Capitolo cinque
Il pozzo della Torre fornisce un’acqua celebre perché tonificante e pura. È questa fonte incontaminata che dà alla birra locale il suo gusto tanto decantato.
Guida per tutti alla Torre di Babele, III, II
Senlin aprì gli occhi in una stanza male illuminata. Era stato svegliato da un grido terrificante. Spaventato e disorientato, balzò su dalla sgangherata branda su cui era steso. Le doghe di pino scricchiolarono e sobbalzarono sotto di lui come le assi di un vecchio pontile. L’aria puzzava di marcio e muffa. In alto, in un angolo buio, un’ombra del colore del sangue si agitò improvvisamente. Senlin sollevò le braccia di scatto per difendersi dallo spettro che incombeva su di lui e lanciò uno strillo rauco.
Il grosso pappagallo scese dal trespolo, atterrò su un bordo del giaciglio sfatto e gracchiò di nuovo, un suono lacerante nella piccola stanza. L’uccello inclinò il capo in direzione di Senlin, gli occhietti bianchi e neri che si aprivano e chiudevano con curiosità.
L’unica luce proveniva da una lampada a olio dalla fiamma bassa che lambiva l’aria come la lingua di un gatto. Proiettava un bagliore arancione su pareti apparentemente sottili quanto la carta da parati ammuffita che le rivestiva. Un lavabo ammaccato in zinco raccoglieva le gocce di un rubinetto rozzo. L’unico altro arredo, uno sgabello a tre gambe, sembrava capacissimo di far rovinare a terra una persona. Il maestoso uccello, del tutto fuori posto nella stanza malconcia, piluccò con il becco adunco la coperta marrone aggrovigliata sulla branda.
Quanto aveva dormito? Senlin non si sentiva riposato, anzi, era proprio spossato. Sembravano trascorse due ore. Forse quattro. Impossibile dirlo con certezza.
Impiegò un momento per ricordare com’era giunto in quella stanza.
Era davvero malridotto quando lui e Adam erano riusciti a sfuggire al cunicolo fumoso e avevano fatto il loro ingresso nella caverna del Basamento. A causa delle esalazioni nel tunnel aveva gli occhi tumefatti, quasi chiusi. Le braccia e le gambe erano stranamente pesanti, come se fosse caduto in acqua con tutti i vestiti addosso. Era affamato, esausto e a ogni respiro tossiva per la fuliggine.
Adamos Boreas l’aveva aiutato a entrare nel primo alloggio in cui si erano imbattuti, poco più di una fila di stamberghe in carta catramata, senza un corridoio centrale o un atrio. Le porte delle stanze davano sulla strada, dove un albergatore dal collo taurino sedeva su una cassa rovesciata, intento ad affettarsi direttamente in bocca una salsiccia stagionata. A Senlin, il profumo della carne di maiale era sembrato forte come il franchincenso e gli aveva fatto venire l’acquolina in bocca.
Se fosse stato in una forma migliore non si sarebbe accontentato di quella sistemazione. Secondo lui, l’intera fila di baracche avrebbe dovuto essere bruciata e le ceneri spidocchiate. Ma era così stanco che aveva permesso a Adam di prendere una stanza dove dormire per qualche ora mentre la sua giovane guida badava ai loro effetti personali. Senlin si era afflosciato sul letto, braccia e gambe che penzolavano inerti fuori dai bordi. Troppo distrutto persino per accorgersi del pappagallo appollaiato sopra di lui. Aveva dormito profondamente.
Si domandò dove fosse Adam.
Aprì il rubinetto. Le tubature vibrarono e per un attimo, da una giuntura rappezzata con un cencio, schizzò fuori dell’acqua; poi il lavandino cominciò a riempirsi. L’acqua torbida odorava vagamente di zolfo e, se Senlin fosse stato più sveglio, non ci avrebbe affondato la faccia con tanto entusiasmo. La sensazione dell’acqua sulle ferite alla guancia e alla mano era fantastica ma, seppure assetato, non se la sentì di berla. La Guida aveva raccomandato di essere cauti in presenza di tubature sospette: un solo sorso d’acqua aveva rovinato la vacanza a tanti.
Quando si raddrizzò si rese conto che si stava bagnando il bavero della giacca e che non c’era un asciugamano, solo un cencio su un gancio, tanto piccolo che forse ci si poteva asciugare un topo. Il suo abito di velluto, già rosa per la sabbia del deserto, cominciò a diventare rosso: la polvere di cui era ricoperto si stava tramutando in fango. Si ricordò del cambio di abiti nella tracolla e si voltò per cercare il bagaglio.
Mentre gli dava le spalle, il pappagallo era riuscito a rifare il letto. L’uccello intelligente strillò ancora e poi con una voce quasi umana disse: «È ora di andare! È ora di andare!».
«Dammi un momento!» replicò Senlin, agitato. I capelli gli bagnavano il colletto mentre guardava ovunque a caccia della tracolla.
Non ci mise molto a capire che la borsa e il fagotto di intimo femminile erano scomparsi. Quando si toccò le tasche dei pantaloni, le trovò rivoltate all’esterno. Gli spiccioli, il penny e il mezzo penny erano scomparsi. Era stato derubato. Il suo rasoio e il sapone, il diario, il pettine, la spazzola per abiti, i guanti di lino e i fazzoletti, il panciotto, i pantaloni, i calzini, la Guida e i biglietti infilati all’interno. Tutto sparito.
In preda al panico si toccò il girovita dei pantaloni. Il bozzo rivelatore delle banconote c’era ancora. Gli sfuggì una mesta risata. Quanto era stato intelligente a insistere sulle tasche segrete! Ma, seriamente, quanto poteva essere intelligente? Era la seconda volta in pochi giorni che veniva rapinato.
«È ora di andare!» ripeté il pappagallo con voce roca. Finito di rassettare, saltò sul trespolo e cominciò a lisciarsi le penne.
Senlin aveva la mano stretta attorno al pomello della porta quando intravide il libro nell’ombra, sotto al letto. Si mise a quattro zampe e lo ripescò, liberando nel mentre anche un batuffolo di polvere. Era la Guida per tutti. Con suo grande sollievo, i biglietti del treno erano infilati all’interno, al sicuro come un segnalibro.
Possedeva ancora la maggior parte del suo denaro e il biglietto per tornare a casa. Per essere stato appena rapinato, si sentiva molto fortunato.
Come poteva essersi sbagliato a tal punto su Adam? Si era sempre considerato bravo a giudicare il carattere delle persone. Anni di esperienza gli avevano insegnato a distinguere bugiardi e truffatori dagli studenti semplicemente nervosi. Avrebbe dovuto sospettare di una persona che, dopo due anni, continuava ad affiggere inutili messaggi all’Oggetti smarriti. Boreas era irrazionale, superstizioso e disperato. Non ci si poteva fidare di uomini del genere, per quanto potessero sembrare comprensivi. Adam non aveva avuto nemmeno il buon senso di rubare la Guida! Irritato dall’ennesimo intoppo, che avrebbe reso il suo ricongiungimento con Marya ancora più umiliante, e imbarazzato dalla propria mancanza di giudizio, Senlin mise la Guida nella tasca della giacca. Spostò i biglietti del treno nel taschino segreto, estrasse alcuni shekel e uscì dalla stanza. Con uno strillo di congedo, il pappagallo gli ricordò del tempo passato in camera.
Le strade e i quartieri della città del Basamento stavano tutti in una singola, ampia caverna. Senlin stimò che potesse contenere tutta Isaugh, dalla scuola fino alle lingue di terra della baia. Tubature umide e chiazzate di muffa gialla cingevano le pareti della grotta e il soffitto a volta, dove si propagavano in ogni direzione come un labirinto. Una tenue pioggia di condensa schizzava contro le sue spalle, la pavimentazione di ardesia e le tegole di argilla degli edifici. Migliaia di lumache, alcune grandi come mucche, aderivano alle tubature sul soffitto, le conchiglie del colore della giada scura, non lavorata. Le loro tracce viscide luccicavano come crepe nel vetro.
Per quanto la scena fosse bizzarra, non furono né la città in bottiglia né le enormi lumache ad attirare la sua attenzione. Fu l’imponente giostra girevole in ferro nell’area del mercato. Era stato richiamato lì dal profumo di shish kebab. Prese due spiedini e, mentre pagava, in automatico chiese al venditore se avesse visto una donna con un casco coloniale rosso. La domanda cadde nel nulla, come era già capitato centinaia di volte negli ultimi giorni. La carne di capra aveva un buon sapore, ma con tutta probabilità il condimento decisivo era il fatto che stava morendo di fame.
Masticando, guardò la decina di uomini adulti sulla giostra. Erano felici quanto i suoi alunni quando li congedava.
La giostra sferragliava, ronzava e faceva brontolare il terreno. Aveva un aspetto antiquato, come una macina. Dodici sgabelli erano saldati alla ruota di ferro e sotto a ognuno c’erano dei pedali come quelli di una bicicletta. Se uno dei ciclisti rallentava, gli altri lo incoraggiavano e lo schernivano perché riprendesse velocità. Pareva che, lavorando all’unisono, dessero energia alla giostra, benché la lentezza con cui girava non corrispondesse ai frenetici sforzi dei ciclisti. Come passatempo per degli uomini adulti era piuttosto strano, ma poi, dal perno conico del macchinario, Senlin vide zampillare dell’acqua che ricadeva giù attraverso uno scivolo al livello della faccia dei tizi seduti. Da lì, cannucce color avorio salivano a spirale fino alle loro bocche. Gli occupanti bevevano da quelle cannucce con grande gusto mentre pedalavano.
Senlin si leccò il grasso della carne dalle labbra. Non riusciva a ricordare l’ultima volta che aveva avuto tanta sete.
Proprio quando pensò che forse era abbastanza disperato da cercare di saltare a bordo della fontana rotante, un forte clangore metallico scosse l’intera macchina, che si fermò.
Gli uomini seduti ebbero a malapena il tempo di urlare preparandosi a quello che stava per capitare prima che l’intero disco cominciasse a ruotare in senso opposto. Girò tanto rapidamente al contrario che le schiene degli uomini si fecero indistinte. Lo scivolo spruzzò fuori una pioggia obliqua. Alcuni spettatori si allontanarono in fretta per evitare di bagnarsi, mentre altri aprirono la bocca. Una singola sferzata raggiunse il viso di Senlin, il quale assaggiò il liquido pungente che gli scorreva sulle guance. Non era acqua. Era birra.
D’improvviso uno dei ciclisti perse la presa e fu sbalzato via dallo sgabello. Prima volò e poi rotolò sul lastricato. Un turista di passaggio dovette saltare per non essere abbattuto come un birillo. La giostra, che sembrava aver esaurito l’inerzia, ticchettò fino a fermarsi del tutto, come un orologio scarico. I restanti undici uomini smontarono barcollanti e se ne andarono incespicando, con le gambe che tremavano. I posti vacanti vennero subito riempiti.
Vinto dall’empatia, Senlin corse dall’uomo disarcionato. Prima ancora di voltarlo a faccia in su capì dal colletto lacero e dall’odore rancido che era un indigente. Quando lo girò sulla schiena aveva gli occhi chiusi. La bocca, invece, era aperta, una cavità in gran parte priva di denti. Senlin si domandò se il capitombolo non l’avesse ucciso.
Gli occhi dell’uomo, però, si spalancarono di scatto ed esalò una zaffata dal puzzo acre come una sputacchiera sul viso di Senlin. Non era morto, ma solo sbronzo. Il poveretto proruppe in una risata fragorosa e afferrò la giacca del suo soccorritore per tirarsi su, riuscendo solo a strappargli un intero risvolto. Entrambi rimasero a bocca aperta davanti al brandello di velluto che l’uomo stringeva nel pugno. L’ubriaco fece un patetico tentativo di riattaccarlo.
Senlin all’improvviso capì di non essere nella posizione di aiutare quel tizio, o chiunque altro. Se fossero stati fianco a fianco in strada, dubitava che sarebbe stato possibile distinguerli. Era sceso dal treno da tre giorni e già sembrava un accattone.
Sua moglie era scomparsa. Doveva controllarsi. Dopotutto era un preside.
Sotto le lumache e le tubature si estendeva una città di pub, negozi, ostelli e case. La maggior parte era costruita con piastre di metallo, argilla e cemento nero friabile, e aveva le pareti imbarcate e infossate. Lampade a gas precipitavano la città in un buio crepuscolo.
La calca non era così soffocante quanto nel bazar all’esterno, ma era altrettanto eterogenea. Un momento passava una dama imbellettata al braccio di un elegante gentiluomo, entrambi profumati di pot-pourri e cera per capelli. L’istante successivo toccava a un pellegrino in vecchi abiti sbiaditi, puzzolente come un pescivendolo in agosto. Cosa avrebbe dato Senlin per una bella brezza marina purificatrice! Qua e là una struttura più stabile si ergeva come un albero in un canneto. Le facciate di mattoni rossi dei negozi e delle sedi delle corporazioni davano alle strade una minima parvenza di civiltà: per il resto l’architettura era abbastanza misera.
Era deluso, non poteva farne a meno: quello non era certo lo sfavillante centro culturale che si era immaginato. Il Basamento poteva essere, con tutta la sua sciatteria, una città portuale dove i marinai sbarcavano per liberarsi del piede marino. Santo cielo, c’erano fontane di birra ovunque! Dopo la prima, ne aveva superate altre sei. La Guida per tutti era un po’ vaga nel descrivere l’atmosfera del Basamento, assegnandogli il ruolo di ingresso alle più importanti attrattive dei piani alti, ma sembrava comunque un’esagerazione. Per lui era più confortante pensare al Basamento come all’anticamera della Torre. Era il posto dove ci si levava lo sporco della strada dagli stivali prima di entrare nelle sacre sale superiori.
In lontananza, al centro esatto del Basamento, si innalzava una colonna bianca che arrivava fino alla volta. La spirale di marmo ricordava un faro, non solo per le sue dimensioni imponenti, ma anche per il senso di sicurezza che gli trasmetteva. Era il primo elemento architettonico che appariva adeguatamente sontuoso. Persino le lumache lo lasciavano in pace. Capì qual era la funzione della colonna dalla descrizione nella guida: si trattava della scalinata per il secondo livello della Torre di Babele.
Marya era molto più brava di lui nell’affrontare i difetti del mondo, ragion per cui era indomita e difficile da deludere. Probabilmente aveva trovato affascinanti le lumache giganti e le giostre per ubriaconi.
Senlin colse il suo riflesso nella vetrina di un negozio. I capelli, di solito pettinati con cura, sembravano i fili di una corda sfilacciata e il vestito era ridotto a uno strofinaccio con le tasche. Dubitava che la moglie lo avrebbe trovato attraente.
Non poteva farne a meno. Gli serviva un abito nuovo.
Mezz’ora più tardi era nel camerino di un sarto a osservarsi in uno specchio a muro nei suoi nuovi vestiti. Aveva scelto un abito pratico benché, a dire il vero, somigliasse molto alla sua uniforme da preside: giacca a metà coscia, panciotto nero e pantaloni abbinati, camicia bianca e stivali neri dalla punta quadrata.
Dopo aver messo in tasca abbastanza soldi da coprire il costo dei vestiti nuovi e qualcosa per le spese della giornata, aveva nascosto il resto delle sue finanze negli stivali. Era certo che nemmeno il più abile dei borseggiatori sarebbe riuscito a prenderglieli.
Lasciò gli abiti rovinati in una pila ordinata nel camerino e poi uscì.
Rimase un po’ stupito nel vedere che qualcun altro era entrato nel laboratorio del sarto, vuoto fino a un minuto prima, a parte l’attempato e occhialuto titolare. Il nuovo arrivato era molto basso, forse un nano, aveva il naso storto e una massa ingarbugliata di capelli neri. Dai fili dorati nel suo gilet si intuiva che fosse un qualche genere di mercante. Di chiunque si trattasse, aveva una discreta parlantina. Stava discutendo con il sarto davanti a un involto di abiti. Senlin si mise a dare un’occhiata ai fazzoletti, non volendo interrompere la trattativa. Gliene servivano almeno tre.
«Ma non vendo articoli da donna» disse il sarto, deciso.
«La veda come un’opportunità per espandere il mercato. Non vengo a proporle stracci. Questi sono indumenti di seta di qualità!» L’uomo basso dai capelli arruffati diede qualche strattone per sfilare un singolo capo dal fagotto.
Lo sventolò come una bandiera. «Guardi, non rimane nemmeno una grinza.»
«Mi scusi» tagliò corto il sarto, e si rivolse a Senlin, che nel frattempo aveva scelto tre pratici fazzoletti bianchi. Si spostarono nella parte del bancone dove era collocato un registratore di cassa con i bordi di ottone. Senlin pagò il vestito, gli stivali e i fazzoletti nuovi.
Il mercante, intanto, teneva d’occhio lo scambio di denaro come un gatto che punta un uccellino. «Dia un’occhiata a questi capi in seta» proseguì concitato. «Sono così robusti che si potrebbe prendere questa sottoveste, annodarne un capo, riempirla di gas e far decollare un barcone!»
Chiudendo bruscamente il cassetto del registratore di cassa, il sarto si tolse gli occhiali e iniziò a strofinare vigorosamente le lenti.
«Non vendo neanche ai capitani di barconi.»
Il mercante fece schioccare la lingua. «Mi piace chi ha il senso dell’umorismo.»
Fu solo quando stava per andarsene che Senlin notò il bagaglio appeso alla spalla del mercante. L’impuntura era inconfondibile. Era la sua tracolla.
Forse era ispirato dal nuovo completo e dalla camicia inamidata, che sentiva con soddisfazione ben stretta attorno ai polsi e al collo, o forse era la bassa statura del mercante, che gli ricordava i suoi allievi riempiendolo di un senso di autorità, o magari il recente tradimento di Adam con il conseguente furto. Quale che fosse la causa, Senlin avvertì un moto di sicurezza, quasi di avventatezza. Non avrebbe lasciato andare impunito quel ladro! Avrebbe messo a tacere il suo tipico autocontrollo per passare all’azione. Temendo che potesse essere armato, decise che la strategia migliore fosse di prendere di sorpresa il malvivente. Appoggiò la schiena alla facciata del negozio, accanto alla porta: avrebbe colto il ladro del tutto impreparato non appena fosse uscito. Si sentì invadere da un fremito di attesa che gli era del tutto estraneo.
Quando la porta si aprì, Senlin afferrò il nano per il colletto e lo sollevò da terra.
«Ah-ah, ti ho beccato!» gridò, trionfante. Trionfo che fu rapidamente smorzato da un tacco piantato nell’inguine.