Capitolo due

La maniera più semplice per rendere il mondo misterioso e terrificante per un uomo è dargli la caccia.

La Torre di tutti, i travagli di uno
T. Senlin

La galleria era così grezza e irregolare da sembrare scavata da un verme mostruoso. Niente corrimani in ottone, niente tappeti arabescati o pannelli bianchi. Il passaggio era poco invitante, come il pozzo di una miniera. Il vapore dei motori si attaccava alla pietra come nebbia su un vetro, per cui ogni passo finiva con una sconsiderata, instabile sbandata. Una fila di lampadine elettriche, gialle come tuorli d’uovo e a malapena più luminose, penzolava dal soffitto. Nella penombra Senlin non vide nicchie in cui nascondersi né incroci da imboccare a perdifiato. L’unico modo per sfuggire all’amazzone che gli stava alle calcagna, la catena che tintinnava come un tamburello, era seminarla.

Una massa scura e oscillante bloccava e disperdeva la luce più avanti. Il carro a motore. Le elaborate ombre di una decina di donne animavano le pareti quando il mezzo veniva illuminato da una lampadina. Procedeva a un ritmo talmente lento che equivaleva al muro in fondo a una strada senza uscita. Ogni tentativo di aggirarlo sarebbe certamente terminato con Senlin schiacciato contro la parete di roccia. Non aveva altra scelta che passare da sopra. Balzò sul paraurti, urlando: «Fate strada! Largo! Largo!» mentre metteva una gamba oltre il portello di carico.

La frustrazione delle donne, già pressate contro i bordi del cassone come profughi su una zattera, esplose improvvisamente. Quelle che riuscirono a trovare spazio per sollevare le braccia lo colpirono nelle costole, tra le scapole; altre gli strillarono improperi nelle orecchie. Senlin si incuneò tra loro con una litania di scuse. La loro collera ebbe perlomeno un effetto positivo: impedire all’amazzone di salire a bordo. Veniva respinta da una valanga di calci e pestoni. Sembrava esitante a farsi strada fra quelle donne, benché Senlin non avesse alcun dubbio che ci sarebbe riuscita con facilità, come un leone che si muove in mezzo all’erba.

Il preside sfruttò quell’attimo di confusione per inerpicarsi sul posto di guida. Puntò un piede sulla traversa posteriore, si aggrappò al sedile e si issò. Il conducente, i cui capelli bianchi svolazzavano nel vapore del motore, si spaventò quando Senlin gli apparve accanto. Con un gracchiare catarroso si rannicchiò nell’angolo della panca come un cane preso a calci.

Senlin si scusò di nuovo, anche se il fragore dei pistoni inghiottì le sue parole. Il motore era bizzarramente alloggiato in un fumaiolo che mugugnava davanti a loro e oscurava gran parte della galleria e della fila di lampadine con un enorme fungo di vapore.

Capendo che l’unica maniera di fuggire era scavalcare il motore, cercò un punto d’appoggio tra le bielle arpionanti e le cinghie sferzanti. Esitante, mise un piede avanti, e gli venne spinto via dal braccio di un pistone. Un polsino gli si impigliò in qualcosa, all’altezza dell’anca. Girò la testa e vide cosa lo tratteneva. Una mano possente si allungava sopra le teste dei passeggeri furibondi. L’amazzone lo inchiodò con uno sguardo crudele e serrò la presa; sembrava sul punto di trascinarlo giù, quando una delle donne le affondò i denti nell’incavo del braccio, facendola vacillare quel tanto che consentì a Senlin di liberarsi.

Non era tempo di esitare. Il preside appoggiò una mano sulla cupola incrostata di calcare della caldaia. Una terribile fitta gli percorse il braccio quando gli si ustionò la pelle, ma non si ritrasse. Raccolse le gambe sotto di sé e si lanciò in avanti, scavalcando il blocco frontale della dinamo come un ragazzino che salta una staccionata. Fu un miracolo se non si ruppe entrambe le caviglie quando atterrò o non finì sotto le ruote del lento carro a motore. In qualche modo riuscì a restare in piedi. Strinse a pugno la mano ustionata, come se così potesse schiacciare e rimpicciolire il dolore pulsante, poi riprese a correre.

Presto il passaggio sfociò in una caverna, grande come l’isolato di una città, in cui era stato infilato un caotico scalo merci. Decine di facchini sciamavano per scaricare carretti e slitte. Conducenti faticavano per invertire il senso di marcia dei carri nello spiazzo di ghiaia, mentre altri uomini sedevano sulla sommità di piramidi di casse, a bere direttamente dalle bottiglie e infastidire gli amici. Quello che Senlin inizialmente scambiò per una rissa si rivelò essere una chiassosa partita a carte in cima a un barile di salamoia. Un austero edificio a due piani si ergeva come un nonno sordo in mezzo al trambusto, i timpani intonacati di bianco e le travi a vista sembravano vecchie quanto i segni di scalpello sulle pareti della caverna. Per un attimo fu divertito nel pensare che quel luogo privo di attrattiva fosse quasi omonimo della Torre, insignito del nome di “Nuova Babele”. Presto però riconobbe quello spazio per ciò che era: una cavità secondaria nell’enorme sovrastruttura della Torre. Non era ancora giunto nel Regno di Nuova Babele. Quel posto era semplicemente una stazione di pesa. Andò avanti, tenendo la tracolla stretta al petto.

Era quasi come farsi strada attraverso una mandria di bovini al pascolo. Doveva prestare particolare attenzione a dove metteva i piedi. Scavalcò un mucchietto di mele marce, danzò tra schizzi di catrame fresco e si mosse cauto attraverso della limatura di ferro, che sembrava perfetta per trasmettere infezioni letali. Mentre si destreggiava tra i trabocchetti dello scalo, cominciò a domandarsi perché mai l’amazzone lo stesse inseguendo. Aveva reagito al suo nome come se fosse stata in attesa di sentirlo.

Ripercorse la sua scarna lista di nemici. Gli pareva improbabile che fosse al soldo del commissario. Anche se la sua influenza si fosse estesa fino a Nuova Babele, la notizia del suo furto non poteva aver viaggiato più velocemente di lui.

Forse l’amazzone rispondeva al misterioso Conte, che sapeva dello sposo suo rivale e poteva aver ragionevolmente concluso che fosse più semplice far uccidere Senlin che rischiare un possibile scontro. D’altra parte nemmeno il Conte aveva modo di conoscere la direzione che avrebbe preso Senlin. Esistevano decine di porti e varchi di accesso, forse centinaia. Come poteva controllarli tutti? E non solo, ma perché prendersi il disturbo di farlo? Nel quadro complessivo il Conte aveva ben poco da temere dallo squattrinato e debole cornuto di un misero villaggio di pescatori.

Quando Senlin ebbe raggiunto la prosecuzione del tunnel, al capo opposto della caverna, era certo che non ci fosse il Conte dietro tutto ciò. Ma se non c’era lui, e neanche il commissario, allora chi c’era, e perché?

Portò con sé quelle domande nella bocca della galleria poco illuminata, dove una scia di luci rischiarava la strada buia per Nuova Babele.

Viticci color indaco lampeggiavano sulla città.

La paura di Senlin avvizzì davanti a quello spettacolo. Cercò qualche analogia in esperienze passate, qualche teoria che gli desse un senso, ma non ebbe risposta dalla storia. Quanto stava vedendo andava oltre l’immaginazione e gli studi di un povero preside; si trovava appena al di là della soglia della galleria, intento a fissare a bocca aperta un monolito in lontananza, sormontato da una cupola e circondato da un alone di fulmini blu.

Era difficile guardare direttamente le frastagliate spine di elettricità che balzavano contro le barre sulla cupola. Quest’ultima torreggiava sugli edifici spogli e senza finestre della città che, a parte una sporadica porta, sembravano impenetrabili come mattoni. Pipistrelli volteggiavano attorno al nido di fulmini, tagliando tra nubi di falene che sfrigolavano vicino alla sommità del monolito. Ogni secondo, decine di falene svolazzavano negli archi di elettricità e venivano folgorate all’istante. Anche osservato da lontano, il fulmine crepitava e ruggiva, il rumore forte come quello di una cascata. Senlin dovette distogliere lo guardo prima che quello spettacolo lo catturasse completamente.

E poi all’improvviso la tempesta di scintille indaco terminò, e il buio che ne prese il posto sembrò tanto spaventoso e totale che Senlin si chiese se non fosse morto.

Ma era solo il finto buio che circonda un fuoco da campo. Dopo un momento i suoi occhi si abituarono, e Senlin notò decine di lampioni elettrici che vegliavano con il loro tenue bagliore su un reticolo di strade lastricate. Automobili e vetture a vapore dei modelli più strani scorrevano in flussi di traffico complicati, prossimi all’entropia. Le luci in movimento dei veicoli sobbalzavano e correvano come spettri in una palude di vapore.

Un tamburello tintinnò alle sue spalle e il suo istinto di mettersi a correre prese il sopravvento con tale violenza che Senlin balzò dall’incrocio in cui si trovava direttamente in strada, senza nemmeno un’occhiata per precauzione.

Comprese quasi subito che quel riflesso era fatale.

Nell’esatto momento in cui sbandava in avanti, un’alta carrozza sopraggiungeva a rotta di collo da dietro la curva. Il suo fumaiolo pompava vapore denso come un impasto umido. L’uomo con gli occhialoni al posto di guida si accorse di Senlin e si irrigidì, allarmato, ma l’angolo della sua sterzata e il traffico intenso non gli lasciavano spazio per deviare. Senlin ebbe a stento il tempo di rannicchiarsi prima dell’inevitabile.

Un lampo argenteo serpeggiò tra i raggi della ruota posteriore della carrozza. Il metallo fluido si irrigidì all’improvviso, quando la catena con rampino si tese completamente. Ebbe sul mezzo lo stesso effetto di una gamba spezzata per un cavallo. L’uncino scardinò una mezza dozzina di raggi, e la carrozza che sbandava verso di lui si affossò sulla ruota rotta. L’altro capo della catena, avvolto attorno al lampione all’angolo, lo sradicò.

La carrozza scartò violentemente sul marciapiede, sbalzando il conducente occhialuto via dal suo alto sedile. Il lampione si abbatté sulla carrozza che sbandava e il colpo fece bloccare il motore proprio ai piedi di Senlin. Un vulcano di vapore gli eruttò accanto quando un pistone si staccò dal suo spinotto e martellò il terreno con furia cieca. Ebbe giusto il tempo di chiudere gli occhi e immaginare Marya prima che la caldaia esplodesse. La copertura a cupola in ottone volò come sparata da un cannone. Rimbalzò una, due, tre volte sul manto stradale, incidendolo come se fosse stato di sabbia bagnata, prima di scavare un cratere nell’angolo di un edificio ad almeno un isolato di distanza.

Quando Senlin si voltò, gli arti pietrificati in una morsa di terrore, vide l’amazzone che lo fissava da dietro i rottami. Con uno strattone liberò la catena dalla devastazione. Come fosse riuscita ad arpionare a un lampione una carrozza in corsa era disorientante quanto il perché l’avesse fatto. Lo aveva salvato, e poteva voler dire solo una cosa: stava cercando di catturarlo vivo. Qualcuno aveva dei progetti per lui. Non aveva idea di quali fossero, ma sospettava fortemente di non volerlo scoprire. Ritornato in sé, Senlin arrancò in mezzo al traffico che aveva iniziato a intasarsi attorno all’incidente. Studiò l’area circostante a caccia di un riparo. Vide soltanto file di costruzioni, vicine l’una all’altra come lapidi in un cimitero di poveri. Non riusciva a distinguere uffici, fabbriche, negozi o case, perché erano tutti scatole uniformi di cemento.

Tranne uno.

Attraverso la foschia, in fondo alla strada a qualche isolato di distanza, un disco rotondo di luci colorate brillava come un faro. Correndo in quella direzione, presto capì che si trattava di un rosone collocato in alto, nel frontone di un edificio rivestito completamente di stucco bianco. Le ampie porte erano spalancate e accoglienti. Forse era una missione. In un impeto di ottimismo, Senlin si chiese se gli avrebbero offerto riparo. Quando lo raggiunse, senza fiato e con i crampi alle gambe, era ebbro di speranza. Le lettere in stampatello dipinte sull’ampio architrave dicevano: CASA DEL CHROM BIANCO. Anche il nome sembrava quello di una missione.

Si guardò alle spalle, verso la strada piena di motori rumorosi. Tra i pedoni, tutti vestiti degli abiti scuri tipici degli operai, non c’era traccia dell’amazzone. Tremò nella fredda umidità e sbirciò attraverso le porte. Un soffio caldo gli colpì il viso. L’aria all’interno sembrava satura di polvere di gesso, come se qualcuno avesse sbattuto dei cancellini. Non riusciva a immaginare uno scenario più accogliente. Abbassò la testa ed entrò.

Quando comprese di trovarsi in un covo di drogati, ormai era troppo tardi.