Capitolo tredici

Chiedi a tutti quelli che incontri: «Non ti manca il sole? E la luna?». Ti risponderanno: «Ti mancano i colpi di calore? Ti mancano i lupi che ululano?».

Guida per tutti alla Torre di Babele, III, XII

Il Mercato si estendeva trenta metri più in basso, intricato e variopinto come una trapunta patchwork. Senlin picchiò con violenza contro la porta di ferro brunito, facendo tremare la gabbia. Ogni punto di giuntura scricchiolò e i due furono investiti da una nevicata di ruggine. Un anello di ferro sotto di loro si spezzò. Edith lo esortò a smetterla, avvolgendogli infine le braccia attorno al collo. Senlin non la sentiva nemmeno, tanto forte era il frastuono che produceva. Aveva deciso di non sentirla.

Il segretario gli aveva promesso una conclusione rapida e una stanza privata. Dopo tutto quello che aveva sopportato, doveva credere fosse una svista. Era stato commesso uno sbaglio! Ma perché mai visitare il Salotto? Erano tutti dei sadici? Quello era un manicomio!

Picchiò ancora una volta contro la porta, ansimando, la bocca secca. Lasciò che Edith lo tirasse indietro e le crollò praticamente addosso, poi si aggrappò alla gabbia per calmare le vertigini.

«Ti è mai capitata una cosa simile?» le chiese.

«Credi che se mi fosse capitata sarei tornata qui?» Sembrava un po’ più tranquilla di lui, benché le tremasse la voce. Guardò giù, attraverso il reticolo del pavimento. «Quanti anni ha questa gabbia? Pare sul punto di cedere da un momento all’altro.»

Senlin ricordava con precisione il suono raccapricciante che aveva prodotto l’aeronave quando si era schiantata al suolo. «Parliamo di qualcos’altro» le propose. Non voleva pensare a chi avrebbe frugato nelle sue tasche se fosse precipitato.

La loro stia era in maglia di ferro su tutti i lati e grande circa come il letto di un bambino. C’era spazio a sufficienza per sedersi con la schiena appoggiata a una delle pareti, ma non per stare in piedi. Non avevano altra scelta che rimanere appiccicati l’uno all’altro, il che incrementava l’angoscia di Senlin. Deglutì a fatica e disse: «Non capisco. Lo sanno benissimo che non abbiamo fatto nulla di male».

«Come potrebbero? I testimoni sono tutti morti» rispose Edith.

Senlin spiegò la sua teoria sugli spioncini di ottone nelle pareti della villa e gli impiegati intenti a sorvegliare che aveva visto nel corridoio dietro le quinte. Lei si tirò su la scollatura del vestito, che continuava a scivolare verso il basso. «Non mi era mai venuto in mente che qualcuno stesse guardando… oh.» Restò un attimo in silenzio, forse intenta a ripercorrere una quantità di situazioni nella memoria. «Quegli spioncini erano in tutte le stanze.»

«Se può farti sentire meglio, non penso che adesso qualcuno ci stia spiando» disse Senlin, asciugandosi il sudore che gli colava sul viso.

Il sole li bersagliava senza pietà. Lui improvvisò un riparo con la giacca da maggiordomo, infilando le maniche tra gli anelli in alto e infilzandole a dei fili esposti. Edith allargò le spesse gonne in modo che il suo compagno di sventura ci si potesse sedere sopra, così da attenuare la sensazione pungente delle maglie di ferro sotto di loro. La ringraziò come se gli avesse fatto spazio su una panchina al parco. Ascoltarono la cacofonia del Mercato, il bramire dei cammelli e le grida degli imbonitori. Il canto dei fischi dei treni in lontananza veniva portato in alto e poi trascinato via dal vento secco.

La luce abbagliante del sole si spostò dietro la Torre e scese la notte artificiale. Senlin riuscì a vedere meglio la facciata intorno a loro e scoprì che esaminarla era una distrazione indispensabile. Le mura erano di calcare grezzo. Qua e là vecchi nidi di uccelli, apparentemente disabitati, spuntavano dalle crepe tra i blocchi. Altre gabbie, simili alla loro ma vuote, erano affisse a una certa distanza a destra e a sinistra. Alzare gli occhi sulla Torre attraverso un varco nel riparo improvvisato con la giacca gli provocò un attacco di vertigini tanto forte che dovette subito distogliere lo sguardo. Non aveva importanza. C’era poco da vedere. Delle piattaforme distanti sporgevano dalla Torre come spine da uno stelo. Ipotizzò che potesse trattarsi di porti per le aeronavi, ma era solo una supposizione. Per il resto, la facciata appariva ampia e disabitata come un deserto.

A parte il ragno meccanico. La macchina, delle dimensioni di un grosso cane, era al tempo stesso spaventosa e meravigliosa mentre strisciava sulla curvatura della Torre. Il vapore sibilava dalle giunture delle otto zampe d’acciaio. Gli ingranaggi interni erano visibili attraverso lo scheletro di rame. Era il più elegante e intricato meccanismo a orologeria che Senlin avesse mai visto. Mentre si avvicinava, scorse una luce rossa, penetrante come un rubino, che pulsava regolare nel cuore del congegno.

Senlin era troppo stupito per avere paura della macchina ticchettante, ma rimase prudentemente in silenzio quando la indicò a Edith. Lei fece un sospiro profondo e gli strinse il braccio. Il ragno meccanico, però, non era interessato a loro. Si muoveva furtivo, con la sicurezza di una mosca su un muro, le sue zampe terminavano con dei cuscinetti di gomma. Proprio quando Senlin era sul punto di domandarsi se quella cosa non fosse altro che uno straordinario giocattolo, capì qual era la sua funzione. Stava riparando la Torre. Ispezionava la facciata in cerca di imperfezioni che sistemava spruzzando una sorta di gel, che si induriva rapidamente e dopo poco tempo luccicava come quarzo. Senlin osservò la macchina spostarsi da una fenditura all’altra, strappando nidi di uccelli e rattoppando le fessure, finché non sparì di nuovo dalla vista.

Era un piccolo automa geniale, pratico ed efficiente, che gli diede un po’ di speranza. La Torre non era solo terrore e confusione. C’erano delle cose meravigliose in quel luogo.

Benché tutte le cose meravigliose sembrassero piccole e lontane.

Nessuno dei due fece ipotesi ad alta voce su quanto sarebbero stati trattenuti, se qualcuno avrebbe portato loro cibo e acqua, o se quella gabbia sarebbe stata la loro tomba. Dare voce a pensieri del genere avrebbe solo reso più insopportabile l’attesa. Dopo un’altra mezz’ora di silenzio, però, Edith si lasciò sfuggire un improvviso lamento esasperato e disse: «Sto per impazzire! Ho passato in rassegna ogni situazione imbarazzante che le spie potrebbero aver visto e ogni maniera in cui potremmo morire in questo pollaio!».

Senlin si schiarì la voce. «Anch’io. Inizio a domandarmi quanti avvoltoi debbano appollaiarsi su questa gabbia perché il loro peso sommato al nostro sia tale da…»

«Dobbiamo parlare di altro» lo interruppe lei, battendosi le mani sulle cosce. «Allora, ti chiami Thomas Senlin, sei un preside e sei sposato.» Erano tutte informazioni venute fuori durante l’interrogatorio del segretario. «Da tanti anni?»

«No.» Normalmente la sua risposta sarebbe terminata così, ma qualcosa lo spinse ad aprirsi di più. Forse solo lo spirito di squadra che scaturisce per forza di cose da un trauma condiviso. O forse, e a malapena poteva ammettere l’eventualità, era vagamente conscio che quel momento non era privo di… intimità, e che l’intimità portava con sé la tentazione. Per scacciare quel flusso di pensieri disse di getto: «Sono in viaggio di nozze. Siamo in viaggio di nozze».

Se si fosse messa a ridere non gliene avrebbe fatto una colpa. Ma non successe, e la sua risposta tardò ad arrivare. Edith si grattò via il sangue secco dalla guancia. Sembrava stesse cercando di decidere se porre o no la domanda più ovvia: “Dov’è tua moglie?”.

Senlin fu un po’ stupito, ma sollevato, quando lei invece cominciò a raccontare il proprio passato. Dal momento che non c’era altro da fare, i suoi aneddoti si tramutarono presto in una storia, abbellita con ogni genere di dettaglio. Lui era sempre in difficoltà con le confessioni prolisse. Non sapeva mai cosa dire. Eppure, man mano che Edith proseguiva, cominciò a rilassarsi. Non corrispondeva per niente all’idea che si era fatto di lei quando se l’era trovata davanti la prima volta, nel vestito color pesca a dargli ordini come a un lacchè. Non era melodrammatica né vanitosa. In realtà era piuttosto simpatica. Gli piaceva.

Gli raccontò dei terreni di famiglia e degli ettari che era sua responsabilità seminare. Quando descriveva il suo talento per l’agricoltura c’era orgoglio nella sua voce. Sapeva se era il caso di sacrificare i filari malati, come preservare il raccolto in periodi di siccità, come stanare i capisquadra disonesti, gli ubriaconi, e dove reclutare i sostituti. Aveva due fratelli, entrambi più grandi ed entrambi privi di talento o interesse per l’attività di famiglia. Gestivano infatti appezzamenti più piccoli e con scarsi risultati. Suo padre, che desiderava trascorrere la vecchiaia cacciando e spremendo la frutta del suo frutteto per fare il sidro, era molto orgoglioso di lei. La chiamava la “generalessa del giardino”.

Poi, poco più di un anno prima, l’aveva persuasa a sposare un amico di famiglia, un certo Franklin Winters, proprietario di un vigneto moderatamente produttivo. Lei, la generalessa che non aveva bisogno di un marito, aveva acconsentito solo perché suo padre aveva fatto leva sull’argomentazione che entrambi avevano tentato per anni di evitare: i suoi fratelli erano irresponsabili, pigri e, peggio ancora, sleali. Se avesse lasciato a loro la terra, l’avrebbero venduta e sperperato il profitto. Una donna non sposata, però, non poteva ereditare il suo patrimonio: sarebbe stata esposta ad azioni legali, non da ultimo da parte dei fratelli. Con un marito, invece, sarebbe stata al riparo da tali attacchi e avrebbe continuato a gestire la fattoria come voleva.

Franklin Winters era un compagno abbastanza innocuo. Era scarno e insipido di carattere, ma non aveva debiti e i suoi dipendenti lo consideravano giusto, e lei lo aveva interpretato come un buon segno. Cosa più importante, si era detto disponibile ad accettare le condizioni del loro matrimonio: il suo ruolo nella gestione della fattoria non sarebbe cambiato. Sarebbe rimasta la generalessa. Lui aveva acconsentito, ma a sua volta a una condizione. La moglie avrebbe potuto continuare a guidare la fattoria finché non fosse stato un rischio per la sua salute.

Edith non era una sciocca. Sapeva che Winters si aspettava che rimanesse incinta e che intendeva usare la gravidanza come scusa per allontanarla dai campi. Anche suo padre sperava avesse dei bambini e continuasse la stirpe. Per lei tutto ciò era ridicolo. Dalla sua faccia era evidente che la maternità non la attirava. Aveva acconsentito alla richiesta di Winters solo perché sapeva che non sarebbe mai stata un problema. Era sana e anche sterile, conseguenza di una caduta da cavallo anni prima. Un fatto di cui solo lei e il medico della contea erano a conoscenza.

Le condizioni erano state messe nero su bianco, era stato firmato un contratto e si erano sposati. Poco dopo essere diventata la signora Winters, in una cerimonia da lei descritta come priva di sentimento, Franklin aveva trovato una scusa per sfruttare il contratto. Edith aveva sviluppato una leggera allergia a un’erba infestante che cresceva in primavera. Gli stessi lunghi fili d’erba che un tempo aveva masticato abitualmente quando percorreva i campi appena arati per saggiare la fertilità del terreno. La fioritura di quell’erba aveva iniziato a farla starnutire. Un pretesto che era bastato a Winters per costringerla a scendere da cavallo. Non importava che metà dei capisquadra avesse un disturbo o quell’altro: gotta, sifilide o cataratta. Edith aveva dovuto appendere le redini al chiodo, riporre gli stivali da lavoro, annodarsi un nastrino al cappello di paglia e accettare di essere troppo delicata per gestire una fattoria. Sospettava che fosse una punizione per non aver dato alla luce un figlio. A dirla tutta, Winters stesso non era stato in grado di offrire un gran supporto all’impresa.

Senlin sarebbe arrossito se non fosse già stato paonazzo a causa del calore. «Quindi hai divorziato?»

«Io sì» disse lei. «Lui però non ha ricambiato il favore.»

«Non capisco.»

«Nemmeno io!» Rise e un refolo di aria calda le arruffò i capelli sul viso. «Ha rifiutato di concedermi il divorzio, quindi io mi sono rifiutata di restare.»

«E sei venuta qui, quindi…»

«A scialacquare i suoi soldi, i miei soldi.»

«A impersonare la moglie di un uomo di mondo» disse Senlin allegramente. Vide che lei si rabbuiava e fece una smorfia contrita.

«Era uno stupido spettacolo.» Edith spinse verso il basso le gonne di crinolina che si gonfiavano come palloni. «Dovevo fare la bambolina elegante mentre quei due cretini parlavano di affari. Nessuno dei due ne sapeva nulla, di affari. Il mercato azionario del cuore! Ti prego! Se non è quantificabile, non è una quota azionaria. E, per quel che ne so, nessuno conosce il peso dell’amore, il suo volume, se può essere diviso o ricombinato… Quante unità di amore ci vogliono per creare una relazione? Cinque? Venti? Il mercato azionario del cuore! Se quell’idiota non fosse impazzito l’avrei fatto io.» Stava quasi farneticando, ma nelle sue parole c’era una gradita sfumatura ironica.

Prima che Senlin potesse rispondere, il portellone si aprì. Entrambi scattarono in avanti e furono accolti dalla faccia di un giovane con un sorriso ampio sotto un paio di baffi ben impomatati.

«Mio Dio, fa caldo» disse la faccia, e venne momentaneamente nascosta da un fazzoletto, mentre il nuovo arrivato si tamponava la fronte con il quadrato di pizzo.

«Devi lasciarci entrare! È assurdo, siamo in pericolo qui fuori!» Senlin non riuscì a nascondere la disperazione. «Non abbiamo fatto niente di sbagliato.»

«Sì, no, capisco, ma prima devo indagare sul vostro caso, o si limiteranno a ributtarvi fuori.»

«Indaga più in fretta, allora» disse Edith.

Il giovane si schiarì la voce. «Sono l’assistente cancelliere. Mi chiamo Anen Ceph e oggi vi assisterò.» Parlava facendo un sacco di pause e singulti, e nel suo modo di fare Senlin riconobbe un dilettante.

«Più in fretta» ripeté Edith.

«Ho terminato la mia indagine, e ho riferito quanto scoperto al cancelliere, e ha replicato con la sua sentenza…»

«Chi è il cancelliere? Che autorità ha?» lo interruppe Senlin.

Ceph sorrise, le rughe attorno alla bocca si incresparono. «Che senso dell’umorismo meraviglioso!» Poi, altrettanto rapidamente, la sua espressione si appiattì, come il fango di una palude che si chiude su un’impronta. «Lei, signor Thomas Senlin, verrà accompagnato al terzo piano, davvero un bel posto. Le piacciono i pavoni?»

«Non ho un’opinione in merito.»

«I Bagni sono pieni di pavoni, stazioni termali e sorgenti calde.»

«Eccellente. Portaci là» disse Edith.

«Ah be’.» Il sorriso gli arricciò il naso, facendolo apparire ancora più giovane. «La signora Edith Winters non andrà al terzo piano. Sarà espulsa e rimandata al Basamento.»

«Espulsa? Perché? Mi avete rinchiusa insieme a un omicida e sono stata aggredita.»

«Non io. Io non l’ho rinchiusa da nessuna parte e lei, da quanto ho capito, aveva una chiave e ha fatto il suo ingresso in quella specifica scena del Salotto volontariamente.» Senlin avvertì nella risposta di Ceph la strisciante codardia dell’amministratore. Il ragazzo era un perfetto burocrate. «Ci sono due aspetti della questione. Primo: il problema della sua uscita. Contro le regole. Come le era stato detto, tutti i personaggi devono uscire nel loro corridoio di provenienza.»

«Eravamo inseguiti da un pazzo con un moschetto!» replicò Edith, puntando il dito un po’ troppo vicino al naso del giovane per i suoi gusti.

«Sì, ma resta il secondo problema. I fuochi, signora Winters» proseguì. «Ha acconsentito, al suo ingresso nel Salotto, ad attizzare i fuochi nelle stanze in cui sarebbe entrata. Abbiamo le prove del signor Senlin che adempie a questa piccola incombenza, ma lei, a quanto pare, è stata negligente. Di conseguenza alcuni fuochi si sono spenti.»

«E che importa? Datemi un fiammifero e ve li riaccendo.»

«Il danno è fatto, temo. Verrà rimossa, e non le sarà consentito di rientrare nel Salotto. È una decisione del cancelliere e…»

«Mi scusi» lo interruppe Senlin. Usando il tono di voce che impiegava a lezione disse: «Giovanotto, siamo feriti. Pericolosamente sospesi a una notevole altezza. Abbiamo fame, sete e siamo spaventati. La esorto a far ritorno dal suo superiore, questo suo cancelliere, con un messaggio preciso: saremo messi in libertà e proseguiremo, tutti e due, fino ai Bagni. Insistiamo affinché ci sia concessa l’opportunità di spiegarci nei vostri tribunali, quali che siano, e vogliamo essere rimossi da questa gabbia inumana in cui ci avete imprigionato ingiustamente». Parlò con una sicurezza e una veemenza che non sentiva.

La cosa sembrò infrangere per un momento la maschera zelante di Ceph, ma il giovane si ricompose in fretta e recuperò il sorriso. «Parlerò con il cancelliere e farò ritorno. Nel frattempo, ho la cena.» Ceph allungò attraverso il portellone una fiaschetta di latta e un piccolo sacchetto di pane dalla crosta dura.

«Per favore, ci lascerebbe attendere all’interno?» chiese Edith, frenando la rabbia per un momento. Ma l’assistente aveva già chiuso il portellone. Lei picchiò con il palmo contro la piastra chiusa. «Stupido!»

Crollarono di nuovo seduti, ammutoliti dalla frustrazione. A circa mezzo chilometro di distanza un’aeronave, decollata evidentemente da poco, stava virando sopra al Mercato. Da quell’angolazione Senlin riusciva a distinguere la gondola, simile a una chiatta dalla prua squadrata, e il fitto sartiame che la legava al pallone. Il voluminoso contenitore di gas era tondo e rosso come una palla per giocare. Provò una fitta di invidia. Oh, volare! Essere una mongolfiera, un aquilone!

Edith fissava in silenzio la distesa disordinata del Mercato, finché disse: «Sai cosa fanno quando ti buttano fuori per assicurarsi che non ritorni, Tom». Usò un tono tanto intimo che Senlin si sentì privo di difese. «Mi marchieranno.»