò a frugare nella cavità sotto al pavimento.
Quando tirò fuori la chiave, la pressione sul suo collo si allentò. La Mano Rossa rimosse il tallone. Senlin si alzò, le gambe instabili come una delle sue sedie.
«Che cosa apre?» chiese la Mano Rossa nel suo modo distratto, quasi trasognato.
Senlin si schiarì la voce impastata, barcollò e disse, senza inflessione: «Te».
Premette il piccolo grilletto nella testa della chiave. Il rumore non fu più forte di un cucchiaio di legno che si spacca. La canna, larga quanto un pisello, liberò uno sbuffo di fumo. Senlin dovette ammetterlo: fu un risultato ancora più misero di quello che aveva sperato. Impassibile, la Mano Rossa abbassò gli occhi sulla macchia che si allargava sulla sua camicia. Il sangue che colava lento era rosso granato.
«Sai cos’è buffo» disse il sicario, serio. «Tu mi guardi e vedi un uomo, trenta centimetri più basso di te, una decina di centimetri più largo, ma comunque un uomo.» Scattò in avanti, afferrò Senlin per il bavero della camicia da notte, stringendola nei pugni ingannevolmente piccoli, e lo tirò vicino alla sua faccia scialba, come una zucca scavata. «Quindi dai per scontato che io sia come te, che condivida la tua conoscenza, il fardello della tua coscienza, i tuoi parassiti intestinali. Ma io non sono affatto come te.» Il suo fiato emanava un forte odore di formaldeide, e da vicino Senlin notò che la pelle aveva la consistenza gommosa di una rana conservata sotto vetro. Senlin fu sollevato sulle punte dei piedi e poi alzato da terra. «Io sono l’enigma nella bocca della Sfinge. Sono il negriero che mastica la catena della vita. Sono il coltivatore di semi morti, colui che riempie le fosse. Chi sono?»
Senlin rispose con un sussurro: «La morte».
«Sì» mormorò la Mano Rossa.
Un’esplosione arrestò la stretta alla gola di Senlin. La finestra dell’appartamento di fronte a loro scoppiò nello scalo merci. Il boato proveniva dal lato opposto della stanza. Si voltarono all’unisono verso la sua origine.
Illuminato dalla luce del corridoio, Adam era in piedi sulla soglia con la sua seconda pistola puntata. Un gruppo di portuali scalpitava su per le scale dietro di lui. Con velocità innaturale l’assassino gettò Senlin verso la porta, rovinando l’opportunità di Adam di sparare di nuovo. La Mano Rossa saltò tra i rimasugli frastagliati della finestra, nel chiarore torbido dello scalo, e sparì.
Adam agguantò l’amico, con le pistole in mano che rendevano goffo l’abbraccio. Senlin, con la voce momentaneamente strozzata, gesticolò verso la finestra distrutta. Il giovane non attese altre istruzioni. Gridò alla truppa di facchini in arrivo: «Inseguitelo! È diretto al porto!».
Adam rimise in piedi Senlin e corse verso le scale, dando l’allarme.
La stanza sembrava aver ospitato un toro. Massaggiandosi la gola dolente, fece un mezzo tentativo di tirare su gli oggetti volati in giro e i vestiti. Lasciò cadere la massa ingarbugliata in uno dei cassetti spaccati e, con passo malfermo, raggiunse il cumulo che un tempo era stato la cornice di un quadro. Gli tremavano le gambe mentre si inginocchiava vicino alla tavola dipinta. Miracolosamente era atterrata a faccia in su nel mucchio di legno. Il dipinto era sopravvissuto. Quel semplice fatto fu sufficiente a scacciare dalla sua mente terrore e shock. Era sopravvissuto anche lui.
La consistenza del retro del dipinto lo sorprese. Era come toccare delle squame di pesce. La carta che rivestiva la parte posteriore del ritratto era strappata. Lo voltò e si lasciò sfuggire un inatteso scoppio di risate.
Fissata al retro della tavola c’era una ragazza che lo fissava. Era nell’acqua fino alle caviglie. Dalla mano le penzolava una barchetta di carta.
Scivolò fuori un bigliettino. Le poche parole erano state scritte in fretta, ma Senlin riconobbe la grafia. Ogier. Diceva: “Non darglielo, non è quello che sembra. È una chiave, una chiave per la Torre e per la felicità e la morte. Nascondilo, tienilo al sicuro. Per il bene di lei”.
Mezz’ora dopo Adam fece ritorno e trovò il direttore seduto sul letto, con tutte le luci accese. Le tende di iuta penzolavano flosce attorno alla finestra distrutta. Senlin aveva avuto la presenza di spirito di mettere al sicuro il dipinto nascosto da Ogier. Era deciso a non aggiungere altro al fardello di Adam. Non gli avrebbe giovato lottare con il mistero di un quadro che Senlin era stato costretto a rubare per conto di un uomo che non se l’era tenuto, pur sostenendo che era la “chiave per la Torre e per la felicità e la morte”, qualunque cosa volesse dire. Enigmi del genere fanno parte del fardello di chi è al comando. Inoltre, il dipinto di Ogier si sarebbe potuto rivelare una merce di scambio, e non voleva che qualcuno sapesse che ne era in possesso, almeno per il momento.
«È scappato» disse Adam. «L’abbiamo inseguito fino al porto. Non chiedermi come fa un uomo che brilla al buio a sparire nel cuore della notte.» Cercò di ridere, ma gli uscì un raglio roco. Molto scosso, si abbandonò su un angolo del letto di Senlin. «Non ho mai visto nulla del genere. Non ho idea di cosa fosse.»
«Grazie per essere venuto in mio soccorso» disse Senlin, provando a recuperare la sua consueta postura eretta.
«O facevo così o restavo sveglio a sentirvi rompere tutto il mobilio della stanza» rispose Boreas con un sorriso debole. Rimase in silenzio per un po’, la fronte corrugata per la concentrazione. Dopo un momento chiese: «Tom, chi era quello?».
Senlin rantolava, la gola gonfia gli mozzava il fiato. Dovette respirare più volte prima di riuscire a dire: «Era la Mano Rossa, il boia del commissario. Credo sia chiaro che ormai siamo andati ben oltre la possibilità di trattare con quel tiranno». Recuperò la scopa appoggiata in un angolo e iniziò a spazzare i pezzi di vetro da sotto la finestra. «Temo che il mio assassino luminoso tornerà… prima o poi. Sono felice che tu l’abbia interrotto al momento opportuno, ma non mi sembra il tipo che si scoraggia a lungo.»
Adam si alzò in piedi e seguì il direttore portuale mentre si trascinava per la stanza, dando lunghe, meditative passate di scopa.
«Be’, dici che siamo oltre le trattative, ma siamo anche ben oltre la possibilità di nasconderci, ormai. Che cosa intendi fare? Se hai il dipinto, se hai sentito di doverlo nascondere da me, perché nasconderlo da lui? Daglielo e basta. Non vale la pena farsi ammazzare.»
«Concordo» disse Senlin, offrendo la scopa a Adam. «E, visto che ti va di camminare, ti do anche qualcosa da spingere.»
Adam strappò la scopa dalle mani dell’amico, ma non smise di perorare la sua causa. «Allora digli dov’è il dipinto. Chi ce l’ha, e per conto di chi l’hai rubato. O dillo a me, e io ci parlerò in tua vece.»
«No. È un’offerta coraggiosa, forse non ti rendi nemmeno conto di quanto, ma no. Però su una cosa hai ragione: basta nascondersi. Ma per il momento sono convinto che sia l’incertezza del commissario a tenermi in vita. La Mano Rossa avrebbe potuto semplicemente torcermi il collo mentre dormivo, invece no, ha voluto parlarmi. Io credo, Adam, che questo dipinto sia più importante di quanto pensiamo. Credo che il commissario desideri disperatamente riaverlo e che abbia una paura incredibile di perderlo. Cosa che trovo interessante. E fino a che lo possiamo lasciare nel dubbio…» Si interruppe quando vide Adam che si appoggiava alla scopa come una vecchietta al bastone. Si sorreggeva, e sembrava svuotato di ogni speranza. E perché no? Aveva appena visto un mostro in carne e ossa. Il pericolo era innegabile.
Senlin raggiunse a grandi passi il tavolo dove aveva appoggiato la finta chiave da carceriere. Voleva dare a Adam qualcosa per distrarsi, qualcosa di utile, dunque disse: «Bene, è ora che io impari come si ricarica una pistola. Dai, fammi vedere». Il giovane gli rivolse una lunga occhiata incredula, ma il direttore fu inamovibile nella richiesta, decisamente simile a un ordine.
Adam mise da parte la scopa e iniziò l’addestramento.
Il mattino dopo, spinto dalla curiosità, Senlin si recò alla banchina del porto in cerca della via di fuga dell’assassino. Un’aeronave, anche piccola, sarebbe stata notata, il che voleva dire che la Mano Rossa era entrata in modo più discreto. Una perlustrazione del perimetro del porto non evidenziò nulla di sospetto, benché non fosse del tutto sicuro di cosa si aspettasse di trovare. Rifece due volte il giro, muovendosi ogni volta più lentamente. I facchini, inattivi in attesa di un nuovo carico, erano divertiti alla vista del loro direttore fuori dall’ufficio e lontano dalla pesa. Furono ancora più divertiti quando si stese a terra e iniziò a penzolare per metà oltre il bordo della banchina, come uno che ha bevuto troppo. Senlin ignorò le risatine.
Non ci mise molto a trovare quello che stava cercando: una fune di seta accuratamente legata a un occhiello vicino al bordo della parte inferiore del pontile. Non riusciva a vedere dove terminasse la corda, perché andava verso il basso e oltre il margine della Torre, ma era certo che conducesse ai Bagni. La Mano Rossa si era fatta una lunga e infida scalata, ma una rapida scivolata di ritorno. Senlin avvicinò un coltello dalla lama uncinata alla corda e la recise.
Una cosa era certa: qualcuno nel Porto di Goll aveva assicurato la cima e poi l’aveva lasciata cadere. A Nuova Babele qualcuno era in combutta con il commissario.
Più tardi quella mattina, quando Iren fece irruzione nel suo ufficio, Senlin era pronto. La ricevette con calma, i gomiti appoggiati alla sua assurda scrivania-prua e le punte delle dita che si toccavano. Lei allungò la mano, grossa come un piatto da portata, in attesa della busta piena di denaro e con il riepilogo delle importazioni.
«Non sai leggere» dichiarò Senlin, «il che significa che non sai scrivere, il che vuol dire che sei più indifesa di quanto dovrebbe essere una donna della tua statura.»
Le rughe della sua ampia fronte liscia si inclinarono verso il basso, puntando verso un profondo e terrificante sguardo corrucciato. Con studiata lentezza, si slacciò la catena dalla vita. Gli anelli sferragliarono, raddrizzandosi al suo fianco. Senlin osservò tutto ciò con un piccolo sorriso implacabile. Iren adottò una postura da combattimento, il cuoio del suo grembiule scricchiolò attorno alle cosce grosse come tronchi, i piedi che quasi toccavano le pareti della stanza.
Senlin si rifiutò di trasalire, anche quando l’amazzone cominciò a far roteare la catena sopra la testa. Lo spazio stretto si riempì del sibilo dell’arma. Iren la allungò, lasciando andare un anello alla volta, finché l’uncino all’estremità non sfrecciò a pochi centimetri dagli scaffali. L’alberello di timbri sulla scrivania tremò. Le sfere dell’abaco vibrarono e i fogli svolazzarono. Era come se nell’ufficio di Senlin fosse scoppiata una tempesta.
In mezzo a tutto ciò, lui la guardava con pazienza. «Mi sono abituato alle minacce di morte, Iren. Mi annoiano. Staccami la testa oppure siediti.»
Con il viso che si faceva rosso, l’amazzone spinse il contrappeso uncinato della catena vicino alla sommità del cranio del direttore. Senlin sentì i capelli che si dividevano per la corrente d’aria. Dovette alzare la voce per sovrastare il gemito della catena. «Non puoi prendere a pugni un libro per capirne il senso. Non puoi seviziare una lettera per farla parlare. Non puoi strangolare un cartello perché ti dia indicazioni. Dovunque tu guardi ci sono segreti che sono noti agli altri e non a te. E per questo sei vulnerabile. Ma, se me lo permetti, posso aiutarti.»
Poco a poco la sua rabbia diminuì e la catena rallentò finché, con un ultimo strattone, si fece saltare l’uncino in mano. Respirando pesantemente, si riavvolse la catena attorno alla vita. «Che cosa vuoi da me?» chiese nel suo mesto tono baritonale.
«Lo vedi questo?» Senlin alzò il mento per mostrarle il vistoso ematoma alla gola. «Ho bisogno che mi insegni come evitare che accada ancora. Ho scritto una lettera a Goll domandando di consentirti di addestrarmi a difendermi. Penso che vorrà evitare che il suo investimento, ovvero il qui presente, venga strangolato nel sonno. Sono certo che hai saputo della notte scorsa.» Iren ispezionò l’ematoma con il vago interesse di un’esperta. Non sembrava troppo impressionata. «Un’ora al giorno» continuò lui, sbrigativo. «Passeremo i primi trenta minuti ad allenarci, e i successivi trenta a leggere. Che ne dici?»
«Il signor Goll non vuole che spreco tempo sui libri.»
«Allora non dirglielo» rispose Senlin, porgendole la lettera che aveva preparato. «È l’ultimo dei nostri problemi. Io mi sentirò molto debole, e tu molto stupida. Ma all’inizio è sempre così. L’apprendimento comincia dai fallimenti.»
Iren esaminò il viso dell’uomo magro come uno stecco e dagli occhi limpidi che le stava seduto davanti, cercando tracce di scaltrezza o pietà, che l’avrebbero fatta calare su di lui come una ghigliottina. Prese una decisione, annuì e disse: «Va bene». Afferrò la lettera e uscì con passo pesante dalla stanza. Era stata la conversazione più lunga che Senlin avesse mai avuto con lei.