3.
L'ABOMINEVOLE UOMO DELLA FORESTA

"Usa la bocca e arriverai fino a Roma" era uno dei motti di Kate. Il suo lavoro la obbligava a viaggiare per luoghi remoti, dove sicuramente aveva avuto modo diverse volte di mettere in pratica quella massima. Alex era piuttosto timido, gli costava avvicinare uno sconosciuto per chiedere un'informazione, ma non aveva alternative. Non appena riuscì a tranquillizzarsi e a recuperare la parola, si diresse verso un uomo che masticava un hamburger e gli domandò come raggiungere l'incrocio tra la Quattordicesima e la Seconda Avenue. Il tizio si strinse nelle spalle e non rispose. Alex rimase perplesso per qualche minuto e alla fine si avvicinò a uno dei camerieri dietro il bancone. L'uomo indicò con il coltello che teneva in mano una vaga direzione e gli diede le istruzioni urlando per coprire il baccano del ristorante, con un accento così stretto che Alex non capì una parola. Decise che era una questione di logica: doveva verificare da quale parte stava la Seconda Avenue e contare le strade, molto semplice; ma non gli sembrò più così semplice quando si rese conto che si trovava all'incrocio tra la Quarantaduesima e l'Ottava Avenue e calcolò il percorso da coprire, con quel freddo glaciale. Fu grato al suo allenamento di alpinista: se era in grado di passare sei ore ad arrampicarsi come un ragno sulle rocce, avrebbe certamente potuto camminare per qualche isolato su un terreno pianeggiante. Tirò su la cerniera del giaccone, mise la testa tra le spalle, ficcò le mani in tasca e s'incamminò.

Era mezzanotte passata e cominciava a nevicare quando il ragazzo arrivò alla via della nonna. Il quartiere gli parve decrepito, sporco e brutto, non c'era un albero neanche a pagarlo e da un bel po' non si vedeva nessuno in giro. Pensò che solo un disperato come lui poteva camminare a quell'ora per le pericolose strade di New York; se l'era cavata e non era stato vittima di un'aggressione solo perché nessun bandito aveva il fegato di uscire con quel freddo. L'edificio era una torre grigia, in mezzo a molte altre torri identiche, circondata da inferriate di sicurezza. Suonò il campanello e immediatamente la voce roca e aspra di Kate domandò chi osasse disturbare a quell'ora della notte. Alex era certo che lo stesse aspettando, anche se ovviamente lei non l'avrebbe mai ammesso. Era congelato fino alle ossa e mai nella sua vita aveva sentito così forte il bisogno di buttarsi tra le braccia di qualcuno ma, quando alla fine si aprì la porta dell'ascensore all'undicesimo piano e si ritrovò davanti a sua nonna, era determinato a non permetterle di notare la sua vulnerabilità.

"Ciao, nonna" salutò quanto più distintamente riuscì, visto come gli battevano i denti.

"Ti ho detto di non chiamarmi nonna!" lo redarguì.

"Ciao, Kate."

"Sei arrivato piuttosto tardi, Alexander."

"Non eravamo d'accordo che saresti venuta a prendermi all'aeroporto?" replicò lui cercando di trattenere le lacrime.

"Non eravamo rimasti d'accordo su un bel niente. Se non riesci ad arrivare dall'aeroporto a casa mia, non sarai certo in grado di venire con me nella foresta" disse Kate. "Togliti la giacca e gli stivali, ti preparo qualcosa di caldo e un bel bagno, ma sia ben chiaro che lo faccio solo per risparmiarti una broncopolmonite. Devi essere in forma per il viaggio. Non sperare che in futuro ti coccoli, è chiaro?"

"Non ho mai sperato che mi coccolassi" replicò Alex.

"Cosa ti è successo alla mano?" gli chiese quando vide la benda fradicia.

"Troppo lungo da raccontare."

Il piccolo appartamento di Kate era buio, zeppo di cose e caotico. Due delle finestre – dai vetri sudici – davano su un cavedio e la terza su un muro di mattoni con una scala antincendio. Vide valigie, zaini, colli e scatole dispersi in ogni angolo, e libri, quotidiani e riviste ammucchiati sui tavoli. C'erano un paio di crani umani provenienti dal Tibet, archi e frecce dei pigmei, urne funerarie del deserto di Atacama, scarabei pietrificati originari dell'Egitto e mille altri oggetti. Una lunga pelle di serpente si estendeva lungo tutta una parete. Era appartenuta al famoso pitone che in Malaysia si era ingoiato la macchina fotografica.

Fino a quel momento Alex non aveva mai visto la nonna nel suo ambiente naturale e dovette ammettere che, circondata dalle sue cose, risultava molto più interessante. Kate aveva sessantaquattro anni, era magra e muscolosa, energia allo stato puro e pelle indurita dalle intemperie; i suoi occhi azzurri, che di mondo ne avevano visto, erano penetranti come pugnali. I capelli grigi, che lei stessa si tagliava a sforbiciate senza guardarsi allo specchio, sparavano in tutte le direzioni come se non avessero mai visto un pettine. Era fiera dei suoi denti, grandi e forti, capaci di rompere noci e stappare bottiglie; era anche orgogliosa di non essersi mai rotta un osso, di non aver mai dovuto far ricorso a un medico e di essere sopravvissuta ad attacchi di malaria e persino a punture di scorpione. Beveva vodka liscia e fumava tabacco nero in una pipa da marinaio. D'inverno e d'estate indossava sempre gli stessi comodi pantaloni e un gilet con molte tasche in cui riponeva l'indispensabile per sopravvivere in caso di cataclisma. In alcune occasioni, quando era necessario vestirsi elegante, si toglieva il gilet e si metteva una collana di canini d'orso, regalo di un capo apache.

Lisa, la madre di Alex, era terrorizzata da Kate, mentre i bambini attendevano con ansia le sue visite. Quella nonna stravagante, protagonista di incredibili avventure, portava loro notizie da luoghi talmente esotici che si faticava a immaginarli. I tre nipoti facevano la collezione dei suoi reportage di viaggio che venivano pubblicati in diverse riviste e periodici, e delle cartoline e delle foto che spediva loro da ogni angolo del mondo. Anche se a volte si vergognavano a presentarla agli amici, in fondo erano orgogliosi che un membro della famiglia fosse quasi una celebrità.

Mezz'ora più tardi Alex, grazie al bagno, si era finalmente riscaldato e, avvolto in una vestaglia, con indosso calzettoni di lana, stava divorando polpettine con purè di patate, uno dei pochi piatti che mangiava volentieri, l'unico, peraltro, che Kate sapesse cucinare. "Sono gli avanzi di ieri" disse lei, ma Alex sapeva che le aveva preparate apposta per lui. Non volle raccontarle dell'avventura con Morgana, per non fare la figura dello stupido, ma dovette ammettere che gli avevano rubato tutto il bagaglio.

"Immagino che adesso mi dirai di imparare a non fidarmi di nessuno" borbottò il ragazzo arrossendo.

"Al contrario, stavo per dirti di imparare a fidarti di te. Come vedi, Alexander, nonostante tutto sei stato in grado di arrivare fino a casa mia senza problemi."

"Senza problemi? Sono quasi morto congelato strada facendo. Avrebbero scoperto il mio cadavere al disgelo in primavera" aggiunse.

"Un viaggio di oltre mille miglia comincia sempre con qualche intoppo. E il passaporto?" indagò Kate.

"Si è salvato perché l'avevo messo in tasca."

"Incollatelo con lo scotch al petto perché se lo perdi sei fritto."

"La cosa che mi dispiace di più è aver perso il flauto" commentò Alex.

"Mi toccherà darti il flauto di tuo nonno. Pensavo di conservarlo fino a quando non avessi rivelato un po' di talento, ma immagino che starà meglio nelle tue mani che non dimenticato da qualche parte" gli disse Kate.

Cercò sulle mensole che ricoprivano le pareti di casa sua dal pavimento al soffitto e gli consegnò un astuccio di cuoio nero tutto impolverato.

"Prendi, Alexander. Tuo nonno l'ha usato per quarant'anni. Abbine cura."

L'astuccio conteneva il flauto di Joseph Cold, il più celebre flautista del secolo, come avevano dichiarato i critici quando era morto. "Sarebbe stato meglio se l'avessero detto quando il povero Joseph era in vita" fu il commento di Kate quando lesse quel giudizio sulla stampa. Erano divorziati da trent'anni, ma nel suo testamento Joseph Cold aveva lasciato all'ex moglie metà dei suoi beni, compreso il suo flauto migliore che adesso il nipote teneva tra le mani. Alex aprì con soggezione l'astuccio di cuoio consunto e accarezzò lo strumento: era meraviglioso. Lo prese delicatamente e se lo portò alle labbra. Quando soffiò, le note fuoriuscirono con una tale sonorità che lui stesso ne rimase sorpreso. Era ben diverso dal flauto che Morgana gli aveva rubato.

Kate diede tempo al nipote di esaminare il regalo e di profondersi in ringraziamenti, come lei si aspettava, e poi gli allungò un libraccio ingiallito senza rilegatura e squinternato: Guida medica del viaggiatore audace. Il ragazzo lo aprì a caso e lesse i sintomi di una malattia mortale che si contrae mangiando il cervello degli antenati.

"Be', io non mangio organi" disse.

"Non si sa mai cosa c'è nelle polpettine" replicò la nonna.

Allarmato, Alex osservò con diffidenza i resti nel suo piatto. Con Kate era necessaria la massima prudenza. Era pericoloso avere un antenato come lei.

"Domani dovrai vaccinarti contro mezza dozzina di malattie tropicali. Fammi vedere questa mano. Non puoi viaggiare con un'infezione" gli ordinò Kate.

L'esaminò sbrigativamente, decise che suo figlio John aveva fatto un buon lavoro, vuotò mezza boccetta di disinfettante sulla ferita, non si poteva mai sapere, e gli annunciò che il giorno dopo lei stessa avrebbe tolto i punti. Era molto facile, disse, lo poteva fare chiunque. Alex rabbrividì. Sua nonna ci vedeva male e usava degli occhiali rigati che aveva comprato di seconda mano in un mercato in Guatemala. Mentre gli metteva una benda nuova, Kate gli spiegò che la rivista "International Geographic" aveva finanziato una spedizione nel cuore dell'Amazzonia, tra il Brasile e il Venezuela, per la caccia a un essere gigantesco, probabilmente umanoide, che era stato avvistato diverse volte. Erano state rinvenute impronte enormi. Quelli che l'avevano avvicinato dicevano che l'animale – o quell'essere umano primitivo – era più alto di un orso, aveva braccia molto lunghe ed era ricoperto di peli neri. Per la foresta amazzonica era l'equivalente dello yeti dell'Himalaya.

"Potrebbe essere una scimmia..." suggerì Alex.

"Non credi che in parecchi abbiano già fatto questa ipotesi?" lo interruppe la nonna.

"Ma non ci sono prove che esista davvero..." azzardò Alex.

"Non abbiamo un certificato di nascita della Bestia, Alexander. Ah, un particolare importante: dicono che sprigiona un odore così penetrante che vicino a lui gli animali e le persone svengono o rimangono paralizzati."

"Se la gente sviene, allora nessuno lo ha visto."

"Esatto, ma dalle orme si sa che cammina a due zampe. E non usa scarpe, se questa voleva essere la tua prossima domanda."

"No, Kate, la mia prossima domanda è se porta il cappello!" esplose il nipote.

"Non credo proprio."

"È pericoloso?"

"No, Alexander. È assolutamente amabile. Non ruba, non rapisce i bambini e non distrugge le proprietà private. Si limita a uccidere. Lo fa in modo pulito, senza far rumore, spezzando le ossa e squartando le vittime con autentica eleganza, da vero professionista" lo prese in giro la nonna.

"Quante persone ha ucciso?" indagò Alex sempre più inquieto.

"Non molte, se consideriamo la sovrappopolazione nel mondo."

"Quante, Kate!"

"Diversi cercatori d'oro, un paio di soldati, qualche commerciante... Insomma, non si conosce il numero esatto."

"Ha ucciso degli indios? Quanti?" chiese Alex.

"In realtà non si sa. Gli indios sanno contare solo fino a due. E inoltre per loro la morte è un evento relativo. Se ritengono che qualcuno abbia rubato loro l'anima, o abbia camminato sulle loro orme, o si sia impadronito dei loro sogni, ad esempio, be', tutto ciò è molto più grave che morire. Chi è morto può sempre continuare a essere vivo nello spirito."

"È complicato" disse Alex, che non credeva agli spiriti.

"Pensavi forse che la vita fosse semplice?"

Kate gli spiegò che la spedizione sarebbe stata capitanata da un famoso antropologo, il professor Ludovic Leblanc, che aveva trascorso alcuni anni a fare ricerche sulle orme del cosiddetto yeti, o abominevole uomo delle nevi, nella zona tra la Cina e il Tibet, peraltro senza trovarlo. Era stato anche a contatto con una certa tribù di indios dell'Amazzonia e sosteneva che fossero i più selvaggi del pianeta e che mangiassero i prigionieri. Questa informazione non era tranquillizzante, ammise Kate. Avrebbe fatto da guida un brasiliano di nome César Santos che aveva trascorso la vita in quella regione e aveva buoni rapporti con gli indios. L'uomo possedeva un aereo da turismo un po' sgangherato, ma ancora funzionante, grazie al quale si sarebbero potuti addentrare fino al territorio delle tribù indigene.

"A scuola abbiamo studiato l'Amazzonia durante una lezione di ecologia" commentò Alex, a cui iniziavano a chiudersi gli occhi.

"Con quella lezione ne hai a sufficienza, non hai bisogno di saperne di più" concluse Kate. E aggiunse: "Immagino che tu sia stanco. Puoi dormire sul divano. Domani mattina presto inizierai a lavorare per me".

"Cosa dovrò fare?"

"Quello che ti ordinerò. Per ora ti ordino di dormire."

"Buona notte, Kate..." mormorò Alex acciambellandosi sui cuscini del divano.

"Bah!" grugnì la nonna. Attese che si fosse addormentato e lo coprì con un paio di coperte.