Capitolo undici
Se gli attori sono buoni, o la sceneggiatura lo è, oppure il regista, allora il pubblico resterà quasi totalmente in silenzio. A meno che, naturalmente, non si tratti di una commedia. Nel qual caso, il silenzio è una cosa terribile, fastidiosa.
Guida per tutti alla Torre di Babele, III, XI
Quando giunsero alla camera da letto di Edith, la trovarono buia. Senlin ritornò nella stanza precedente, accese un ramoscello e lo riportò indietro come una torcia. Raggiunse in fretta il focolare pieno di cenere, reggendo il rametto scoppiettante, e ravvivò le fiamme con la legna presa da un secchio.
Edith provò ad aprire la robusta porta con la lettera A. Non sembrò sorpresa nel trovarla chiusa. «Ma perché ho mollato la mia chiave?»
«Non si poteva agire diversamente. Potrei tentare di forzare la porta.» Già mentre faceva la proposta, ripensò alla porta da cui era entrato all’inizio. Era solida come un muro.
«Sei sicuro?» domandò lei inclinando la testa.
Era un dubbio ragionevole, ma Senlin sentiva in ogni caso il bisogno di difendersi. Dopotutto era uno studioso, non un bruto. Forse, se al mondo ci fossero stati più studiosi e meno bruti, in quel momento non sarebbero stati costretti a fuggire! Ma non disse nulla.
«Perché di certo sentirebbe i colpi e ci ritroveremmo con le spalle al muro!» aggiunse Edith.
Lui non poteva contraddirla.
«So dove mi trovo adesso» disse la donna. «Il foyer è da questa parte.»
Un’ampia scalinata con una passatoia verde saliva verso il soffitto, terminando all’improvviso contro l’intonaco liscio, dove avrebbe dovuto cominciare il secondo piano. Il vano d’ingresso in cima alle scale era dipinto.
«Questa casa è piena di vicoli ciechi, pur essendoci un sacco di porte» disse Senlin.
«La sala da pranzo è di là. Siamo quasi alla cucina» rispose Edith. Tirò su la gonna pesante, esagerando lo sforzo. «Se verrò catturata per colpa di questo stupido vestito, ti riterrò responsabile.» Fece un fugace sorriso nervoso, poi lanciò un’occhiata ansiosa all’attizzatoio che penzolava dalla mano di Senlin. «Vorrei che avessimo una spada.»
«Non ho mai impugnato una spada in vita mia» replicò lui.
Evidentemente rabbonita dalla sua schiettezza, sorrise di nuovo. «Nemmeno io.» Vide che la mano con cui teneva l’attizzatoio stava tremando e il sorriso svanì. «Ricordo delle cose sulle pareti che somigliavano a degli scudi, giusto?» Senlin annuì. «Io dico di prenderne uno, e se necessario, lo usiamo come ariete. Noi due insieme dovremmo essere in grado di mettere al tappeto un vecchio ubriaco.»
«Che facciamo se sono finti?»
«La spada era piuttosto vera» replicò.
Senlin si chiese perché. Perché candele finte, libri senza parole, eppure spade affilate? Desiderava che il severo inserviente che lo aveva vestito lo avesse avvertito di quelle cose. Anzi, desiderava che arrivasse di corsa, pistola spianata, e mettesse fine a tutto quel tremendo supplizio.
Aprì la porta della sala da pranzo con le gonne di Edith ammucchiate addosso. La donna allungò il collo sopra la sua spalla e sbirciò nello spiraglio man mano che il battente si apriva. Senlin quasi si aspettava di trovare Mayfair, con il suo torace largo e prominente, seduto a capotavola, melodrammatico come un re. Ma l’unica cosa viva nella stanza era il fuoco che scoppiettava nel profondo focolare in pietra.
Gli scudi alle pareti erano smaltati con stemmi sgargianti. Sembravano piuttosto veri. Senlin ne tirò giù uno a mandorla, decorato con una croce blu. Tutto ciò che poteva fare era mettersi l’attizzatoio sotto il braccio e reggere la spessa piastra di ferro davanti a loro. Sarebbe morto piuttosto che lamentarsi del peso.
«Bene, adesso facciamo piano» disse lei, urtando con le ginocchia le gambe di Senlin.
La sala parve restringersi davanti ai suoi occhi. La porta della cucina si allontanava mentre loro si avvicinavano, rannicchiati dietro lo scudo. Sulla sala da pranzo si aprivano sei porte. Era impossibile prevedere da quale direzione Mayfair li avrebbe aggrediti. O poteva benissimo essere svenuto. Senlin non era nemmeno sicuro che tutte quante le porte fossero vere. Gli si rizzarono i peli sulle braccia. Non sapendo a cosa dare le spalle, ruotava lo scudo da una parte all’altra.
Superarono lo studio dove Pining era stato ucciso. La porta era socchiusa, non tanto da permettere di vedere all’interno, ma abbastanza perché uno spiraglio di luce si allungasse nella sala da pranzo. Senlin rivolse lo scudo verso la linea luminosa, temendo che potesse tremolare, trasformarsi in ombra e poi esplodere quando Mayfair avesse fatto irruzione nella stanza. L’immagine era così vivida, quasi una premonizione, ma naturalmente non credeva a cose simili…
I suoi pensieri furono interrotti dal cigolio di vecchi cardini. Senlin fissò con attenzione la porta dello studio, confuso nel constatare che lo spiraglio non si era allargato.
«La cucina!» gridò Edith, e lui girò su se stesso.
Mayfair era sulla soglia. Sembrava spaventato quanto loro. Teneva un prosciutto sotto a un grosso braccio. Nell’altra mano stringeva il moschetto.
«Cos’è l’istinto?» Senlin era in piedi, rigido come un totem, di fronte alla classe. «L’istinto è la risposta congenita a una specifica circostanza.» Il suo sguardo era passato sulle file di bambini stanchi ma attenti. «Il falco pescatore sa istintivamente come costruire un nido. Lo sgombro d’istinto nuota in banchi. Gli orsi vanno in letargo, i conigli scavano labirinti di cunicoli e la raganella canta. Non sanno perché lo fanno, ma tutti questi comportamenti giovano all’animale e aiutano la sua sopravvivenza.»
Aveva percorso a passo veloce lo spazio tra i banchi e strappato un pezzetto di carta ripiegato dalle dita di un ragazzetto spaventato. Lo aveva ridotto a una manciata di coriandoli ed era ritornato davanti alla prima fila, riprendendo la lezione. «L’istinto si può approssimativamente dividere in due impulsi: l’impulso a sopravvivere e l’impulso a riprodursi. Nell’essere umano il pensiero cosciente è consapevole di entrambi. Costruiamo la società per gestire i nostri istinti. In effetti, la società li mitiga a tal punto che è facile dimenticare di possederli.»
Si era voltato verso la lavagna e aveva iniziato convulsamente a mettere giù una lista. «Abbiamo abitudini, buone maniere, governo, polizia, tradizioni, educazione, moda, commercio, creatività, sport e via discorrendo. Tutte queste espressioni della nostra società lavorano nella medesima direzione: controllare e sopprimere la risposta istintiva.» La lavagna vibrava e dondolava sui sostegni, scossa dall’enfatico scribacchiare di Senlin. «L’istinto è il carburante del motore della civiltà. Generazioni hanno lavorato per perfezionare questo motore. Ognuno di voi, spero, trascorrerà la vita a preservarlo. Perché, senza di esso, siamo delle bestie pericolose.»
Corse con lo scudo. Sembrava diventato più leggero. L’adrenalina gli sfrigolava nel sangue mentre caricava Mayfair. Il bruto era immobile come un manzo davanti alle luci di un treno. Sembrava più vecchio e vulnerabile di prima. Senlin si limitò a prenderne atto, ma la cosa non lo colpì particolarmente. Non risvegliò nessun briciolo di pietà. Non stava riflettendo: ormai era al di là di ogni pensiero.
Ed era una bella sensazione. Non aveva mai provato un tale, selvaggio abbandono in vita sua. Sentiva Edith che procedeva veloce dietro di lui, gli istinti in sintonia con i suoi mentre si precipitavano lungo la sala da pranzo. Avrebbero colto Mayfair alla sprovvista. Sarebbero sopravvissuti.
Poi Mayfair mollò il prosciutto, imbracciò il moschetto e aprì il fuoco.
Sedeva in fondo a un pozzo. In alto, lontano, c’era un puntino luminoso. Una nota stridula gli riecheggiava nelle orecchie, ricordandogli vagamente il suono prodotto da un dito che scorre su un calice di cristallo.
Sentiva gli arti come corde bagnate. Era confuso, ma senza paura. Iniziò a sollevarsi piano dal fondo del pozzo, le membra inutili che gli sbattevano sui fianchi, nel buio. La luce aumentò.
Emerse sul pavimento della sala da pranzo.
Fissava il profilo della sua mano pallida, appoggiata vicino al viso. Rotolò sul torace e avvertì ogni costola come una distinta fascia di dolore. Lo scudo, piegato a un angolo, era a terra lì accanto. Attraverso il fischio nelle orecchie, sentì dei gemiti e del legno che sbatacchiava. Sedie rovesciate, sparse sul pavimento, in mezzo alle quali vide degli stivali che indietreggiavano. Un’altra sedia cadde sul pavimento.
Era Mayfair. Camminava a grandi passi lungo il tavolo, il fianco contro il bordo, in una maniera che lo disorientava. L’energumeno scalciava sedie dal suo percorso mentre procedeva, il moschetto sempre spianato. La vista dell’arma scacciò la nebbia dalla mente di Senlin. Notò che Edith non era più al suo fianco. Doveva alzarsi. Aggrappandosi al bordo del tavolo, si tirò in piedi. Si afferrò la testa per impedirle di scoppiare. Il colpo esploso da Mayfair aveva spinto indietro lo scudo, dritto contro la sua tempia. Temeva di svenire ancora. Poi scorse Edith che scivolava lungo il piano brunito del tavolo, trascinata dal suo aguzzino, che la teneva per le gonne.
L’uomo dava le spalle a Senlin. Si fermò per tastare con fare da ubriaco le stecche di balena del corsetto della donna e la pelle scoperta. Edith sembrava semi incosciente. Gemette e roteò la testa, mentre Mayfair ricominciava a trascinarla.
Senlin trovò l’attizzatoio tra le sedie ribaltate. Lo sollevò e mirò alla schiena di Mayfair. Edith emerse dalla semi incoscienza una frazione di secondo prima del suo arrivo e si mise a scalciare sotto agli strati del vestito. Mayfair ebbe il tempo di alzare il pugno su di lei prima che Senlin calasse l’attizzatoio, colpendolo tra il collo e la spalla.
Il bruto crollò e Senlin perse la presa sulla sua arma, che volò sferragliando e rotolando lungo il pavimento. Non cercò di recuperarla. Tirò invece la gonna di Edith mentre la donna si muoveva goffamente verso l’estremità del tavolo e poi si rimetteva in piedi. Lei rimbalzò contro il petto di Senlin, le gambe ancora deboli per il colpo. Una striscia di sangue le partiva dalla fronte e scendeva fino all’occhio. Lui notò subito la ferita all’attaccatura dei capelli. Sanguinava copiosamente ma non sembrava troppo profonda.
Zoppicarono verso la porta della cucina, le gambe che si incrociavano e sbattevano, goffi come vitellini appena nati. Riuscirono a fare i due scalini che conducevano in cucina, sempre profumata e pittoresca, anche se la finzione aveva perso il suo fascino.
La lettera I sfavillava sul pannello della porta. Senlin sentì ritornare la sua parte razionale, e il primo pensiero a emergere dalle tenebre dell’istinto fu tanto nitido quanto straziante: “Se muoio, Marya non lo verrà mai a sapere. Penserà che io la abbia abbandonata”.
Erano quasi liberi. Nonostante il tremore alla mano, Senlin infilò la chiave nella toppa al primo tentativo. La porta si spalancò e ruzzolarono tra i due mondi.
Una ventina di maggiordomi in nero guardò a bocca aperta, con sgomento e stupore, la coppia in iperventilazione. Avevano un aspetto raccapricciante. Il sangue dipingeva un lato del viso della donna e le macchiava le gonne. Chiazze sanguinolente imbrattavano la pettorina inamidata di Senlin. Con gli occhi brillanti, lucidi dalla paura, procedettero a falcate lungo il corridoio come in una corsa a tre gambe, le braccia di Edith attorno alle spalle e al collo di lui.
La sorpresa iniziale dei maggiordomi esplose in puro caos. Alcuni risposero restando nel personaggio, inchinandosi al passaggio dei due, un gesto scomodo nel corridoio affollato. Altri li rimproverarono per aver spezzato l’illusione. Altri ancora si allontanarono a disagio, certi che l’uomo e la donna insanguinati fossero assassini fuori controllo. Senlin si fece strada tra spalle nere e falde di marsine, con Edith accanto. Ancora una volta pensò: “Se muoio, non lo verrà mai a sapere”.
Un urlo disumano, l’inconfondibile barrito della furia, squarciò il frastuono.
Senlin girò la testa e vide che il corridoio era sgombro. I maggiordomi si erano precipitati sgomitando verso le pareti, come scarafaggi in un barattolo. All’altro capo della folla divisa c’era Mayfair, un occhio dietro al mirino del moschetto.
“Penserà che io la abbia abbandonata.”
Rimbombò uno sparo. Le file di maggiordomi si dimenarono e svennero.