Capitolo due
L’unico vero rischio è rilassarsi a tal punto da addormentarsi mentre si sta a mollo in una vasca. Per prevenire annegamenti accidentali, andateci con un compagno o cercatevi un nuovo amico.
Guida per tutti alla Torre di Babele, IV, IV
Passarono i giorni. Pian piano prese forma un programma, un conforto per Senlin. Le mattinate trascorrevano cercando con discrezione tracce di Marya nei registri degli alberghi. Quando sentiva affiorare il panico, ricordava pazientemente a se stesso che sua moglie era piena di risorse e che la Torre aveva un inizio e una fine. Leggeva la Guida, il suo unico libro. Cercava un consiglio pratico tra i suoi molti luoghi comuni, ma ci trovò ben poco. Desiderava aver portato più libri. Quando queste consolazioni fallivano, si faceva forza con un bicchiere di vino.
Passarono i giorni.
Non ci mise tanto a trovare la strada verso i vicoli più stretti, dove vivevano facchini, domestiche e venditori, dietro agli hotel e alle balconate decorate come torte. Queste vie porticate non erano proprio degradate, ma in genere erano dimesse e spesso fatiscenti. Persiane penzolavano spaiate da finestre senza vetri e fili per stendere la biancheria erano come una sutura tra i due lati delle viuzze. L’aria era umida e satura di odori umani. Lì, inoltre, la luce riflessa del sole era più fioca, e ciuffi di licheni crescevano sui muri intonacati e sui ciottoli, rendendoli viscidi, spugnosi e grigio-verdastri. Tra gli appartamenti popolari vi erano anche pensioni, dove si poteva soggiornare per brevi periodi e con scarso preavviso. Una ricerca efficace tra le pensioni era difficile perché erano disorganizzate, sovraffollate e molto spesso gestite da proprietari diffidenti e poco disponibili. Nei vicoli dei Bagni Senlin aveva l’impressione di dare nell’occhio e di non essere il benvenuto, e non impiegò molto a trovare scuse per evitare di perlustrarli. Dopotutto, dubitava fortemente che Marya avesse fatto ricorso a sistemazioni tanto squallide e pericolose.
I giorni passarono, e il trauma del Salotto si andò affievolendo nei suoi ricordi. Si era del tutto convinto che Edith si fosse ripresa e avesse trovato la strada di casa. Non mancava molto al raccolto autunnale. Gli piaceva pensare che la generalessa avesse sconfitto la sua allergia e fosse tornata al comando. Avrebbe portato la cicatrice su di sé per sempre, il marchio del Salotto, ma si sarebbe goduta una vita lunga e prospera lontana dall’ombra della Torre.
Senlin pranzava all’esterno dei varchi doganali, dove era relativamente facile passare inosservato in mezzo alla marea di turisti. Fin dal suo primo contatto con gli agenti, si era premurato di evitare di attirare la loro attenzione. Non era facile: gli ufficiali in giacca blu scuro erano ovunque. Marciavano agli ordini di qualcuno chiamato il commissario, che era spesso oggetto di discussione ma che di rado si vedeva in pubblico. Per il resto, il principio della legalità restava per lui un mistero. Sinceramente, sperava lo rimanesse. La Guida per tutti era vaga sulle regole dei Bagni, ma Senlin voleva credere che fosse un Regno più civile del Basamento o del Salotto. Non era in cerca di una prova del contrario.
Avrebbe presto scoperto, però, che la prova era inevitabile.
La sera cenava con John Tarrou, che non era riuscito a mantenere la sua promessa di partire, e Senlin capì presto che si trattava di una sorta di omaggio che tributava quotidianamente alla moglie: Tarrou si preparava sempre a fare ritorno a casa.
Senlin continuò a tenere per sé la propria situazione, benché gli sembrasse sempre più assurdo. Eppure non riusciva a confessare a Tarrou che in effetti aveva una moglie e che l’aveva smarrita. Forse la sua discrezione era diventata paranoia. O magari preferiva che Tarrou fosse all’oscuro di tutto. Finché non parlava di Marya potevano ridere, bisticciare, filosofeggiare e bere. Non fosse stato per quelle distrazioni, Senlin avrebbe dovuto affrontare il terrore che gli cresceva dentro. Terrore che già era ostinato come una macchia di vino e dilagante come un brivido gelido. E se Marya non fosse mai arrivata? Se avesse trovato un modo per tornare a casa senza i biglietti? La immaginava ferita, imprigionata o peggio…
Ma la paura diminuiva al Caffè Risso, dove la risata forte e sardonica di Tarrou regnava sovrana.
Quando non era al locale, l’omone era spesso sulla sua solita sdraio vicino all’acqua, non lontano dal punto in cui un ippopotamo meccanico spruzzava il suo getto elegante.
«Oggi non è un buon giorno per viaggiare, preside. Arrivano venti da nord. Se cercassi di volare verso casa, finirei al Polo Sud» disse Tarrou, dietro le lenti scure. Il delizioso bagliore del sole pomeridiano sembrava enfatizzato, non solo riflesso, dalle sfere che ruotavano su di loro. Senlin girovagava per i Bagni da più di due settimane, però non si era ancora abituato alla luce rifratta, o al modo in cui certe volte si affievoliva quando le nuvole, invisibili, passavano davanti al sole, all’esterno della Torre. «Hai finito con le tue misteriose commissioni o abluzioni o con le attività in cui sprechi le giornate?»
«Sto solo facendo una pausa.» Senlin agitò una mano davanti al viso, scacciando la domanda. In verità dubitava che a Tarrou importasse davvero saperlo: al gigante piaceva semplicemente stuzzicarlo.
Pagò mezzo shekel a un inserviente per noleggiare la sdraio accanto al suo amico. Con la giacca lunga e nera, Senlin spiccava tra i turisti in costume da bagno. C’era però un altro gentiluomo vestito in maniera stravagante che si agitava non lontano da loro.
Tarrou fece un discreto cenno del capo verso il tizio nervoso.
«È tutta la mattina che guardo questo spettacolo. Sei arrivato giusto in tempo per assistere al finale della sua piccola tragedia» disse. L’uomo in questione era tozzo, di mezza età, e indossava ridicole vesti da ammiraglio: spalline con fili d’oro, fusciacca viola e tricorno in testa. Ben pasciuto e azzimato, faceva su e giù sulla battigia più come un topolino messo all’angolo che come un comandante militare.
«È completamente al verde – lo sono sempre – e tremendamente indebitato» aggiunse, parlando con la bocca semichiusa. «E nonostante tutto ha conservato il suo abito più pomposo. Eccolo qui il tuo pavone, preside. Ma sta’ a guardare…»
Qualche attimo dopo comparve un reparto di sei agenti doganali, con manganelli e spadini che dondolavano dai cinturoni lucidi. L’ultimo trascinava un cesto pieno di carbone. Circondarono il malcapitato, che cominciò subito a farfugliare sull’errata applicazione della giustizia, sulle sue amicizie potenti e sulle sue mutevoli fortune. Saltellava da un piede all’altro, le braccia sollevate come se volesse attraversare il manipolo di agenti a passo di valzer. Incuranti, quelli lo afferrarono e cominciarono a spogliarlo. Inorridito, Senlin si mosse per intervenire, ma Tarrou gli afferrò il braccio e lo bloccò sulla sdraio. Il gigante si portò il dito alle labbra e rifilò a Senlin una severa occhiata di ammonimento.
Inginocchiato con indosso solo i mutandoni attillati e macchiati, l’uomo piangeva mentre due agenti gli rasavano il cranio, prima con delle cesoie arrugginite, poi con un regolo dentellato. Mentre si affaccendavano, un altro agente rese noto il nome del condannato, descrivendo l’esatta natura e l’entità dei suoi debiti, e annunciò per quanto tempo avrebbe dovuto lavorare come Sparviero per ripianarli: dodici anni. Dodici anni! Un’intera era perduta nella vita di un uomo. Per cosa? Per un conto in rosso? Sembrava esagerato.
L’uomo caduto in disgrazia singhiozzò durante il verdetto, mentre i tagli sul suo cuoio capelluto iniziavano a sanguinare. Alla fine della sentenza venne invocata l’autorità del commissario e un pesante collare gli fu serrato attorno al collo. Dal collare, come un ciondolo, penzolava un tubo di ferro lungo una quindicina di centimetri. Gli agenti arrotolarono il foglio con la sentenza e la infilarono nel tubo, avvitando un tappo per chiuderlo. Lo Sparviero fresco di iniziazione fu costretto a sollevare il carico di carbone e condotto via.
«Dove va?» chiese Senlin.
«Esiste un passaggio battuto solo dai piedi degli Sparvieri… si chiama la Vecchia Vena e si avvolge a spirale attraverso le mura della Torre, roccia scoscesa senza né aria né luce. È più pericoloso, mi dicono, di qualunque miniera l’uomo abbia mai scavato. Prega di non vederlo mai.» Tarrou parlò in tono basso, austero. «Quel pavone spelacchiato non sopravvivrà dodici anni, forse non arriverà a domattina. È una lezione, preside Tom. Fai attenzione ai debiti.»
Senlin si mise un’unghia tra i denti. «Non sarà un avvenimento troppo comune, vero?»
«Comune come gli Sparvieri stessi.»
Nonostante il vivido promemoria che né il suo tempo né i suoi fondi erano illimitati, Senlin cominciò ad avvertire un calo nell’urgenza della sua ricerca. C’era qualcosa nella bellezza e nella tranquillità dell’ambiente che anestetizzava la sua paura e faceva apparire assurdo l’episodio dello schiavo.
Qualche giorno dopo completò il decimo giro degli alberghi dei Bagni. La maggioranza dei portieri aveva capito il suo trucco da un pezzo o aveva smesso di fingere di cascarci. Quando lo vedevano arrivare, scuotevano veloci la testa e lui passava alla tappa successiva del suo solito percorso. A volte indugiava sotto la finestra di una sala da concerti, ad ascoltare i ritornelli allegri di una banda di ottoni. Altre volte guardava i bambini che si scatenavano sulla battigia e pensava all’anno scolastico in arrivo. La scuola e i suoi doveri in quel momento sembravano quasi irreali e privi di importanza.
Perse la voglia di leggere. Teneva sempre la Guida stretta tra le dita ossute e gli occhi saldi sulla pagina. La sua mente, però, scivolava nella fantasia. Immaginava l’istante del loro ricongiungimento. Sognava molte differenti versioni della scena mentre indugiava sui marciapiedi fuori dalle stazioni doganali, in attesa che lei gli passasse davanti dondolando le braccia o con un libro vicino alla faccia o cantando una canzone da pub. In alcune versioni di quel miraggio andavano a sbattere l’uno contro l’altra come cembali e, proprio in quel momento, di fronte a tutti, lui le metteva una mano sul collo e la baciava.
Tarrou intanto faceva l’amico allegro. Il suo entusiasmo era contagioso, anche se, a voler essere del tutto onesti, lui non l’avrebbe definito così. Lo chiamava raziocinio. «Sei nei Bagni, eppure non sei mai stato alla Fontana? È come scalare una montagna e poi rifiutarsi di guardare il panorama, preside!»
Quando Senlin infine acconsentì, pagò uno shekel e si recò alla Fontana, scoprì che, dopo qualche momento passato a mollo in una vasca, non aveva più un pensiero in testa. Era come se la paura svanisse nel nulla.
La Fontana, la spirale-giardino che saliva dal cuore del lago artificiale, era un vero prodigio dell’idraulica. L’interno piastrellato era saturo di un vapore aromatico, denso come la nebbia dell’oceano. Tubature e canali convogliavano l’acqua tra centinaia di vasche di marmo bianco, collocate una sopra all’altra come le squame di una pigna. Più una vasca era collocata in alto nella spirale, più era arduo raggiungerla per un bagnante. Bisognava inerpicarsi su scale a pioli, pianerottoli e gradini stretti. L’acqua che fuoriusciva da una vasca tracimava in quelle sottostanti come in una cascata di champagne. La pioggia, sia per la condensa sia per il dislocamento dell’acqua, era costante eppure piacevole. Da dove venisse attinta l’acqua o come venisse riscaldata era un mistero su cui Senlin si arrovellò un paio di volte. Nessun altro sembrava dare molto peso alla domanda. In breve tempo smise anche lui.
Sapendo che la Fontana era l’attrazione che tutti visitavano almeno una volta (in fin dei conti era l’unico posto dove farsi un bagno caldo), Senlin diede un’occhiata in cerca di Marya, però con discrezione e indolenza. Più tardi, uscito dalla spirale, quando la nebbia abbandonò la sua testa, si chiese se la sua ricerca fosse migliore della finta devozione che Tarrou tributava alla moglie. Era verosimile che Marya buttasse via il suo tempo in una vasca mentre era sperduta in una terra sconosciuta? Si trovava davvero nei Bagni? Per quel che ne sapeva, poteva essere ancora bloccata nell’incubo Mayfair, a interpretare coscienziosamente la moglie di un altro. Magari era distesa nella fanghiglia intrisa di birra di un canale di scolo del Basamento, oppure era accampata dove si erano separati, nel Mercato in continuo mutamento. Desiderava saperlo con certezza. Avrebbe dovuto saperlo con più certezza. Avrebbe dovuto conoscere più a fondo sua moglie.
La sistemazione di Senlin non comprendeva una finestra, un lavabo o una scrivania, ma la stanza prosciugava le sue risorse anche così. Nemmeno i suoi pasti con Tarrou erano gratis, e poi c’erano gli sporadici bagni da pagare…
Dopo un mese, calcolò di potersi permettere di restare solo altri dieci giorni, due settimane se la sera avesse rinunciato a bere vino con Tarrou, il che sembrava all’improvviso una grossa seccatura. Quella nascente sensazione che tutto gli fosse dovuto gli faceva orrore. Ma quello era l’effetto della Torre. Prima trasformava il lusso in necessità, poi complottava per rimuovere ogni pretesa di gioia, dignità e libertà.
La perversa metamorfosi da turista a nababbo a schiavo affliggeva la sua immaginazione. La paura ritornò con maggior forza. Non riuscì a dormire per giorni, poi, quando infine crollò esausto, fece sogni terrificanti. Davanti al suo sguardo dormiente, l’uomo-pavone veniva ancora una volta spogliato del suo vestito da ammiraglio. Curvo sotto una grossa cesta di carbone, il disgraziato si univa a un fiume di relitti umani che si inerpicavano lungo la Vecchia Vena frastagliata. Nel sogno, Senlin passava in rassegna la processione zoppicante ed emaciata di schiavi in cerca di Marya, desiderando, al tempo stesso, che emergesse il suo viso e che non succedesse.
Mentre le lenzuola si impregnavano di sudore, seguiva la fila di schiene nude e spine dorsali bitorzolute su per la Torre senza fine per settimane, per anni. Quando il pavone spennato crollava, il cuore esausto che sporgeva come un tumore dal torace, Senlin, dimenticandosi che non era uno di loro, dimenticandosi la ricerca di sua moglie e la nostalgia di casa, si chinava e si buttava in spalla il suo carico.