6.
IL PIANO

Quella notte il sonno di Alexander fu agitato. Si sentiva in balìa delle intemperie, come se le sottili pareti che lo separavano dalla foresta si fossero dissolte e lui si trovasse esposto a tutti i pericoli di quel mondo sconosciuto. L'albergo, costruito con tavolati appoggiati sui pali, aveva il tetto di zinco, finestre prive di vetri e a malapena proteggeva dalla pioggia. Il rumore di rospi e altri animali, proveniente dall'esterno, si aggiungeva al russare dei suoi compagni di stanza. La sua amaca si ribaltò un paio di volte, facendolo cadere a terra bocconi. Solo allora si ricordò come andava usata e si mise in diagonale per mantenere l'equilibrio. Non faceva caldo, ma Alex sudava. Rimase sveglio, al buio, per un bel po', protetto dalla zanzariera imbevuta di insetticida, pensando alla Bestia, alle tarantole, agli scorpioni, ai serpenti e agli altri pericoli che si annidavano nell'oscurità. Ripensò alla scena bizzarra a cui aveva assistito tra l'indio e Nadia. Lo sciamano aveva profetizzato che vari membri della spedizione sarebbero morti.

Ad Alex sembrava incredibile che in pochi giorni la sua vita fosse cambiata in maniera così radicale; come gli aveva preannunciato la nonna, improvvisamente si trovava in un posto fantastico nel quale gli spiriti andavano a zonzo tra le persone in carne e ossa. La realtà si era deformata e lui non sapeva che cosa pensare. Sentì una profonda nostalgia della sua casa, della sua famiglia e anche di Poncho. Era molto solo e lontano dal suo mondo. Se almeno avesse potuto avere notizie di sua madre! Ma telefonare da quel villaggio a un ospedale del Texas era come provare a mettersi in contatto con Marte. Kate non era di grande compagnia o conforto. Come nonna lasciava molto a desiderare, non si prendeva nemmeno la briga di rispondere alle domande del nipote, sostenendo che si apprendono solo le cose verificabili di persona. Affermava che l'esperienza è ciò che si acquisisce soltanto dopo averne sentita la necessità.

Si stava rigirando insonne nell'amaca, quando gli sembrò di sentire un brusio di voci. Non poteva che essere il rumore della foresta, ma decise di controllare. A piedi nudi e in mutande, si avvicinò con cautela all'amaca dove Nadia dormiva vicino a suo padre, sul lato opposto della stanza comune. Le chiuse la bocca con una mano e la chiamò bisbigliandole all'orecchio, stando attento a non svegliare gli altri. La ragazzina spalancò gli occhi, spaventata, ma quando lo riconobbe si calmò e scese dall'amaca con l'agilità di un gatto, dopo aver rivolto a Borobá un gesto di ammonimento, perché restasse quieta. La scimmietta ubbidì all'istante, acciambellandosi sull'amaca; Alex fece il confronto con Poncho, al quale non era mai riuscito a far capire nemmeno gli ordini più semplici. Uscirono con cautela e passando lungo la parete dell'albergo raggiunsero la terrazza da cui Alex aveva sentito giungere le voci. Si nascosero nell'angolo della porta, schiacciati contro il muro, e scorsero il capitano Ariosto e Mauro Carías, seduti a un tavolino, intenti a fumare, bere e chiacchierare a voce bassa. I loro volti erano perfettamente visibili alla luce delle sigarette e di uno zampirone acceso sul tavolo. Alex si congratulò con se stesso per aver chiamato Nadia, visto che i due uomini parlavano in spagnolo.

"Sai cosa devi fare, Ariosto" disse Carías.

"Non sarà facile."

"Se lo fosse, non avrei bisogno di te e non dovrei neppure pagarti, mio caro" puntualizzò Carías.

"Non mi piacciono i fotografi, rischiamo di cacciarci in un pasticcio. E poi, per quanto riguarda la giornalista, lasciami dire che quella vecchietta mi sembra molto furba" aggiunse il capitano.

"L'antropologo, la giornalista e i fotografi sono indispensabili per il nostro piano. Se ne andranno da qui raccontando esattamente la storia che ci fa comodo e noi saremo liberi da qualsiasi sospetto. Così eviteremo che il parlamento invii una commissione per indagare sui fatti, come è già successo. Questa volta ci sarà la testimonianza di un gruppo dell''International Geographic'" replicò Carías.

"Non capisco perché il governo protegga questa manciata di selvaggi. Occupano migliaia di chilometri quadrati che dovrebbero essere suddivisi tra i coloni. Allora sì che arriverebbe il progresso in questo inferno" commentò il capitano.

"Ogni cosa a suo tempo, Ariosto. In quel territorio ci sono smeraldi e diamanti. Prima che i coloni vadano lì a tagliare alberi e allevare vacche, io e te saremo già ricchi. Non voglio avventurieri da queste parti, per adesso."

"E allora non ci saranno. L'esercito è qui per questo, caro amico Carías, per far rispettare la legge. Non dobbiamo forse proteggere gli indios?" disse il capitano Ariosto e i due scoppiarono a ridere.

"Ho programmato tutto, una persona di mia fiducia farà parte della spedizione."

"Chi?"

"Per il momento preferisco non rivelare il suo nome. La Bestia è il pretesto affinché quel cretino di Leblanc e la giornalista vadano dove noi vogliamo e ci facciano da copertura. Entreranno in contatto con gli indios, è inevitabile. Non possono spingersi nel triangolo dell'Alto Orinoco a cercare la Bestia senza incappare negli indios" rilevò l'imprenditore.

"Il tuo piano mi sembra piuttosto complicato. Dispongo di persone molto discrete, potremmo portare a termine il lavoretto senza che nessuno se ne accorga" assicurò il capitano Ariosto, avvicinando il bicchiere alla bocca.

"Ma no, accidenti! Ti ho già detto che dobbiamo avere pazienza!" esclamò Carías.

"Rispiegami il piano" chiese allora il capitano Ariosto.

"Non ti preoccupare, al piano ci penso io. In meno di tre mesi avremo sgomberato la zona."

In quel preciso momento Alex sentì qualcosa su un piede e soffocò un grido: un serpente gli stava strisciando sulla pelle nuda. Nadia gli fece cenno di stare zitto e di non muoversi. Carías e Ariosto scattarono in piedi, allarmati, e misero mano alle pistole. Il capitano accese la sua torcia elettrica e perlustrò i dintorni, indirizzando il fascio di luce pochi centimetri oltre il nascondiglio dei ragazzi. Alex era talmente terrorizzato che avrebbe preferito affrontare le pistole ma potersi scrollare di dosso il serpente che adesso gli si era arrotolato intorno alla caviglia; la mano di Nadia però lo tratteneva per un braccio e il ragazzo capì che non poteva rischiare anche la vita di lei.

"Chi va là?" chiese il capitano, senza alzare la voce per non svegliare quelli che dormivano nell'albergo.

Silenzio.

"Andiamocene, Ariosto" ordinò Carías.

Il militare ispezionò ancora una volta con la torcia lì intorno, e poi i due uomini si diressero verso la scala che dava sulla strada, le armi sempre in pugno. Passò qualche minuto prima che i ragazzi fossero certi di potersi muovere senza farsi notare. Il serpente avvolgeva ormai il polpaccio di Alex, la testa era all'altezza del ginocchio e il sudore correva a fiotti sul corpo del ragazzo. Nadia si levò la maglietta, l'avvolse intorno alla mano destra e con molta cautela afferrò il serpente vicino alla testa. All'improvviso Alex sentì che il rettile stringeva di più, agitando la coda furiosamente, ma la presa della ragazzina era molto ferma, tanto che riuscì a staccarlo poco alla volta dalla gamba dell'amico e infine a tenerlo penzoloni in mano. Fece roteare il braccio preparandosi al lancio e scagliò il serpente oltre la ringhiera della terrazza, nell'oscurità. Subito dopo, con la massima tranquillità, si rimise la maglietta.

"Era velenoso?" chiese impaurito il ragazzo, non appena ritrovò la voce.

"Sì, credo che fosse un surucucú, ma non era molto grosso. Aveva la bocca piccola e non era in grado di aprire più di tanto le mandibole. Al massimo, avrebbe potuto morderti un dito ma non la gamba" spiegò Nadia. Poi gli tradusse la conversazione tra Carías e Ariosto.

"Che piano avranno quei criminali? Cosa possiamo fare?" chiese Nadia.

"Non lo so. L'unica cosa che mi viene in mente è di dirlo subito alla nonna, ma non so se mi crederà; dice che sono paranoico e che vedo nemici da tutte le parti..." rispose il ragazzo.

"Per il momento possiamo solo aspettare e stare all'erta, Alex" suggerì lei.

I ragazzi tornarono alle amache. Alex, stanco morto, si addormentò di botto e si svegliò all'alba per gli urli assordanti delle scimmie. Aveva una tale fame che avrebbe mangiato persino le crêpe di suo padre, ma non c'era nulla da mettere sotto i denti e dovette aspettare un paio d'ore finché tutti furono pronti per la prima colazione. Gli offrirono caffè nero, birra tiepida e gli avanzi del tapiro della sera prima. Rifiutò tutto, schifato. Non aveva mai visto un tapiro, ma se lo immaginava come una specie di topone; qualche giorno dopo sarebbe invece rimasto sorpreso nel constatare che in genere i tapiri pesano più di cento chili, sono simili ai maiali e che la loro carne è molto gustosa. Addentò una banana, ma era amara e gli lasciò un cattivo sapore in bocca. Solo dopo venne a sapere che le banane di quel tipo dovevano essere cotte. Nadia, che era uscita presto per andare a fare il bagno nel fiume con le altre ragazzine, tornò con un fiore nuovo a un orecchio, la piuma verde del giorno prima nell'altro, Borobá abbarbicata al collo e mezzo ananas in mano. Alex aveva letto che nei paesi tropicali gli unici frutti sicuri sono quelli che uno si pela da sé, ma pensò che rischiare di contrarre il tifo era meglio che morire di fame. Riconoscente, accettò l'ananas che la ragazzina gli offriva e lo divorò.

César Santos, la guida, arrivò qualche istante dopo, lavato di fresco come la figlia, per invitare i membri della spedizione, accaldati e sudaticci, a fare un tuffo nel fiume. Tutti lo seguirono, tranne il professor Leblanc, che ordinò a Karakawe di andargli a prendere dei secchi d'acqua con cui lavarsi sulla terrazza: l'idea di nuotare in compagnia di una manta, infatti, non lo attirava minimamente. Alcune misuravano quanto un grande tappeto e le loro potenti code non solo erano affilate come seghe, ma sprigionavano anche del veleno. Alex pensò che dopo l'esperienza della notte prima con il serpente non si sarebbe certo tirato indietro di fronte all'eventualità di imbattersi in un pesce, per quanto cattiva fosse la sua fama. Senza esitare si tuffò di testa.

"Se una manta ti attacca, vuol dire che questo fiume non è per te" fu l'unico commento della nonna, che si allontanò con le altre donne per fare il bagno da un'altra parte.

"Le mante sono timide e vivono sul fondo del fiume. In genere scappano quando percepiscono del movimento in acqua, ma è comunque meglio camminare trascinando i piedi per non calpestarle" gli spiegò César.

Il bagno fu una vera delizia e il ragazzo ne uscì fresco e pulito.