Capitolo uno
Il secondo volume della serie Guide per tutti descrive le tante meraviglie di Nuova Babele: il Nido del Fulmine, le cappelle del Chrom, la fauna di falene e pipistrelli, e come si è guadagnata lo stuzzicante appellativo di Boudoir. Chiedetene oggi stesso una copia al vostro libraio!
Guida per tutti alla Torre di Babele, V, XXII
Il galeone gli oscillava sotto i piedi. Le nuvole migravano al di sopra delle montagne lontane come pecore senza pastore. Forse la nave era ferma ed era il mondo a dondolare. Era difficile a dirsi. Senlin sapeva che stavano salendo per via della crescente pressione nelle orecchie ma, altrimenti, volare non era per nulla l’esperienza atroce che aveva immaginato. Era piuttosto tranquilla. Ricordava di aver letto che la tranquillità era spesso un segno di shock. Gli venne in mente che stava prendendo piuttosto bene la notizia che Marya era stata rapita da un aristocratico straniero. Troppo bene. Forse non ci credeva ancora, o magari si era preparato a un destino ben peggiore. Perlomeno era viva. Qualunque fosse il motivo, per il momento, non aveva importanza da dove provenisse quel senso di pace o quanto sarebbe durato.
Il mondo gli roteava attorno come una cameretta attorno alla culla. La nave era costruita con materiali noti per la loro leggerezza: legno di pino, corda e vimini. La balaustra lì vicina e la panca su cui era seduto erano entrambe di bambù. Tutto scricchiolava come vecchi cardini e strideva come i grilli. Il vento soffiava attraverso ogni cosa. Sedeva con una ventina di donne nella poppa della nave. La sua statura e gli abiti relativamente nuovi lo facevano spiccare come un airone tra i gabbiani. I loro vestiti e i sarong erano macchiati e laceri. Avevano capelli sfibrati e in disordine, situazione peggiorata dal vento, che li agguantava e glieli sbatteva sulle facce. Avevano tutte il viso esausto, con lo sguardo vitreo di un cerbiatto inseguito finché non era crollato. Ematomi, piaghe e macchie di terra pitturavano i loro volti. Una donna dai capelli biondi arruffati lo guardava di traverso mentre Senlin osservava. Gli sembrava vagamente familiare, ma non in modo significativo. Con ogni probabilità aveva un viso comune ed era incuriosita dalla presenza di un uomo su un traghetto in apparenza riservato alle donne. Arricciando il naso per mostrare di non essere impressionata da lui, la donna distolse di colpo lo sguardo.
Senlin si chiese come quelle donne fossero state a tal punto derubate della propria dignità e vitalità. Erano state adescate e tolte alle famiglie? Una volta erano state intrepide e avventurose, come Edith? Si erano recate alla Torre o ci erano nate? Si domandò se il loro destino fosse migliore o peggiore di quello della moglie.
Il Conte, o W. H. Pell, o chiunque fosse, si era dato parecchio da fare per indurre Marya a seguirlo di sua volontà. Significava che magari non le avrebbe fatto del male. Magari era un uomo spregiudicato e viziato dal suo rango, ma non sembrava uno psicotico. Non aveva ucciso Ogier, anche se avrebbe potuto farlo con facilità. Quando Senlin l’avrebbe trovato, e sarebbe successo, avrebbe per prima cosa tentato di ragionarci. Per il Conte sarebbe stato più difficile rivendicare la moglie di un altro se il marito fosse stato lì, davanti a lui.
E se la ragione non avesse funzionato, che avrebbe fatto? Cercò di immaginarsi a sfidare il Conte a duello, o qualcosa di altrettanto brutale e senza speranza. Non ci riuscì, non fu capace nemmeno di fantasticarci sopra. Nonostante fosse un uomo molto colto e saggio, davvero non aveva quasi idea di quello che era capace di fare. Conosceva proprio poco se stesso.
Ma allora perché continuava a divincolarsi tra le trappole della Torre mentre quelli che gli stavano accanto, come Edith e Tarrou, venivano catturati e puniti?
Erano più forti, più resilienti, meritavano più di lui una seconda occasione. Non sembrava per nulla giusto. Senlin sperava che Ogier venisse risparmiato, benché sembrasse improbabile. Pound avrebbe certo avuto dei sospetti. Avrebbe mandato i suoi agenti a mettere sottosopra l’appartamento di Ogier. Una volta trovato il dipinto rubato, sarebbe stato il turno della pesante Mano Rossa. Si sarebbe radunata una folla e una testa sarebbe caduta.
No. Ogier sarebbe fuggito. Era scaltro e accorto; non era impaziente di morire.
Senlin ricordò il regalo di cui aveva parlato il pittore, e in effetti la sua borsa era più pesante di prima. Aprì le fibbie di ottone e guardò dentro. Sul fondo la pistola a forma di chiave riluceva di olio fresco. Ogier l’aveva definita una chiave da carceriere e aveva descritto il suo originario doppio scopo: chiave di una cella e difesa contro i prigionieri turbolenti. Senza una serratura adatta, era stata ridotta a un solo scopo: quello di arma da fuoco. Senlin non ne aveva mai caricata una né aveva mai sparato in vita sua. Si domandava se non fosse giunto il tempo di imparare.
Mentre stava per richiuderla, notò nella borsa un bordo in legno mai visto prima. Estrasse per metà la cornice, il cui retro era foderato di carta, e riconobbe subito l’opera. Era il bozzetto del nudo di Marya, la copia che Ogier aveva tenuto nascosta al Conte. Il regalo più bello mai ricevuto. L’inattesa visione del suo viso e il suo caratteristico sorriso gli mozzarono il respiro. Sedette curvo sul dipinto come fosse una candela tremolante sul punto di spegnersi. La nostalgia lo attraversò come un brivido, gli tornarono in mente centinaia di ricordi vividi di lei. Li bloccò sul nascere schiarendosi la voce e facendo scivolare la cornice tra le pieghe segnate dal tempo della sua tracolla.
Gli unici altri beni che possedeva erano la Guida, con le sue pagine gonfie a furia di sfogliarle, pochi umili oggetti e il diario che aveva iniziato a tenere di recente. Se Tarrou fosse stato presente a quell’inventario avrebbe sottolineato la crudeltà dell’artista nel prendersi la bottiglia di grappa. Senlin trasalì al ricordo dell’amico spogliato e rasato. Tarrou era apparso miserevole come un orso che ha perso la pelliccia per la rogna.
Si ricordò che nel trambusto gli aveva fatto scivolare qualcosa in tasca. Frugò e tirò fuori un pezzo di carta da lettere piegato in un piccolo quadrato raggrinzito. Lo aprì e riconobbe il maestoso corsivo di Tarrou, che diventava più grande e affrettato sul finire della lettera.
Mio caro Tom,
perdonami se sono melodrammatico, ma sono finito. Gli scagnozzi in blu del commissario stanno arrivando, e sono certo che vogliono prendersi la mia barba. I miei debiti, sia economici sia con l’universo, mi hanno raggiunto. Si può dire che mi hanno preso per un dito del piede, come dice la filastrocca. Una storia triste.
Ci ho provato a tornare a casa, amico mio. È una storia più lunga di quella che ho raccontato. Penso che tu, cupo esperto di sguardi corrucciati, capirai quanto sia difficile essere franchi quando si tratta di storie tristi e di essere presi per le dita dei piedi.
Ogier è affidabile. Insopportabile, ma affidabile. Credo che non abbia mai abbandonato la retta via della propria coscienza. Io mi sono ritirato da quella via anni fa, e in seguito ho vissuto felice e contento. Almeno finché un turista con la melma nel cervello mi ha messo a disagio e spinto ad agire. (Confesso qui e ora a tutti i lettori accidentali di questa lettera: sono io la mente criminale dietro al complotto ai danni del commissario. Tom è innocente: è troppo privo di immaginazione per ordire una simile cospirazione.)
Tom, in quanto studente della Torre di livello superiore, insegui tua moglie.
È più semplice accettare chi sei diventato che ricordare chi eri. Continua a inseguirla.
Tristemente tuo,
J. Tarrou
La firma usciva dal bordo della pagina.
Senlin lesse la lettera due volte, poi la affidò al vento. Il foglio saettò tra le teste delle belle donne sconfitte e poi svanì tra le corde d’arpa del sartiame. Era meglio smarrire quel biglietto. Non capiva l’allusione di Tarrou alla retta via della propria coscienza o ai debiti con l’universo, ed era sorpreso che avesse approvato Ogier con quel suo ultimo sussulto di libertà. Il sentimento finale però non era confuso. Senlin lo capiva alla perfezione.
Dalla loro carrozza nel treno, settimane prima, la Torre era apparsa sottile come la crepa in un vetro. Adesso sembrava ampia quanto tutto l’orizzonte. Il bordo si incurvava come la faccia visibile di una luna. La sensazione era di orbitargli attorno, si percepivano la forza di attrazione e la sua enormità. Volavano così vicini all’arenaria chiara che Senlin si domandò cosa succedeva quando un pallone colmo di gas grattava contro la Torre. Scoppiava? Esplodeva in una palla di fuoco? Si lacerava e perdeva lentamente quota finché la navicella non precipitava dal cielo? Guardando il pallone sovrastante si stupì per la precarietà del viaggio. Erano appesi a qualcosa che sembrava delicato quanto una sottoveste di seta.
Nessun altro appariva preoccupato, quindi suppose fosse tutto normale, e tornò a adagiarsi nella pace e nella tregua dalla paura. Ognuno degli immensi blocchi con cui era edificata la Torre era grande quanto una stanza. Erano intagliati con sinuosi motivi ornamentali e chiazzati da vecchie macchioline di vernice. La superficie gli ricordava un tappeto antico: un manufatto pregevole ma logoro. Tutto quello splendore era sprecato con gli altri passeggeri, che sembravano trovarlo noioso come un tunnel ferroviario buio.
La nave procedeva sibilando, rapida come una fregata, su una rotta a spirale attorno e lungo la Torre. Salivano come un nastro avvolto a un albero della cuccagna. Era elettrizzante. Come cavalcare un aquilone.
Il porto apparve in lontananza, spuntò all’improvviso da dietro il bordo della Torre, e la vedetta aggrappata alla giungla di corde che pendevano dall’involucro contenente il gas urlò giù verso il capitano: «Porto in vista!».
Si stavano avvicinando velocemente. Nel breve intervallo di tempo in cui il porto fu visibile prima che il pallone dell’aeronave lo nascondesse, Senlin notò che erano bassi di quota. Sarebbero passati volando molto al di sotto della banchina di attracco. Si chiese se il capitano non avesse intenzione di fare un altro giro attorno alla Torre. Pensò a quanto tempo ci sarebbe voluto.
Proprio quando cominciava a nutrire seri dubbi sull’uomo al comando, il capitano, senza fretta, regolò il bruciatore e schizzarono verso l’alto. Fu come emergere da un fiume impetuoso. La corrente divenne un vento che li soffiò gentilmente lontano dalla Torre. Il porto riapparve sotto l’orizzonte del pallone, e Senlin notò che il vento li aveva spinti troppo in là. Avrebbero mancato del tutto persino la propaggine sporgente dell’aeroscalo! Far volare le aeronavi sembrava un lavoro davvero complicato.
Erano quasi rasente alla piattaforma quando un grosso aquilone si alzò dalle braccia di alcuni portuali. Ricordava la vela di una nave da quanto era grande e si portava appresso una floscia corda di iuta come coda. Il porto stava mandando una gomena.
Era una procedura affascinante da osservare. L’aquilone piombò verso di loro mentre la vedetta si allungava per prenderlo con una gaffa. Dopo alcuni tentativi falliti riuscì ad afferrare la gomena. La tirò a bordo e tagliò il piccolo laccio che univa la corda di iuta al filo di seta dell’aquilone, che schizzò via dalla nave.
Avvolgendo la gomena attorno al sartiame per evitare che venisse strappata via e gettata fuori bordo dal suo stesso peso e dall’oscillazione, la vedetta scivolò giù fino al ponte. Annodò la cima a una galloccia mentre il capitano srotolava una bandiera rossa su un’asta corta e la sventolava in direzione dei portuali, che cominciarono ad azionare un argano, trascinando la nave in una darsena al riparo dalla corrente ascensionale.
La piattaforma era sorretta da una rugginosa travatura triangolare a traliccio ed era lunga circa novanta metri e larga poco più di una quindicina. Dei pennoni la costeggiavano come alberi nudi lungo un viale. Alcuni portuali scaricavano sacchi dall’unica altra nave ormeggiata. L’ingresso alla Torre, a differenza di quello in stile palco per orchestra dei Bagni, era un umile arco senza decorazioni. Sotto alla darsena in cui li stavano rimorchiando si estendevano due bracci di ormeggio e i facchini scivolarono agili lungo quei rebbi, le gambe penzoloni sull’abisso spalancato. Afferrarono e fissarono le ancore della nave. L’equipaggio del traghetto gettò funi a degli stivatori in attesa, che le avvolsero attorno a bitte di ferro, ciascuna grossa quanto una palla di cannone da diciannove chili.
Le donne si alzarono in piedi e marciarono in fila. Il loro silenzio era quasi funereo. Erano tutte in preda a un tormento personale. Non sapendo che altro fare, Senlin si mise in fila con loro. Uno stivatore in grembiule di cuoio fece loro cenno di seguirlo, e cominciarono a serpeggiare lungo un labirinto di bancali e casse in direzione della Torre e dell’ingresso di Nuova Babele, che, bisognava ammetterlo, aveva il fascino di una grotta. Quel porto era molto diverso da quelli del commissario, puliti, irreggimentati e a modo loro gradevoli. Lì, invece, casse vuote di prodotti agricoli attiravano nugoli di mosche, carbone sbriciolato scricchiolava sotto i piedi e le stradine erano ingombre di bancali vuoti, barili spaccati e delle gambe stese di uomini pigri e sonnolenti. La barriera doganale era un palo storto con un’asse inchiodata in cima. Un tizio dall’aria rozza era appoggiato al pulpito rabberciato con le labbra atteggiate in un ghigno minaccioso. Senlin non vide turisti né aristocratici, solo una massa di uomini in abiti logori. Si domandò chi potesse essere a capo di una baraonda del genere.
Lo zotico indossava perlopiù vecchia pelle e denim pesante. La barba grigia e marrone si confondeva con il colletto di pelo di coniglio. Avrebbe potuto essere un cacciatore di pelli di qualche remota zona montuosa. In un altro contesto sarebbe potuto risultare buffo, ma all’aria aperta, in quel luogo ostile, era in tutto e per tutto terrificante.
Il ceffo passò in rassegna la fila di donne come se fossero state bestie al mercato. Tastò loro il collo cercando i bubboni della peste, le braccia per il marchio rivelatore del Salotto, e strofinò un dito sudicio sui loro denti. Ogni donna doveva dichiarare il proprio nome e firmare il registro. Poi veniva sculacciata duramente sul sedere, e lo zotico iniziava a strapazzarne un’altra.
Una volta superato l’esame, le donne venivano caricate sul pianale di un insolito carro. Dove ci si sarebbe aspettati di vedere cavalli, muli o buoi, c’era invece una macchina motrice, più o meno della forma e delle dimensioni di un calesse, che eruttava vapore e tremolava sui due assali. Le ruote posteriori erano ampie e con una copertura in acciaio dalla trama a zigzag, mentre quelle anteriori erano piccole e apparentemente di gomma. Era un treno liberato. Una vettura senza binari. Un carro a motore! Nonostante tutto, Senlin desiderava raggiungerlo di corsa e ispezionarne gli indicatori e le valvole, i pistoni in tumulto…
«Sei una donna proprio brutta» disse lo zotico.
Senlin si guardò attorno con un sussulto, sorpreso di trovarsi in cima alla fila.
Prima che il suo cervello avesse l’opportunità di censurarla, la sua bocca sputò fuori la risposta: «Se lo dici tu, sorella».
L’unica persona più sorpresa di Senlin fu il tanghero, che sbuffò sbigottito. «Proprio quello che serve al Boudoir. Un altro comico!»
Poi gli prese la tracolla prima che potesse reagire. Rimestò nella borsa con il braccio peloso e tirò fuori la Guida per tutti. Sbuffando ancora, sollevò il libro per mostrarlo a una sentinella più alta e ancora più arcigna che stava alle sue spalle con le braccia conserte. Senlin osservò di nuovo la seconda guardia, o agente, o custode, o qualunque cosa fosse, che sulle prime aveva scambiato per un uomo. In realtà era un’amazzone dalle spalle squadrate, robusta tanto quanto Tarrou e almeno una decina di centimetri più alta. Più vecchia delle donne che avevano sfilato giù dall’imbarcazione, aveva le palpebre lisce e la fronte ampia tipiche dei nativi delle inospitali zone artiche. I capelli corti del colore della cenere sembravano essere stati tagliati da un cieco con un falcetto. Portava una spessa catena che le faceva tre giri attorno alla vita come se fosse una cintura perfettamente accettabile. Senlin non riusciva a distogliere lo sguardo.
«Guarda, Iren! Ho trovato il suo libro delle battute!» disse l’energumeno.
L’ampia fronte dell’amazzone non accennò a corrugarsi in segno di divertimento.
L’altro caricò il braccio all’indietro e scaraventò la Guida sopra la testa di Senlin con un movimento fluido. Le pagine si aprirono sbattendo come le ali di un uccello, poi il libro precipitò nel blu oltre il ciglio del porto.
Benché sorpreso, Senlin non fu particolarmente rattristato nel veder sparire la Guida. Un tempo vi aveva fatto affidamento, e disperatamente, ma non era stata granché utile. «Battute vecchie» disse. Lo zotico non mostrò interesse per il diario rilegato in pelle o per la chiave da carceriere, che con sollievo scambiò per vera, ma si concentrò sul dipinto di Ogier. Voltando la cornice verso la luce, fece un fischio tremendo. Mentre Senlin guardava, passò il pollice sull’immagine. «Lurido briccone! Contrabbandare un nudo!» Fece per gettare il dipinto in un barile che traboccava di orologi da tasca, medaglioni, pettini d’avorio e altre cose di valore. Una miniera di cimeli.
Nella testa di Senlin si verificò come una piccola esplosione, simile a un chicco di mais che scoppia.
Afferrò con una mano il polso dell’individuo e con l’altra il quadro. Il ceffo gli agguantò la gola, la pelle ruvida come corallo. Il sorrisetto era svanito. Non c’era l’eccitazione per l’omicidio nei suoi occhi. Il suo sguardo fisso era indifferente. Strozzare qualcuno era come disfare un nodo complicato, nessuna differenza.
Seppure boccheggiasse, Senlin si rifiutò di allentare la presa. Temeva che la cornice gli si spezzasse in mano ma, piuttosto che lasciar andare l’immagine di Marya, si sarebbe scaraventato nell’abisso. La cosa lo sorprese: aveva raggiunto il limite della propria codardia. Rimasero lì come due granchi in lotta, le chele intrecciate.
Lo zoticone, stupito dalla determinazione di Senlin, scoprì lentamente i denti gialli. «Ho rispetto per chi ama le immagini oscene più della sua stessa vita.» Gli mollò la gola e ributtò il quadro nella tracolla. Poi, mentre Senlin annaspava per farsi ritornare il colore alle guance, chiese: «Nome?».
«Fango» rispose lui con voce roca.
«E Fango sia» disse la guardia, e gli porse il registro. Sul bordo c’era un mozzicone appuntito di matita. «Lascia il tuo segno, Fango.» Il registro era pieno di X e di scarabocchi simili a geroglifici. Non c’era una sola firma vera. Senlin inumidì con la lingua la punta del mozzicone di grafite e vergò la firma più incantevole e svolazzante che gli era possibile: “Thomas Senlin del Fango, dottore in Lettere”. Rimise la matita nel registro con una strizzatina d’occhio audace. Si sentiva un po’ folle.
La guardia arricciò le labbra di fronte agli sforzi di Senlin. «Oh, un gentiluomo è salito sulla chiatta delle puttane. Fate strada al Dottor Thomas Senlin del Fango!» urlò con le mani a coppa.
Senlin si sentì coraggioso e anche un po’ compiaciuto di se stesso fino al momento in cui la testa dell’amazzone ruotò di scatto verso di lui come un gargoyle di pietra che aveva appena preso vita, gli occhi, prima assenti, attenti come quelli di un falco. Con voce baritonale chiara e raggelante, disse: «Tu sei Tom Senlin».
Non era una domanda.
Qualcosa gli disse che avrebbe dovuto recuperare la sua vecchia codardia e darsela a gambe.