20.
LE STRADE SI SEPARANO
Il viaggio di ritorno a Santa María de la Lluvia fu un vero incubo, perché César ci mise più di un'ora a destreggiarsi con i comandi e a tener dritto l'elicottero, al punto che nessuno pensava che sarebbe arrivato vivo nella civiltà e persino Kate, che aveva il sangue freddo come quello dei pesci degli abissi, prese commiato dal nipote con una vigorosa stretta di mano.
"Addio, Giaguaro. Temo che sia finita qui. Mi dispiace che la tua vita sia stata così breve" gli disse.
I soldati pregavano ad alta voce e bevevano liquore per combattere la paura, mentre Timothy Bruce manifestava la sua profonda disapprovazione inarcando il sopracciglio destro, smorfia che generalmente preludeva a uno scoppio d'ira. Gli unici veramente tranquilli erano Nadia, che non soffriva più di vertigini e che aveva fiducia in suo padre, e il professor Leblanc, talmente nauseato da aver perso la percezione del pericolo.
Diverse ore più tardi, dopo un atterraggio rocambolesco quanto il decollo, i membri della spedizione poterono sistemarsi nel misero albergo di Santa María de la Lluvia. Il giorno successivo sarebbero partiti per Manaus, dove avrebbero preso l'aereo per le rispettive destinazioni. Nonostante il motore nuovo, il piccolo aereo di César si rifiutò di decollare, per cui sarebbero tornati lungo il Rio Negro in barca, come all'andata. Joel González, l'amico e collega di Timothy Bruce, si era ristabilito a sufficienza e avrebbe viaggiato con loro. Le suore avevano improvvisato un busto di gesso, che lo immobilizzava dal collo alle anche, e prevedevano che le costole si sarebbero rimesse a posto senza conseguenze, sebbene lo sfortunato fotografo non sarebbe probabilmente mai guarito dai suoi incubi. Ogni notte sognava l'abbraccio di un anaconda.
Le suore assicurarono che anche i tre soldati feriti si sarebbero ripresi: per loro fortuna le frecce che li avevano colpiti non erano avvelenate. Invece la situazione di Mauro Carías era disperata. La bastonata di Tahama gli aveva danneggiato il cervello e, nel migliore dei casi, l'imprenditore sarebbe stato costretto su una sedia a rotelle per il resto della vita, incapace di intendere e di volere e privo di qualsiasi autonomia. Era già stato trasferito in aereo a Caracas insieme a Omayra Torres, che non lo lasciava nemmeno un istante. La donna non sapeva che Ariosto era morto e che non avrebbe più potuto proteggerla e non sospettava neppure che sarebbe stata costretta a presentarsi davanti alla giustizia non appena gli stranieri avessero raccontato tutta la storia dei falsi vaccini. Aveva i nervi a pezzi, continuava a ripetere che era tutta colpa sua, che Dio li aveva puniti per la faccenda del virus del morbillo. Nessuno capiva quelle strane dichiarazioni, ma padre Valdomero, accorso per fornire sostegno spirituale al moribondo, prestò attenzione alle parole della donna. Il sacerdote, come Karakawe, sospettava già da tempo che Carías avesse un piano per sfruttare le terre degli indios, ma non era riuscito a scoprire di che cosa si trattasse. Le apparenti farneticazioni della dottoressa gli fornirono la chiave.
Con il capitano Ariosto a capo della guarnigione, l'imprenditore aveva fatto il bello e il cattivo tempo in tutta la zona. Il missionario non aveva l'autorità per smascherare quei farabutti e aveva dovuto limitarsi a informare la Chiesa dei suoi sospetti. Le sue parole erano state ignorate, dato che non c'erano prove, tanto più che il buon uomo veniva considerato mezzo matto: Carías aveva infatti pensato bene di far girare la voce che il prete delirava da quando era stato rapito dagli indios. Padre Valdomero si era persino recato in Vaticano per denunciare gli abusi perpetrati ai danni degli indigeni, ma le autorità ecclesiastiche si erano premurate di ricordargli che la sua missione era quella di diffondere la parola di Cristo in Amazzonia e non di occuparsi di politica. L'uomo era tornato sconfitto, chiedendosi come potevano pretendere che lui salvasse le anime per il cielo se gli impedivano di salvarle sulla terra. Peraltro non era affatto convinto della necessità di convertire gli indios, che avevano una loro forma di spiritualità. Avevano vissuto per migliaia di anni in armonia con la natura, come Adamo ed Eva nell'Eden: che bisogno c'era di inculcare loro il concetto di peccato?, pensava padre Valdomero.
Quando venne a sapere che il gruppo dell'"International Geographic" era tornato a Santa María de la Lluvia e che il capitano Ariosto era morto in modo misterioso, il missionario si presentò all'albergo. Le versioni fornite dai soldati circa gli eventi accaduti sull'altopiano erano molto contraddittorie: c'era chi dava la colpa agli indios, chi alla Bestia e chi arrivò addirittura a puntare il dito contro i membri della spedizione. Comunque fosse andata, la morte di Ariosto apriva uno spiraglio alla possibilità di fare giustizia. Solo uno spiraglio, perché a capo delle truppe sarebbe presto arrivato un sostituto del capitano e non c'era la minima garanzia che fosse più onesto di Ariosto; anche lui avrebbe potuto cedere alla corruzione e alla criminalità, come spesso accadeva in Amazzonia.
Padre Valdomero riferì quanto aveva saputo al professor Leblanc e a Kate. Il fatto che Carías diffondesse epidemie con la complicità della dottoressa Torres e sotto la protezione di un ufficiale dell'esercito era un crimine così spaventoso che senza prove non sarebbero mai stati creduti.
"La notizia di questo massacro scuoterebbe il mondo intero. Peccato che non possiamo dimostrarlo" disse la giornalista.
"Credo che invece ce la faremo" rispose César, tirando fuori da una tasca del gilet una delle boccette del presunto vaccino.
Disse che Karakawe era riuscito a sottrarla dal materiale della dottoressa appena prima di essere ucciso.
"Alexander e Nadia lo avevano già sorpreso a frugare tra le casse dei vaccini e, nonostante lui li avesse minacciati di non provarci neanche a tradirlo, i ragazzi me lo riferirono. Credevamo che Karakawe fosse complice di Carías, non potevamo immaginare che si trattasse di un agente del governo" disse Kate.
"Io sapevo che Karakawe lavorava per il Dipartimento per la protezione degli indigeni e per questo suggerii al professor Leblanc di assumerlo come assistente personale. Così avrebbe potuto partecipare alla spedizione senza destare sospetti" spiegò César.
"Lei si è servito di me, César" rilevò il professore.
"Lei voleva che qualcuno le facesse aria con una foglia di banano e Karakawe voleva venire con noi. Tutti ci hanno guadagnato, professore" sorrise la guida, aggiungendo che Karakawe stava facendo indagini su Carías da diversi mesi e che aveva messo insieme un grosso fascicolo sugli affari sporchi di quell'individuo, soprattutto sul modo in cui sfruttava le terre degli indigeni. Di sicuro nutriva dei sospetti sulla relazione tra Carías e la dottoressa Torres, motivo per cui aveva deciso di seguire la donna.
"Karakawe era un caro amico, ma era un uomo chiuso e di poche parole. Non mi aveva mai detto nulla sulla dottoressa Torres" disse César. "Immagino che fosse alla ricerca di una spiegazione per le morti in massa degli indios: per questo motivo si impossessò di uno dei flaconi del vaccino e me lo consegnò per tenerlo al sicuro."
"Con questo possiamo dimostrare il metodo crudele con cui diffondevano le epidemie" affermò Kate, osservando la bottiglietta in controluce.
"Anch'io ho qualcosa per te, Kate" sorrise Timothy Bruce, mostrandole i rullini che aveva in mano.
"Cosa sono?" chiese incuriosita la giornalista.
"Sono le immagini di Ariosto che spara a bruciapelo a Karakawe, di Carías che distrugge le boccette e dell'uccisione degli indios. Grazie al professor Leblanc, che si incaricò di distrarre il capitano per una mezz'ora, sono riuscito a sostituire i rullini prima che li distruggesse. Ho consegnato al capitano quelli relativi alla prima parte del viaggio e ho messo in salvo questi" spiegò il fotografo.
Kate ebbe una reazione inusitata: saltò al collo di César e di Timothy e stampò a entrambi un bacio sulla guancia.
"Che il cielo vi benedica, ragazzi!" esclamò felice.
"Se, come crediamo noi, qui dentro c'è davvero il virus, Carías e la sua donna sono imputabili di genocidio e dovranno risponderne..." mormorò padre Valdomero, tenendo il flaconcino con due dita e il braccio teso, quasi temesse che il veleno gli saltasse addosso.
Fu lui a proporre la creazione di una fondazione preposta a proteggere l'Occhio del Mondo e in particolar modo il Popolo della Nebbia. Con l'abile penna di Kate e il prestigio internazionale del professor Leblanc era certo di riuscirci, esclamò pieno di entusiasmo. Mancavano i finanziamenti, come al solito, ma fra tutti avrebbero trovato il modo di ottenere il denaro: si sarebbero rivolti alle varie Chiese, ai partiti politici, agli organismi internazionali, ai governi, insomma, avrebbero bussato a tutte le porte pur di recuperare i fondi necessari. Bisognava salvare la tribù, disse il missionario, e tutti furono d'accordo con lui.
"Lei sarà il presidente della fondazione, professore" propose Kate.
"Io?" domandò Leblanc, francamente sorpreso e lusingato.
"Chi meglio di lei? Quando Ludovic Leblanc parla, il mondo ascolta..." ripeté Kate, imitando il tono presuntuoso dell'antropologo, e tutti scoppiarono a ridere, tranne Leblanc, ovviamente.
Alexander e Nadia erano seduti all'imbarcadero di Santa María de la Lluvia, dove, qualche settimana prima, avevano parlato per la prima volta dando inizio alla loro amicizia. Come allora, la notte era invasa dal gracidio dei rospi e dagli urli delle scimmie, ma questa volta non c'era la luna a illuminarli. Il firmamento era buio e punteggiato di stelle. Alexander non aveva mai visto un cielo così, non pensava nemmeno ne esistessero tante. I ragazzi sentivano che da quando si erano conosciuti la loro vita aveva fatto un grande passo in avanti, in poche settimane tutti e due erano cresciuti e cambiati. Per un po' restarono in silenzio a osservare il cielo, pensando che presto si sarebbero separati, poi, all'improvviso, Nadia si ricordò del cestino che voleva dare all'amico, quello che Walimai le aveva consegnato al momento del commiato. Alex lo prese con riguardo e lo aprì: conteneva le tre uova della montagna sacra.
"Conservale, Giaguaro. Sono molto preziose, sono i diamanti più grandi del mondo" gli disse Nadia in un sussurro.
"Sono diamanti?" domandò Alex spaventato, senza osare toccarle.
"Sì. Appartengono al Popolo della Nebbia. Secondo la mia visione, queste uova possono salvare quegli indios e la loro foresta."
"Perché me le dai?"
"Perché sei stato nominato capo per negoziare con i nahab. I diamanti ti serviranno per il baratto" gli spiegò.
"Ma Nadia! Ho solo quindici anni, non ho alcun potere al mondo, non posso negoziare con nessuno e tanto meno essere responsabile di questa fortuna."
"Quando sarai al tuo paese le darai a tua nonna. Lei saprà di certo cosa farne. Kate è una donna molto potente, in grado di aiutare gli indios" sostenne la ragazza.
"Sembrano pezzi di vetro. Come sai che sono diamanti?" chiese Alex.
"Li ho fatti vedere a mio papà e lui li ha riconosciuti subito. Ma nessuno deve saperlo finché non sono al sicuro, altrimenti te li rubano, capisci Giaguaro?"
"Sì. Il professor Leblanc li ha visti?"
"No, solo mio padre, tu e io. Se il professore lo viene a sapere, lo racconterà a mezzo mondo in un batter d'occhio" affermò lei.
"Tuo papà è un uomo molto onesto, qualsiasi altra persona si sarebbe tenuta i diamanti."
"Tu lo avresti fatto?"
"No!"
"Neanche mio padre. Non ha voluto nemmeno toccarli, ha detto che portano male, che la gente si ammazza per queste pietre" rispose Nadia.
"Ma come riuscirò a farli passare dalla dogana degli Stati Uniti?" domandò il ragazzo soppesando le magnifiche uova.
"In un sacchetto. Se qualcuno li vede, penserà che sono i soliti prodotti artigianali dell'Amazzonia venduti ai turisti. Nessuno immagina che esistono diamanti di questa grandezza, oltretutto in mano a un ragazzino con la testa mezza rapata" rise Nadia, passandogli le dita sulla chierica rasata.
Poi tacquero a lungo, guardando l'acqua ai loro piedi e la vegetazione densa di ombre che li circondava, tristi perché avrebbero dovuto dirsi addio nel giro di qualche ora. Pensavano che la vita non avrebbe più riservato loro nulla di così straordinario come l'avventura che avevano affrontato insieme. Che cosa mai sarebbe stato paragonabile alle Bestie, alla città d'oro, al viaggio di Alex nelle viscere della Terra e all'ascensione di Nadia fino al nido delle meravigliose uova?
"Mia nonna è stata incaricata di scrivere un altro reportage per l''International Geographic'. Deve andare nel Regno del Drago d'oro" disse Alex.
"Sembra interessante almeno quanto l'Occhio del Mondo. Dove si trova?" chiese la ragazza.
"Sulle montagne dell'Himalaya. Mi piacerebbe andare con lei, ma..."
Il ragazzo sapeva che era quasi impossibile. Doveva riprendere la vita di tutti i giorni. Era stato via per diverse settimane, era ora di tornare a scuola o avrebbe perso l'anno. Voleva anche rivedere la sua famiglia e abbracciare Poncho. Soprattutto doveva dare a sua madre l'acqua della vita e la pianta di Walimai; era sicuro che, insieme alla chemioterapia, l'avrebbero fatta guarire. Ma l'idea di dover lasciare Nadia lo faceva soffrire immensamente, sperava che non albeggiasse mai, avrebbe voluto restare per sempre sotto le stelle in compagnia dell'amica. Nessuno lo conosceva bene come lei, nessuno era più vicino al suo cuore di quella ragazzina color del miele, incontrata per caso all'altro capo del mondo. Cosa sarebbe stato di lei? Sarebbe cresciuta saggia e libera nella foresta, lontanissima da lui.
"Chissà se ti rivedrò ancora..." sospirò Alex.
"Certo!" disse lei, abbracciata a Borobá, fingendosi allegra per dissimulare le lacrime.
"Ci scriveremo, vero?"
"La posta, da queste parti, non funziona un granché..."
"Pazienza, anche se le lettere impiegheranno molto tempo ad arrivare, ti scriverò lo stesso. La cosa più importante di tutto il viaggio per me è averti conosciuta. Non ti dimenticherò mai, Nadia, mai, resterai sempre la mia migliore amica" promise Alexander con la voce rotta.
"E tu il mio miglior amico, perché riusciremo a vederci con il cuore" replicò Nadia.
"A presto, Aquila..."
"A presto, Giaguaro..."
FINE