5.
LO SCIAMANO

Il temporale cessò con la stessa rapidità con cui era scoppiato e la sera si fece largo luminosa. Alex e Nadia ritornarono all'albergo, dove i membri della spedizione erano riuniti intorno a César e alla dottoressa Torres, intenti a studiare una cartina e a discutere i preparativi del viaggio. Il professor Leblanc, che si era un po' ripreso dalla fatica, era con loro. Si era cosparso di insetticida dalla testa ai piedi e aveva assunto un indio di nome Karakawe per farsi sventagliare con una foglia di banano. Leblanc pretese che la spedizione si mettesse in marcia verso l'alto Orinoco il giorno successivo, perché lui non aveva tempo da perdere in quel villaggio insignificante. Aveva a disposizione solo tre settimane per catturare la strana creatura della foresta, disse.

"Nessuno ci è riuscito nel corso di vari anni, professore..." puntualizzò César.

"Sarà meglio che si faccia vedere presto, perché devo tenere una serie di conferenze in Europa" replicò.

"Spero che la Bestia comprenda le sue ragioni" disse la guida, ma il professore non mostrò di aver colto l'ironia.

Kate aveva raccontato a suo nipote che l'Amazzonia era un luogo pericoloso per gli antropologi, che solitamente perdevano il lume della ragione. Inventavano teorie contraddittorie e si facevano la guerra tra loro a colpi di pistola e coltellate; alcuni asservivano le tribù e finivano col credersi delle divinità. Uno di loro, impazzito, si dovette riportarlo al suo paese legato.

"Immagino che lei sia stato informato che anch'io faccio parte della spedizione, professor Leblanc" disse la dottoressa Torres, che l'antropologo guardava continuamente con la coda dell'occhio, affascinato dalla sua florida bellezza.

"Niente al mondo mi farebbe più piacere, signorina, ma..."

"Dottoressa Torres" lo interruppe lei.

"Lei può chiamarmi Ludovic" azzardò Leblanc con civetteria.

"Mi chiami dottoressa Torres" replicò seccamente lei.

"Non potrò portarla con me, egregia dottoressa. C'è posto solamente per noi che siamo stati ingaggiati dall''International Geographic'. Lo stanziamento è generoso, ma non illimitato" obiettò Leblanc.

"Allora non partirete nemmeno voi, professore. Faccio parte del Servizio sanitario nazionale. Sono qui per proteggere gli indigeni. Nessun forestiero può avere contatti con loro senza le misure preventive necessarie. Sono molto facilmente vittime delle malattie, soprattutto di quelle dei bianchi" disse la dottoressa.

"Un normale raffreddore è mortale per loro. Tre anni fa, quando un gruppo di giornalisti venne a girare un documentario, un'intera tribù morì per un'infezione alle vie respiratorie. Uno di loro aveva la tosse, fece dare un tiro dalla sua sigaretta a un indigeno e così contagiò tutta la tribù" aggiunse César.

In quel momento giunsero il capitano Ariosto, comandante della caserma, e Mauro Carías, il più ricco imprenditore della zona. Bisbigliando, Nadia spiegò ad Alex che Carías era molto potente e che faceva affari con i presidenti e i generali di diversi paesi sudamericani. Aggiunse che il cuore non ce l'aveva nel corpo, ma in una valigetta, e indicò la ventiquattrore di cuoio che teneva in mano. Dal canto suo il professor Leblanc era molto affascinato da Carías, perché la spedizione era stata organizzata grazie ai contatti internazionali di quell'uomo. Era stato lui a suscitare l'interesse della rivista "International Geographic" per la leggenda della Bestia.

"Quella strana creatura sta terrorizzando tutta quella brava gente dell'Alto Orinoco. Nessuno osa addentrarsi nel triangolo in cui si suppone che viva" disse Carías.

"Mi pare di capire che quella zona è inesplorata" disse Kate.

"Esattamente."

"Immagino che sia molto ricca di minerali e pietre preziose" aggiunse la giornalista.

"La ricchezza dell'Amazzonia consiste soprattutto nella terra e nel legname" rispose Carías.

"E nelle piante" intervenne la dottoressa Torres. "Non conosciamo nemmeno un decimo delle sostanze medicinali che ci sono qui. A mano a mano che spariscono gli sciamani e i guaritori indigeni perdiamo per sempre queste conoscenze."

"Immagino che la Bestia interferisca anche con i suoi affari da queste parti, signor Carías, proprio come le tribù" proseguì Kate, che quando era interessata a qualcosa non mollava la presa.

"La Bestia è un problema per tutti. Persino i soldati ne hanno paura" ammise Carías.

"Se la Bestia esiste, la troverò. Non è ancora nato l'uomo, e tanto meno l'animale, che possa farsi gioco di Ludovic Leblanc" replicò il professore, che era solito parlare di sé usando la terza persona.

"Conti sui miei soldati, professore. Diversamente da quanto afferma il mio buon amico Carías, sono uomini coraggiosi" assicurò il capitano Ariosto.

"Conti anche su tutti i miei mezzi, stimato professor Leblanc. Dispongo di lance a motore e di una buona stazione radio" si associò Carías.

"E conti su di me per i problemi sanitari o gli incidenti che si potrebbero verificare" aggiunse dolcemente la dottoressa Torres, come se si fosse dimenticata del rifiuto di Leblanc a farla partecipare alla spedizione.

"Come le dicevo, signorina..."

"Dottoressa" lo corresse lei di nuovo.

"Come le dicevo, il budget di questa spedizione è limitato, non possiamo portare dei turisti" disse Leblanc con enfasi.

"Non sono una turista. La spedizione non può proseguire senza un medico autorizzato e i vaccini necessari."

"La dottoressa ha ragione. Il capitano Ariosto le spiegherà la legge" intervenne César, che conosceva la dottoressa ed era evidentemente attratto da lei.

"Ehm, ehm, be'..., certamente..." farfugliò il militare guardando confuso Carías.

"Non ci saranno problemi nell'inserire Omayra. Sosterrò io le spese" sorrise l'imprenditore mettendo un braccio intorno alle spalle della giovane dottoressa.

"Grazie Mauro, ma non ce ne sarà bisogno. Le mie spese le sostiene il governo" disse lei scostandosi garbatamente.

"Bene. Allora non c'è più niente da discutere. Speriamo di trovare la Bestia, altrimenti questo viaggio sarà stato inutile" commentò Timothy Bruce, il fotografo.

"Abbia fiducia in me, giovanotto. Ho esperienza con questo tipo di animali e io stesso ho progettato delle trappole infallibili. Può vedere i modelli nel mio trattato sull'abominevole uomo dell'Himalaya" specificò il professore con una smorfia di soddisfazione, mentre faceva segno a Karakawe di sventagliare con maggior energia.

"E alla fine riuscì a catturarlo?" chiese Alex con simulata innocenza, visto che conosceva perfettamente la risposta.

"Non esiste, ragazzo. Quell'ipotetica creatura dell'Himalaya è un'invenzione. Magari lo è anche questa famosa Bestia."

"C'è gente che l'ha vista" argomentò Nadia.

"Senz'altro gente ignorante, bambina" stabilì il professore.

"Padre Valdomero non è un ignorante" precisò lei.

"E chi sarebbe?"

"Un missionario cattolico che venne rapito dai selvaggi e che da quel momento è impazzito" intervenne il capitano Ariosto. Parlava un inglese dal forte accento venezuelano e, siccome aveva sempre un sigaro tra i denti, non si capiva un granché delle sue parole.

"Non fu rapito e non è pazzo!" esclamò Nadia.

"Calmati, tesoro" sorrise Carías accarezzando i capelli di Nadia, che immediatamente si mise fuori della sua portata.

"Effettivamente padre Valdomero è un vero saggio. Parla diverse lingue indigene, conosce la flora e la fauna dell'Amazzonia meglio di chiunque altro; ricompone fratture alle ossa, estrae denti e in un paio d'occasioni ha operato di cataratta con un bisturi che lui stesso ha fabbricato" aggiunse César.

"Sì, ma non ha avuto successo nella lotta ai vizi a Santa María de la Lluvia o nell'evangelizzazione degli indios che, come vedete, vanno ancora in giro nudi" lo canzonò Carías.

"Non credo che gli indios abbiano bisogno di essere cristianizzati" ribatté César.

Spiegò che erano molto spirituali e che erano convinti che ogni cosa avesse un'anima; gli alberi, gli animali, i fiumi, le nuvole. Per loro spirito e materia non erano separati. Non comprendevano la semplicità della religione dei forestieri, dicevano che era la ripetizione di un'unica storia, mentre loro avevano molte storie di divinità, spiriti maligni, spiriti del Cielo e della Terra. Padre Valdomero aveva rinunciato a spiegare loro che Cristo era morto in croce per salvare l'umanità dal peccato, perché l'idea di un sacrificio simile lasciava gli indigeni sbalorditi. Non conoscevano il concetto di colpa. Come non capivano la necessità di indossare dei vestiti con quel clima o di accumulare dei beni se tanto, alla morte, non ci si poteva portare dietro niente all'altro mondo.

"È un peccato che siano condannati a estinguersi. Sono il sogno di qualsiasi antropologo, vero professor Leblanc?" precisò Carías in tono beffardo.

"Proprio così. Fortunatamente ho potuto scrivere di loro prima che il progresso li annoveri tra le sue vittime. Grazie a Ludovic Leblanc entreranno a far parte della storia" replicò il professore, perfettamente impermeabile al sarcasmo dell'interlocutore.

Quella sera mangiarono tapiro arrosto, fagioli e frittata di tapioca, ma Alex non volle assaggiare nulla nonostante avesse una fame da lupo.

Dopo cena, mentre la nonna beveva vodka e fumava la pipa in compagnia degli uomini, Alex andò all'imbarcadero con Nadia. La luna luccicava nel cielo come una lampada gialla. Il rumore della foresta faceva da musica di sottofondo: gridi di uccelli, urli di scimmie e gracidio di rospi e grilli. Migliaia di lucciole correvano veloci accanto ai ragazzi, sfiorando loro il viso. Nadia ne catturò una con la mano e se la mise nei ricci, dove continuò a brillare come un lumicino. La ragazzina era seduta sul molo con i piedi nell'acqua scura del fiume. Alex le chiese dei piranha, squali in miniatura che aveva visto essiccati nei negozi per turisti di Manaus: lunghi un palmo, erano dotati di mandibole impressionanti e di denti affilati come coltelli.

"I piranha sono utilissimi, puliscono l'acqua dai cadaveri e dai rifiuti. Mio padre dice che attaccano solo se sentono odore di sangue o se sono affamati" spiegò la ragazzina.

Gli raccontò di quella volta che aveva visto un caimano, gravemente ferito da un giaguaro, trascinarsi fino all'acqua; i piranha si erano infilati nella ferita e, nel giro di pochi minuti, lo avevano divorato dall'interno, lasciando intatta la pelle.

In quell'istante la ragazzina si mise all'erta e gli fece cenno con la mano di restare in silenzio. Borobá, la scimmietta, cominciò a saltare e a strillare agitatissima, ma Nadia riuscì subito a tranquillizzarla sussurrandole all'orecchio. Alex ebbe l'impressione che l'animale capisse perfettamente le parole della sua padroncina. Il ragazzo vedeva solo le ombre della vegetazione e lo specchio scuro dell'acqua, ma era evidente che qualche cosa aveva richiamato l'attenzione di Nadia, che si era alzata. Da lontano giungevano le note smorzate di una chitarra che qualcuno suonava al villaggio. Girandosi, Alex poteva intravedere le luci provenienti dalle case alle loro spalle. Ma lì erano soli.

Nadia lanciò un grido prolungato e acuto che al ragazzo sembrò identico a quello di una civetta e dopo un istante un grido simile riecheggiò dall'altra riva. Lei ripeté il richiamo due volte e in entrambe le occasioni ricevette la stessa risposta. Quindi prese Alex per un braccio e gli fece cenno di seguirla. Il ragazzo ricordava l'avvertimento di César di restare entro i confini del villaggio dopo il tramonto e gli tornarono in mente anche tutte le storie sui serpenti, le fiere, i banditi e gli ubriachi armati. Ed era meglio non pensare agli indios feroci descritti da Leblanc o alla Bestia... Ma non voleva certo passare per vigliacco agli occhi della ragazzina e la seguì senza parlare, impugnando il suo coltellino svizzero, già aperto.

Si lasciarono alle spalle le ultime casupole del villaggio e proseguirono con estrema attenzione, alla sola luce della luna. La foresta si rivelò meno fitta di quanto Alex avesse creduto; la vegetazione, folta sulle rive del fiume, andava via via diradandosi e i ragazzi potevano avanzare senza eccessive difficoltà. Non avevano fatto molta strada quando il richiamo della civetta si fece sentire di nuovo. Erano in una radura da cui potevano vedere la luna brillare alta nel cielo. Nadia si fermò e rimase in attesa, immobile; persino Borobá era quieta, quasi sapesse cosa stavano aspettando. D'un tratto Alex sobbalzò, colto di sorpresa: a neanche tre metri di distanza, dalla notte era uscita una figura che si era materializzata, improvvisa e discreta, come un fantasma. Il ragazzo, pronto a difendersi, agitò il coltellino, ma l'atteggiamento sereno di Nadia trattenne il suo gesto nell'aria.

"Aía" salutò la ragazzina a bassa voce.

"Aía, aía..." rispose una voce che ad Alex non parve umana, simile piuttosto a un soffio di vento.

La figura si fece più vicina e si fermò a un passo da Nadia. Gli occhi di Alex si erano ormai abituati alla penombra e alla luce della luna misero a fuoco un uomo incredibilmente vecchio. Nonostante il portamento eretto e l'agilità dei movimenti, l'uomo pareva avere vissuto secoli. Era basso di statura; secondo Alex era più piccolo di sua sorella Nicole, che aveva solo nove anni. Indossava un corto grembiule di fibra vegetale e una dozzina di collane di conchiglie, semi e denti di cinghiale che gli coprivano il petto. La sua pelle, rugosa come quella di un elefante millenario, cadeva in pieghe grinzose sul corpo magro. Aveva con sé una piccola lancia, un bastone al quale erano appesi numerosi sacchetti di pelle e un cilindro di quarzo che tintinnava come un sonaglio per neonati. Nadia si portò la mano ai capelli, liberò la lucciola e la offrì al vecchio che l'accettò e la mise tra le sue collane. Lei si inginocchiò in segno di rispetto e indicò ad Alex di fare altrettanto. Quindi anche l'indio si chinò di modo che si trovarono tutti e tre alla stessa altezza.

Borobá fece un salto, si arrampicò sulle spalle del vecchio e cominciò a tirargli le orecchie; la padroncina la allontanò con una manata e il vecchio scoppiò a ridere. Ad Alex sembrò che non avesse nemmeno un dente, ma vista la poca luce non poteva esserne certo. L'indio e Nadia si immersero in una lunga conversazione fatta di gesti e suoni in una lingua dalle parole dolci come la brezza, l'acqua e il canto degli uccelli. Visto che lo indicavano, immaginò che stessero parlando di lui. A un certo punto l'uomo si alzò e agitò molto irritato la sua corta lancia, ma una lunga spiegazione della ragazzina lo tranquillizzò. Infine, il vecchio si tolse dal collo un amuleto, un frammento di osso intagliato, se lo portò alle labbra e ci soffiò dentro. Il suono era lo stesso canto di civetta udito prima. Alex lo riconobbe perché nel Nord della California, vicino a casa sua, lo aveva sentito spesso. Lo strano vecchio appese l'amuleto al collo di Nadia, le appoggiò le mani sulle spalle in segno di commiato e subito sparì, con la stessa discrezione con cui era arrivato. Il ragazzo avrebbe potuto giurare di non averlo visto allontanarsi. Era semplicemente svanito.

"Era Walimai" gli sussurrò Nadia in un orecchio.

"Walimai?" chiese Alex, colpito dallo strano incontro.

"Sssh! Non lo dire ad alta voce! Non bisogna mai pronunciare il nome vero di un indio in sua presenza, è tabù. Nemmeno i morti devono essere chiamati per nome, è un tabù ancora più severo, un'offesa terribile" spiegò Nadia.

"Ma chi è?"

"È uno sciamano, uno stregone molto potente. Si esprime attraverso suoni e visioni. Può visitare il mondo degli spiriti quando vuole. È l'unico a conoscere la strada per El Dorado."

"El Dorado? La città d'oro inventata dai conquistadores? Ma è una leggenda senza fondamento!" protestò Alex.

"Walimai ci è stato molte volte, con sua moglie. Si sposta sempre con lei" ribatté la ragazzina.

"Io non l'ho vista" ammise Alex.

"Si tratta di uno spirito. Non tutti possono vederla."

"Perché, tu l'hai vista?"

"Sì. È giovane e bellissima."

"Cosa ti ha detto lo stregone? Di che cosa avete parlato?" chiese Alex.

"Mi ha regalato un talismano. Con questo sarò sempre al sicuro. Nessuno, né persone, né animali, né fantasmi potranno mai farmi del male. Serve anche per chiamarlo; basta soffiarci dentro e lui arriverà. Fino a ora non potevo chiamarlo, dovevo aspettare che fosse lui a venire. Walimai dice che ne avrò bisogno per via del grande pericolo rappresentato dal Rahakanariwa, il terribile spirito dell'uccello cannibale, che se ne va in giro libero. Quando fa la sua comparsa, arrivano anche morte e distruzione, ma io sarò protetta dal talismano."

"Sei davvero strana..." sospirò Alex, che non credeva nemmeno alla metà di quanto aveva ascoltato.

"Walimai dice che gli stranieri non devono andare in cerca della Bestia. Dice che qualcuno morirà. Io e te invece dobbiamo andare perché siamo stati chiamati e abbiamo l'anima bianca."

"Chi ci ha chiamato?"

"Non lo so, ma se lo dice Walimai, è vero."

"Ma davvero credi a queste cose, Nadia? Credi agli stregoni, agli uccelli cannibali, all'El Dorado, alle mogli invisibili, alla Bestia?"

Senza dare risposta, Nadia si girò e si incamminò verso il villaggio e Alex la seguì da vicino per non perdersi.