Capitolo quattro

Il Porto di Goll non è una caratteristica originale della Torre. È stato scavato secoli dopo la costruzione di essa, e la cosa si riflette nella sua estetica scadente. Nel corso di centinaia di anni è stato ribattezzato da una sequela di uomini ambiziosi, eppure sembra essere testardamente rimasto appena migliore e appena più nobile di una taverna di briganti.

La Torre di tutti, i travagli di uno
T. Senlin

La carrozza profumava di canfora e olio di arancio, in forte contrasto con l’odore di carbone e zolfo della città. Era una piccola, opulenta cabina. Tra le alte pile di cuscini di velluto rosso, una lampada a goccia dondolava come il pendolo di un ipnotizzatore. Caraffe in cristallo vibravano in un portaoggetti rifinito di pregiate imbottiture antiurto in sughero. Le tendine tirate sui finestrini erano decorate con motivi cachemire. La carrozza ondeggiava delicata come un’amaca, e a Senlin tornò in mente il suo ultimo viaggio in treno: la sensazione di essere avvolto e di velocità rilassata, del lusso adagiato sulla bruta forza meccanica. A parte il fatto che in quel caso non sapeva dove il veicolo stesse andando né quando si sarebbe fermato.

Con quanto affetto Senlin aveva ricordato il consiglio di Finn Goll! Le settimane successive al loro incontro nel Basamento erano state così cariche di tradimenti e sospetti che aveva iniziato ad aggrapparsi alla loro breve frequentazione come esempio del lato migliore della Torre. Se Finn Goll viveva lì, aveva riflettuto in più di un’occasione, allora dovevano viverci anche altre persone oneste. In una terra con pochi amici, Goll era un uomo al di fuori dei complotti e senza secondi fini.

Senlin non avrebbe potuto avere più torto di così.

Il precedente umile aspetto di Goll, da mercante di una carovana di cammelli, si era del tutto trasformato. Indossava una giacca di tweed e i pantaloni di lana erano immacolati. I folti capelli erano acconciati in un’onda, una sorta di cresta perenne che non si infrangeva mai su un lato del cranio. Sedeva davanti a Senlin, pizzicandosi il labbro inferiore, le sopracciglia spesse e scure animate da qualcosa di divertente noto solo a lui. Più Senlin riguadagnava lucidità mentale, più la comparsa di Goll lo inquietava. Sembrava anacronistica, un errore cosmico: che ci faceva lì?

Non fosse stato per l’amazzone, Senlin avrebbe potuto pensare a tutto ciò come a un seguito della sua allucinazione. Gli sedeva accanto nella carrozza traballante. Mentre Senlin manteneva di proposito il contatto visivo con Finn Goll, lei lo guardava infuriata, senza nemmeno dissimulare, chinata verso di lui in maniera così intima che avvertiva il fiato uscirle dalle narici.

«Hai fatto un’entrata trionfale, Tom. Farti strozzare al porto, terrorizzare le povere prostitute sul carro, lanciarti nel traffico, e poi andare a sballarti in una fumeria. Bravo! Sono sbalordito!» Goll si strofinò i palmi delle mani sulle ginocchia. «La mia parte preferita è quando hai dichiarato il tuo amore per Iren.» Latrò una risata in direzione della colossale donna, che recepì la battuta con un solo fiacco batter di ciglia. «Detto tra noi, non penso sia il tipo da matrimonio.» Rise di nuovo. «Scommetto che questi giochetti non li hai imparati dalla Guida

Senlin si rifiutò di provare imbarazzo, nonostante l’improvviso senso di umiliazione. Si voltò accigliato, come a liquidare la cosa, e disse: «Non intendo difendere quel libro insulso. Trovo incredibile che una guida possa essere tanto fuorviante e arrivare comunque alla quattordicesima edizione».

«Non è una gran sorpresa, se pensi che la maggior parte degli autori che ci hanno lavorato non hanno mai davvero messo piede nella Torre.»

«No di certo» rispose Senlin in tono beffardo.

«Ma spiega molte cose, non è vero?» disse Goll, la voce che saliva allegramente di tono. «Lascia che ti riveli la nozione più utile, che tutti quei rotoli di carta igienica omettono: la Torre è un pozzo di catrame. Ci metti un dito del piede e sei intrappolato per sempre. Nessuno se ne va. Nessuno fa ritorno a casa.»

«Ma certo che la gente torna a casa» disse Senlin soffocando un sospiro mesto. Gli riusciva sempre più difficile mantenersi ottimista. Chi credeva di essere Goll per trattarlo con tale condiscendenza e intimidirlo a quel modo? «Non ti avevo preso per un complottista, Goll.» Si raddrizzò. Tentò di rassettarsi le maniche, entrambe sporche di grasso per via della recente caduta. Goll lo guardò ripulirsi con aria divertita. «La gente va a casa» insisté Senlin. «Io e mia moglie torneremo a casa.»

«Ah ah!» Finn Goll indicò l’amazzone, Iren, e fece: «Te l’avevo detto che mi era sembrato fin da subito adatto al lavoro. È proprio così serio». Lei emise un piccolo grugnito di assenso e Goll puntò un dito tozzo verso Senlin. «È stato un colloquio lungo, Tom, arrancare a fatica su per i condotti della Torre. Non sapevo davvero se saresti sopravvissuto al Salotto. Il fatto che tu sia sfuggito ai Bagni senza diventare uno Sparviero è un piccolo miracolo. Però speravo che ci riuscissi.»

«Non so di che stai parlando. Sono arrivato qui di mia spontanea volontà e non per un qualche genere di lavoro.»

«Certo. Certo. È stato assolutamente così.» Goll alzò gli occhi al cielo. «Non reagire come se fosse qualcosa di ripugnante. È una trattativa, Tom. Si tratta di affari. Il mio porto non ha un direttore da almeno sei mesi, da quando l’ultimo… si è ritirato all’improvviso, e non c’è un’anima disposta e adatta a quel lavoro. Mi serve un nuovo direttore e a te serve un lavoro. A quel tempo nemmeno lo sapevi, ma ti è servito un lavoro nel momento stesso in cui sei sceso dal treno e hai messo piede nel Mercato. Nella Torre prima o poi tutti ne trovano uno. Il punto è solo essere pagati o meno.»

«Ammetto che non è stata esattamente la vacanza che speravo, ma non ho bisogno di un lavoro. Ne ho uno che mi aspetta a casa» disse Senlin, pur dubitando che fosse vero. A quel pensiero avvertì una fitta di sofferenza: ormai dovevano averlo sostituito. I suoi alunni non dovevano aver ricevuto avvisi né spiegazioni. L’anno scolastico era iniziato e avevano trovato un estraneo ad attenderli. Chiunque fosse, non sarebbe rimasto un estraneo a lungo. Il legame tra studente e insegnante era rapido a formarsi e consolidarsi. Senlin soffocò il senso di perdita, lasciandosi guidare dalla rabbia. «E non comportarti come qualcuno che è stato fondamentale per la mia sopravvivenza. Non c’è stato nessun colloquio di assunzione, questa non è la mia meta. Non mi importa di te o del tuo lavoro. E appena deciderai di fermare questa carrozza e aprire lo sportello, me ne andrò per la mia strada.»

Goll continuò sullo stesso tenore, sordo alle proteste di Senlin. «Ma perché, di sicuro te lo starai domandando, perché non reclutare un nuovo direttore del porto comodamente dal mio porto personale? Perché scendere fino al Basamento in cerca di talenti? Tutto quel che dovrei fare sarebbe starmene seduto e porre domande alle masse in arrivo. Potrei semplicemente chiedere a ogni stupida scimmia che attraversa la dogana: ‘Te la cavi bene con i numeri? Sei leale? Onesto? Ragionevole?’.» Enumerò le qualità contandole sulle sue dita tozze. «E ho fatto anche questo, per filo e per segno, e mi sono ritrovato con una serie di bugiardi incompetenti, inaffidabili, che per poco non mi hanno rubato tutto. Perché, vedi, quando arrivano così addentro alla Torre, nella maggior parte dei casi gli è stato strappato via il carattere. Per ottenere quello che vogliono sono disposti a dire qualsiasi cosa. Non ci puoi ragionare né fidarti di loro. Per conoscere una persona, comprendere la sua indole, devi sapere chi era prima che la Torre la scuotesse fin nel profondo. Se non sai com’è cambiata, non sai chi è diventata. Già il fatto che tu adesso mi stia resistendo è un segnale che sei l’uomo adatto per il lavoro.»

«Dai a tutti quanti lo stesso pessimo consiglio che hai dato a me?»

«Quale pessimo consiglio? Di essere sospettosi? Di fidarsi solo di se stessi? In che senso è pessimo?»

«Mi hai detto di non fidarmi di nessuno» rispose Senlin, e desiderò intimidirlo con qualche gesto enfatico, ma temeva di fare movimenti improvvisi con l’amazzone che lo guardava in cagnesco. Tentò di infondere nelle parole la passione che sentiva. «Ma sono sfuggito al Salotto e ai Bagni solo perché mi sono fidato degli amici.»

«Davvero? È quello che è successo veramente?» Goll si sfregò la barba. Sembrava molto divertito. «Sei certo di non aver semplicemente costruito un rapporto con degli estranei per poi usarli? Dove sono adesso questi tuoi amici? Ne sono usciti bene come te?» Aprì le mani, in attesa. «Prendo il tuo cupo silenzio come l’ammissione che così non è stato. Sapendo quel che sanno ora, pensi che si fiderebbero ancora di te? Ti chiamerebbero ancora amico?»

«Eppure, ti aspetti che io mi fidi di te.»

«No, melma, no! I potenti non si fidano mai. Rispettano e vengono rispettati. La fiducia è un vincolo debole, ed è per i deboli.»

«Ho in mente altri legami, più forti» disse Senlin, e il suo viso si fece indecifrabile.

«Ah…» Goll indietreggiò contro i bottoni rossi dell’imbottitura, e un’improvvisa consapevolezza gli affiorò sul volto. «Stai parlando di tua moglie.» Si sporse in avanti e tirò la tendina del finestrino. Fuori, gli edifici di Nuova Babele, ordinari come pietre miliari, chiusi come bare, scivolavano nella penombra livida. Il mondo aveva l’odore della faccia inferiore di una pietra da selciato. Falene sfrigolavano attorno ai lampioni. La mano di Goll indugiò sull’anello della tendina, e Senlin notò, per la prima volta, la fede nuziale d’oro a un dito.

Quando l’omino parlò di nuovo, la voce aveva perso un po’ di spavalderia. «Ti comporti come se non l’avessi persa. Sei come un cane che ulula alla tomba del padrone. Ma se n’è andata, Tom.» Finn Goll gli rivolse un sorriso sincero, quasi malinconico. «La gente pensa che la differenza tra ricchi e poveri, tra il potente e lo schiavo, stia nell’assenza di fallimento. Ma non è così.» Il tono si stava risollevando. «I potenti falliscono altrettanto spesso, se non di più, dei falliti. La cosa strana è che lo ammettono: afferrano e tengono ben in vista i loro fallimenti. Rivendicano le proprie delusioni e vanno avanti!» Goll sedeva agitando i pugni in aria come se avesse preso per il colletto un qualche mascalzone invisibile. «Non fare lo Struzzo. Lo Struzzo nega la realtà, Tom! Non riesce ad ammettere di essere sconfitto, e quindi non riesce mai a sfuggire alla sconfitta. Tua moglie non c’è più!» La sua voce si innalzò in una nota roca, tesa.

Senlin aveva cominciato a fissarsi le mani aperte a metà della discussione. Erano luride. Una vescica grande come un dollaro della sabbia gli riempiva un palmo, la ricompensa per essersi appoggiato alla caldaia a vapore. Provò a flettere le dita, osservando la pelle infiammata che si gonfiava e distendeva. «Mia moglie non è perduta» disse. «È stata rapita da un ricco farabutto di nome W. H. Pell, ma non è perduta. So dove si trova. Andrò a prenderla e né tu né chiunque altro me lo impedirete.»

La maschera appassionata sul volto di Goll sfumò così all’improvviso che sembrò essergli venuto un colpo. Scambiò un’occhiata con l’amazzone e lei, interpretando il segnale, afferrò Senlin per il collo e cominciò a sbatacchiarlo per tutto l’abitacolo, come se stesse punendo un galletto fastidioso. Scintille ed esplosioni di dolore corsero per la spina dorsale di Senlin mentre l’abitacolo gli sobbalzava violentemente attorno. Era indifeso nella morsa della donna.

Fuori, il fulmine nella cupola riprese vita, il ronzio della sua potenza che saliva sempre più forte e si faceva più acuto man mano che le scariche indaco ribollivano contro la gabbia e illuminavano la città. L’interno della carrozza divenne un crudo quadro drammatico. Senlin si rese conto che Iren non lo stava più scuotendo, e annaspò in cerca di una sfuggente boccata d’aria.

Poi il fulmine venne interrotto bruscamente quando la carrozza entrò in una galleria. Lo scoppiettio del motore e lo stridore delle ruote riverberarono in maniera più marcata.

Senlin aveva la sensazione che i suoi pensieri fossero l’eco di un discorso concluso da parecchio tempo. Tuttavia, pur con la testa vuota, si rimise a sedere dritto, si schiarì la voce con un colpo di tosse impastato e disse, con imperturbata sicurezza: «Mia moglie non è perduta».

Goll si sporse in avanti, le folte sopracciglia abbassate al punto che sembrò avere gli occhi bendati. «Non sei l’unico tizio avvilito che sta venendo su per la Torre, Tom. Il giorno in cui ho parlato con te ho messo in moto una decina di candidati. E altre decine nei giorni precedenti.» Fece schioccare le dita verso Iren. «Recitali!»

L’amazzone iniziò subito a ripetere meccanicamente i nomi a memoria. «Haden Peal, Farooq Jiwa, Geert Van Dijk, William Mercer, Edgar Cole, Jean Flaubert, Chin Mawei, Thomas Senlin, Colin Hannah…»

Messe le cose in chiaro, Goll le fece impazientemente cenno di tacere. «Credi di essere l’unico che sa leggere, scrivere e far di conto? Voi letterati siete rari come le cimici!» gridò, e poi si calmò di colpo, con un garbo quasi maniacale. Tornò ad appoggiarsi allo schienale. «Non accettare la mia proposta, Tom, e buona fortuna a te. Ma ti avverto, l’unica materia prima che nella Torre non scarseggia mai sono gli uomini disperati.»

«La disperazione non è poi così male» disse Senlin.

«Lo è quando non ha dietro i soldi» tagliò corto Goll.

Per quanto Senlin detestasse ammetterlo, Goll su una cosa aveva ragione: gli servivano soldi. Trovare Marya e percorrere la Torre richiedeva mazzette, pedaggi e chissà cos’altro. Non poteva andare avanti come turista. Né poteva continuare a dipendere dal sacrificio di amici e conoscenti. Doveva formulare un piano, radunare le forze e mettere in piedi uno sforzo concertato. Per fare tutto questo serviva tempo, e per il tempo servivano soldi.

Goll, guardando Senlin da vicino, sembrò riconoscere le macchinazioni che gli passavano per la testa. Il preside strinse le labbra per porre l’accento sulla sua riflessione. «Non mi piace essere messo alle strette, Goll. Se vuoi farmi una proposta d’affari, ti starò a sentire, ma se hai intenzione di intimidirmi e comportarti come se avessi un debito di gratitudine per cui essere sfruttato, allora preferisco unirmi agli Sparvieri.»

«Per essere del tutto chiaro: ho dipendenti. Non Sparvieri. Verrai pagato per il tuo lavoro.»

«In che cosa consiste il lavoro, di preciso?» domandò Senlin, e ascoltò Finn Goll che delineava i compiti di un direttore portuale, che includevano organizzare i lavoratori e ispezionare, prezzare, comprare e vendere le merci importate. Avrebbe definito i turni dei facchini, fatto quadrare i libri mastri, pagato i dipendenti, e, cosa più importante, preparato il rapporto quotidiano delle otto per lo stesso Finn Goll.

«Non è un lavoro facile né agevole. Hai visto il porto, lo scalo merci e gli uomini. È tutto un po’ un…»

«… un approssimativo, disorganizzato, rissoso casino» concluse Senlin.

Finn Goll aprì le mani accettando la descrizione. «Quindi, ti dovrai guadagnare lo stipendio. Una mina al mese, più vitto e alloggio.»

Era all’incirca quanto guadagnava a scuola, ma Senlin dubitava di essere nella posizione di contrattare una paga migliore. Fece un ponderato cenno di assenso con il capo e porse la mano a Goll. Se la strinsero, guardandosi di traverso, un gesto privo di fiducia. Per quel che riguardava Senlin, non era una situazione diversa dal Salotto. Avrebbe interpretato la parte finché richiesto, ma non era un dipendente onesto più di quanto Goll fosse un onesto datore di lavoro. La stretta di mano simboleggiava l’accordo a condividere un’illusione finché conveniva a entrambi.

Un attimo dopo la carrozza giunse al medesimo scalo merci attraverso cui Senlin era fuggito di recente. Lo sportello si aprì, e lui scese. Si aspettava di essere seguito da Goll o Iren, ma nessuno dei due accennò a farlo.

Goll sembrava divertirsi a guardare il suo nuovo dipendente attraverso lo sportello della carrozza, ora chiuso. Senlin lo fissava di rimando a bocca aperta cercando di non sembrare un ragazzino al primo giorno di scuola. Fu mandato a sbattere contro una varea dalla gomitata di un portuale che trascinava una slitta di casse tintinnanti, imballate malamente. Una bottiglia dentro a una di esse scoppiò e un pennacchio di birra schizzò tra le assicelle. Senlin si levò con un balzo dalla traiettoria e dovette poi farsi strada di nuovo verso il fianco della carrozza.

«Da dove comincio?» gridò a Goll, che si mise una mano dietro l’orecchio, scosse la grossa testa e finse di non sentire.

A Senlin si rizzarono i peli del collo. Già si era pentito della sua scelta.

Goll mosse appena le dita e la carrozza scattò in avanti.

Senlin si voltò, fissando il mezzo lucido che rombava verso la galleria per Nuova Babele, e per un secondo valutò di gettarsi all’inseguimento. Si sentiva solo e disperato come un naufrago. Non era pronto a ritrovarsi il giovane abbronzato così vicino alle sue spalle, e fece un piccolo salto sorpreso, provando immediatamente imbarazzo. Il ragazzo, muscoloso ma più basso di lui, non parve farci caso. Indossava una benda marrone su un occhio e fissava Senlin dal basso con l’occhio buono, lucente come una moneta d’oro. Era Adam Boreas.

Aveva di fronte il rapinatore, il giovanotto che aveva accelerato la sua rovina.

Quando aveva sentito il bisogno di incolpare qualcuno per le sue sventure, Senlin aveva spesso rievocato l’immagine di Adam. In quegli amari sogni a occhi aperti lo aveva condannato a ogni sorta di assurda punizione. L’aveva esiliato in un lebbrosario su un atollo vulcanico, costretto a pulire la Torre sfregandola da cima a fondo, gli aveva fatto memorizzare e recitare il dizionario intanto che saltava la corda.

Quelle fantasie crudeli, una volta tanto divertenti, gli vennero di nuovo in mente mentre se ne stava lì come una statua, e provò vergogna. Adam sembrava aver sofferto molto nelle settimane successive al loro incontro. Le spalle ampie erano cadenti, i magnifici capelli arruffati, e la pelle ramata aveva quasi una sfumatura verdognola. Una vecchia ecchimosi si irradiava da sotto la benda sull’occhio. Uno squarcio coperto da una crosta gli attraversava il naso. Benché sempre giovane, aveva lo sguardo di un piccolo proprietario terriero che ha passato mezzo secolo a grattare un misero campo pieno di pietre.

Quella tensione gli sembrò assurda. Quel ragazzo invecchiato non era suo nemico. Inoltre, era deciso a dimostrare a Finn Goll che si sbagliava. La disperazione non rendeva impossibile l’amicizia, e i legami di fiducia non erano deboli.

Senlin ostentò un sorriso stoico e offrì a Adam la mano bruciata e coperta di vesciche. «Sembra che vivremo sotto lo stesso tetto, Boreas.»

Il sollievo apparve sul viso del giovane come uno squarcio tra le nuvole. «Chiamami Adam» disse, stringendo la mano delicata di Senlin.

«Adam, chiamami Tom. È bello vedere un viso amico.»

Il volto di Adam si rabbuiò di nuovo, e la stretta si indebolì. «Tu non hai amici.»

Senlin rise e il giovane trasalì. «È quello che dicono tutti i miei amici.»