11.
IL VILLAGGIO INVISIBILE
Mokarita, il capo dalle piume gialle, concesse un momento di riposo prima di intraprendere l'ascensione alla montagna. Il suo volto sembrava scolpito nel legno, la pelle rugosa come la corteccia di un albero e un'espressione serena e benevola.
"Non ce la farò mai a salire" disse Nadia quando vide la roccia nera, liscia e bagnata.
Per la prima volta Alex la vedeva in difficoltà davanti a un ostacolo e capì l'amica perché anche lui aveva paura, nonostante per anni avesse scalato montagne con suo padre. John Cold era uno degli alpinisti più esperti e coraggiosi di tutti gli Stati Uniti, aveva fatto parte di spedizioni famose in luoghi inaccessibili e un paio di volte era stato anche chiamato per portare in salvo persone in pericolo sulle cime più alte dell'Austria e del Cile. Il ragazzo sapeva di non possedere né l'abilità né il coraggio del padre, per non parlare dell'esperienza e, per di più, non aveva mai visto una parete così ripida come quella che aveva di fronte. Scalare il costone della cascata senza corde o senza aiuto era praticamente impossibile.
Nadia si avvicinò a Mokarita e cercò di spiegargli a gesti e con le parole che avevano in comune che lei non era in grado di salire. Il capo si arrabbiò moltissimo, si mise a gridare e brandì le armi agitandosi concitato. Gli altri lo imitarono, circondando Nadia minacciosamente. Alex si pose al fianco dell'amica e cercò di calmare i guerrieri a gesti, ma l'unico risultato fu che Tahama prese Nadia per i capelli e cominciò a strattonarla, trascinandola verso la cascata, mentre Borobá tirava schiaffi e strillava. In un attimo di ispirazione, o di disperazione, il ragazzo staccò il flauto dalla cintura e cominciò a suonare. Gli indios si bloccarono all'istante, come ipnotizzati; Tahama lasciò andare Nadia e tutti si misero intorno ad Alex.
Una volta placati gli animi, Alex convinse Nadia che con una corda sarebbe riuscito ad aiutarla a salire. Le ripeté le parole che il padre gli aveva detto mille volte: "Prima di vincere una montagna, bisogna imparare a trarre vantaggio dalla paura".
"L'altezza mi terrorizza, Giaguaro, soffro di vertigini. Ogni volta che salgo sull'aereo di mio padre sto male..." gemette Nadia.
"Mio papà sostiene che la paura fa bene, è il sistema di allarme del corpo, ci avvisa del pericolo; ma a volte il pericolo è inevitabile e di conseguenza occorre dominare la paura."
"Non ce la faccio!"
"Nadia, ascoltami" disse Alex afferrandola per le braccia e costringendola a guardarlo negli occhi. "Fai un bel respiro e calmati. Ti insegnerò a usare la paura. Fidati di te e di me. Ti aiuterò a salire, lo faremo insieme, parola d'onore."
Per tutta risposta, Nadia scoppiò in singhiozzi, con la testa sulla spalla di Alex che non sapeva bene cosa fare, non si era mai trovato così vicino a una ragazza. Nelle sue fantasie, aveva abbracciato mille volte Cecilia Burns, l'amore della sua vita, ma di fatto sarebbe scappato a gambe levate se lei lo avesse toccato. Ma ora Cecilia Burns era lontanissima, quasi non esisteva: Alex non ne ricordava nemmeno il volto. Le sue braccia cinsero Nadia con gesto automatico. Il cuore gli batteva come una mandria di bufali in fuga, ma riuscì a recuperare sufficiente lucidità per rendersi conto di quanto fosse assurdo ciò che stava succedendo. Era nel mezzo della foresta, circondato da strani guerrieri pitturati, con una ragazzina terrorizzata tra le braccia e a che cosa pensava? All'amore! Riprese il controllo della situazione e allontanò Nadia da sé per affrontarla con determinazione.
"Smetti di piangere e di' a questi signori che abbiamo bisogno di una corda" le ordinò, indicando gli indios. "E ricordati che sei protetta dal talismano."
"Walimai mi ha detto che mi avrebbe protetto dagli uomini, dagli animali e dai fantasmi, non ha parlato del pericolo di cadere e di rompermi l'osso del collo" spiegò Nadia.
"Come dice mia nonna, di qualcosa bisogna pur morire" la consolò l'amico, cercando di sorridere. Poi aggiunse: "Non mi avevi detto tu che bisogna guardare le cose con il cuore? È un'ottima occasione per provarci".
Nadia si arrangiò per spiegare agli indios cosa voleva Alex. Quando alla fine capirono, molti di loro si misero al lavoro e poco dopo tornarono con una corda fatta di liane intrecciate. Quando videro Alex legare un'estremità della corda alla cintura della ragazzina e arrotolare l'altro capo intorno al proprio petto diedero segni di grande curiosità. Non capivano perché gli stranieri si comportassero in modo così assurdo: se uno dei due scivolava, si trascinava dietro anche l'altro.
Il gruppo si avvicinò alla cascata che precipitava in caduta libera da un'altezza di oltre cinquanta metri ed esplodeva sul fondo in un'impressionante nuvola d'acqua, coronata da un magnifico arcobaleno. Centinaia di uccelli neri sfrecciavano in tutte le direzioni intorno alla cascata. Gli indios salutarono il fiume che scendeva dal cielo esibendo le armi e gridando: ormai erano vicinissimi al loro villaggio. La salita verso le Terre Alte li faceva sentire al riparo da qualsiasi pericolo. Tre di loro si allontanarono nel folto degli alberi e dopo poco tornarono con alcune palle che i ragazzi scoprirono essere formate da una resina bianca, densa e molto appiccicosa. Imitando gli altri, Alex e Nadia si strofinarono le palme delle mani e le piante dei piedi con quella pasta. Camminando, la terra si attaccava alla resina, formando una suola irregolare. I primi movimenti furono difficili, ma appena si trovarono sotto la pioggerellina della cascata ne compresero l'utilità: era come aver indosso stivali e guanti di gomma adesiva.
Costeggiarono la laguna e in breve raggiunsero, già bagnati fradici, la cascata, una spessa tenda d'acqua, distante vari metri dalla montagna. Il fragore dell'acqua era così forte che non era possibile parlare e nemmeno comunicare a gesti: infatti la visibilità era pressoché nulla e il vapore acqueo trasformava l'aria in una spuma bianca. Avevano la sensazione di procedere a tentoni nel bel mezzo di una nube. Per ordine di Nadia, Borobá si era incollata al corpo di Alex come un grosso cerotto peloso e caldo, e dietro di loro procedeva lei, ma solo perché era legata alla corda, altrimenti sarebbe tornata indietro. I guerrieri conoscevano bene il terreno e procedevano con lentezza e precisione, calcolando ogni singolo passo. I ragazzi cercarono di rimanere vicino agli indios perché bastava separarsi di qualche passo per perderli di vista definitivamente. Alex immaginò che il nome della tribù – Popolo della Nebbia – derivasse dalla densa bruma prodotta dal frangersi dell'acqua.
I forestieri erano sempre stati sconfitti da questa e dalle altre cascate dell'Alto Orinoco, che gli indios avevano invece trasformato in loro preziose alleate. Sapevano esattamente dove mettere i piedi, avvalendosi di punti d'appoggio naturali o intagliati da loro nel corso di centinaia di anni. Quelle fessure nella montagna formavano una scala nella parte interna della cascata che saliva fino in cima. Se non se ne conosceva l'esistenza o la posizione esatta, era impossibile inerpicarsi su quelle pareti lisce, bagnate e scivolose, con il rumore assordante della cascata alle spalle. Un passo falso e la caduta significava morte sicura nel fragore della schiuma.
Prima di rimanere isolati dal rumore, Alex era riuscito a suggerire a Nadia di non guardare mai verso il basso, di concentrarsi nell'imitazione dei suoi movimenti, di aggrapparsi dove si aggrappava lui, che a sua volta osservava Tahama, davanti a sé. Le spiegò anche che la prima parte sarebbe stata la più difficile a causa della nebbia provocata dallo schianto dell'acqua al suolo, ma che a mano a mano che fossero saliti, il terreno sarebbe stato meno scivoloso e la visibilità sicuramente migliore. Ma Nadia non era affatto rincuorata: il suo problema non era la visibilità, ma le vertigini. Cercò di ignorare l'altezza e il fragore assordante della cascata, concentrandosi sul fatto che la resina sulle mani e sotto i piedi aiutava a restare aderenti alla roccia bagnata. La corda che la univa ad Alex le dava un po' di sicurezza, anche se era facile immaginare che un passo falso di uno dei due li avrebbe trascinati nel vuoto. Si sforzò di seguire le istruzioni di Alex: concentrava tutta l'attenzione sul movimento successivo, sul posto preciso in cui doveva mettere il piede o la mano, uno per volta, senza fretta e senza perdere il ritmo. Appena si sentiva in equilibrio, si muoveva con cautela cercando una fenditura o una sporgenza poco più in alto, tastando con un piede per trovare l'appoggio successivo e potersi quindi spostare con tutto il corpo qualche centimetro più su. Le fenditure nella montagna erano abbastanza profonde per offrire un punto stabile, il pericolo maggiore era allontanarsi con il corpo, doveva muoversi incollata alla roccia. Il pensiero di Borobá le attraversò all'improvviso la mente: se lei stessa era così terrorizzata, chissà come stava l'infelice scimmietta aggrappata ad Alex.
Via via che salivano la visibilità migliorava, ma la distanza tra la cascata e la parete diminuiva. I ragazzi sentivano l'acqua sempre più vicina alla schiena. Proprio quando iniziavano a chiedersi come avrebbero potuto proseguire la salita nella parte superiore della cascata, i tagli nella roccia piegarono verso destra. Il ragazzo tastò con le dita e trovò una superficie piana; poi si sentì prendere per il polso e sollevare. Si diede una spinta con tutte le forze e atterrò in una rientranza della montagna, dove i guerrieri li stavano aspettando. Tirando la corda sollevò Nadia, che cadde bocconi sopra di lui, intontita per lo sforzo e la paura. La povera Borobá non si muoveva, attaccata come un'ostrica alla spalla di Alex, paralizzata dal terrore. Davanti all'ingresso della grotta cadeva una spessa cortina d'acqua, attraversata dagli uccelli neri pronti a difendere i loro nidi dagli invasori. Alex era ammirato dall'incredibile coraggio dei primi indios che, forse già nella preistoria, si erano avventurati oltre la cascata, avevano trovato alcune fenditure e ne avevano incise di nuove, avevano scoperto la grotta e avevano aperto la pista per i loro discendenti.
La grotta, lunga e stretta, non consentiva di stare in piedi, si doveva procedere a quattro zampe o strisciare. La luce del sole filtrava, bianca e lattiginosa, attraverso la cascata, ma riusciva a stento a illuminare l'apertura e all'interno era completamente buio. Alex, che teneva Nadia e Borobá stretto contro di sé, vide che Tahama si avvicinava a lui gesticolando e indicando la cascata. Non riusciva a sentirlo, ma capì che qualcuno era scivolato o era rimasto indietro. Tahama gli indicava la corda e alla fine il ragazzo capì che voleva usarla per scendere alla ricerca del compagno mancante. L'indio era più pesante di lui e, per quanto agile, non aveva esperienza di salvataggi in alta montagna. Nemmeno lui era un esperto, ma almeno aveva accompagnato suo padre un paio di volte in missioni rischiose, sapeva usare la corda e aveva letto molto sull'argomento. Scalare era la sua passione, paragonabile solo all'amore per il flauto. Fece capire a gesti che sarebbe andato lui, fin dove arrivavano le liane. Liberò Nadia e chiese a Tahama e agli altri di cominciare a calarlo.
La discesa, sospeso a una fragile corda sopra un abisso, con un mare d'acqua rombante intorno, gli sembrò più difficile della salita. Non vedeva quasi nulla e non sapeva nemmeno chi fosse scivolato né dove ritrovarlo. Il tentativo era pericolosissimo e praticamente inutile, visto che, se qualcuno aveva fatto un passo falso nel salire, probabilmente si era già sfracellato a terra. Cosa avrebbe fatto suo padre in questo caso? John Cold avrebbe innanzitutto pensato alla vittima, poi a se stesso. John Cold non si sarebbe dato per vinto senza aver tentato ogni possibilità. Mentre lo calavano, cercò di vedere oltre il proprio naso, ma non riusciva quasi a tenere gli occhi aperti e sentiva i polmoni riempirglisi d'acqua. Oscillava nel vuoto, pregando che la corda di liane tenesse.
All'improvviso, con un piede toccò qualcosa di morbido e subito dopo riconobbe con le dita la sagoma di un uomo, apparentemente appeso al nulla. Con un brivido di angoscia capì che era Mokarita, il capo: la corona di piume gialle era ancora salda sulla testa, nonostante il povero vecchio fosse agganciato come un vitello a un'enorme radice che sporgeva dalla montagna e che aveva miracolosamente fermato la sua caduta. Alex non aveva un sostegno e temeva che, se si fosse appoggiato alla radice, questa si sarebbe staccata, facendo precipitare Mokarita nell'abisso. Pensò che aveva a disposizione un unico tentativo per afferrarlo e che doveva andare a colpo sicuro, altrimenti l'uomo, inzuppato com'era, gli sarebbe scivolato via dalle mani come un pesce.
Alexander si diede una spinta, dondolandosi quasi alla cieca, e poi si attorcigliò con gambe e braccia intorno all'uomo esausto. Nella grotta, i guerrieri sentirono lo strappo della corda e l'aumento di peso e cominciarono a tirare con estrema cautela, lentamente, per evitare che lo sfregamento rompesse le liane e che l'oscillazione gettasse Alex e Mokarita contro le rocce. Alex non avrebbe saputo dire quanto era durata l'operazione, forse pochi minuti, ma certo gli erano sembrate ore. Alla fine, si sentì afferrare da diverse mani che lo tiravano nella grotta. Gli indios dovettero usare la forza per fargli lasciare Mokarita: lo teneva avvinghiato con la stessa determinazione di un piranha.
Il capo si sistemò le piume e abbozzò un timido sorriso. Gli usciva un filo di sangue dal naso e dalla bocca, ma per il resto stava bene. Gli indios erano rimasti davvero molto impressionati dal salvataggio e facevano girare la corda per osservarla con ammirazione, ma a nessuno venne in mente di attribuire il recupero del capo al giovane straniero, anzi, si congratulavano con Tahama per la brillante idea. Sfinito e dolorante, Alex sentì la mancanza di un segno di riconoscenza e con rammarico notò che persino Nadia lo ignorava. Accoccolata in un angolo con Borobá, non si era nemmeno resa conto dell'impresa dell'amico, poiché cercava ancora di riprendersi dalla salita.
Il resto del viaggio fu più semplice, perché il tunnel si apriva a una certa distanza dall'acqua, in un punto che presentava meno rischi a salire. Servendosi della corda, gli indios tirarono su Mokarita, a cui venivano meno le gambe, e Nadia, a cui veniva meno la forza d'animo, e alla fine tutti si ritrovarono in cima.
"Non ti avevo detto che il talismano serviva anche nei casi di pericolo per l'altezza?" scherzò Alex.
"Vero!" ammise Nadia con convinzione.
Davanti a loro comparve l'Occhio del Mondo, come il Popolo della Nebbia chiamava il suo paese. Era un paradiso di montagne e cascate stupende, una foresta sterminata popolata dai più svariati animali, con un clima gradevole, senza le nuvole di zanzare che infestavano le Terre Basse. In lontananza, strane costruzioni si stagliavano nel cielo, come altissimi cilindri di granito nero e terra rossa. Accasciato al suolo e impossibilitato a muoversi, Mokarita li indicò loro con rispetto: "Sono i tepui, le dimore degli dèi" disse con un filo di voce. Alex li aveva già riconosciuti: erano identici alle magnifiche torri che aveva visto quando si trovava di fronte al giaguaro nero, nell'accampamento di Carías.
"Sono le montagne più antiche e misteriose della Terra" disse.
"Come fai a saperlo? Le avevi già viste?" chiese Nadia.
"Sì, in un sogno" rispose Alex.
Il capo non dava mostra di provare dolore, come si addiceva a un guerriero del suo rango, ma gli erano rimaste pochissime forze, a tratti chiudeva gli occhi e sembrava svenuto. Alex non sapeva se avesse delle ossa rotte o lesioni interne, ma era chiaro che non sarebbe stato in grado di alzarsi. Servendosi di Nadia come interprete, Alex diede istruzioni agli indios per improvvisare una barella con due lunghi pali, alcune liane di traverso e un pezzo di corteccia appoggiato sopra. I guerrieri, frastornati dalla debolezza dell'anziano che era stato a capo della tribù per alcuni decenni, seguirono le indicazioni di Alex senza discutere. Due di loro presero gli estremi della lettiga e, sotto la guida di Tahama, camminarono per un po' lungo la riva del fiume, finché Mokarita fece segno di fermarsi per riposare.
L'ascensione della parete dietro la cascata era durata diverse ore ed erano tutti sfiniti e affamati. Tahama e altri due guerrieri si addentrarono nella fitta vegetazione e tornarono di lì a poco con alcuni uccelli, un armadillo e una scimmia, che avevano cacciato con le loro frecce. La scimmia, ancora viva ma immobilizzata dal curaro, venne finita a colpi di pietra in testa sotto gli occhi terrificati di Borobá che scappò a rifugiarsi sotto la maglietta di Nadia. Fecero un fuoco strofinando due pietre – operazione che Alex aveva tentato diverse volte invano quando era boyscout – e arrostirono le prede infilzandole su alcuni bastoni. Il cacciatore non poteva mangiare la carne della sua vittima, era di cattivo auspicio e denotava scarsa educazione, e quindi doveva attendere che un altro cacciatore gli offrisse la propria. Tahama aveva cacciato tutto, tranne l'armadillo, per cui la cena si protrasse per un bel po' finché fu terminato il rigoroso cerimoniale dello scambio del cibo. Quando finalmente ricevette la sua porzione, Alex la divorò senza preoccuparsi delle piume e dei peli ancora attaccati alla carne e la trovò deliziosa.
Mancavano ancora un paio d'ore al tramonto e sull'altopiano, dove la vegetazione era meno folta, la luce del giorno durava di più che a valle. Dopo lunghe consultazioni fra Tahama e Mokarita il gruppo riprese il cammino.
Tapirawa-teri, il villaggio del Popolo della Nebbia, apparve all'improvviso in mezzo alla boscaglia, quasi avesse lo stesso dono dei suoi abitanti di diventare visibile o invisibile, a sua discrezione. Era protetto da una serie di castagni giganteschi, gli alberi più alti della foresta, i cui tronchi potevano raggiungere un diametro di oltre dieci metri. Le loro fronde ricoprivano il villaggio come un enorme ombrello. Tapirawa-teri era diverso dal tipico shabono, cosa che confermò il sospetto di Alex che il Popolo della Nebbia non fosse come le altre tribù amazzoniche, con le quali doveva avere pochissimi contatti. Il villaggio non era infatti costituito da un'unica capanna circolare con una corte interna dove viveva tutta la tribù, ma da piccole abitazioni di fango, pietra, pali e paglia, coperte con rami e arbusti, che si mimetizzavano perfettamente in mezzo alla natura. Anche stando a pochi metri di distanza, non si notava l'esistenza di costruzioni umane. Alex si rese conto che, se gli era difficile scorgere il villaggio pur trovandosi al suo interno, era certo impossibile vederlo dall'alto, diversamente da quanto succedeva invece per il grande tetto circolare e l'ampio spiazzo interno di uno shabono. Questa doveva essere la ragione per cui il Popolo della Nebbia era riuscito a mantenere il suo splendido isolamento. La speranza del ragazzo di venir salvato dagli elicotteri dell'esercito o dall'aereo di César sfumò definitivamente.
Il villaggio era irreale come i suoi abitanti. Se le capanne erano invisibili, anche tutto il resto era sfumato e trasparente. Gli oggetti, come le persone, perdevano contorni precisi, per esistere esclusivamente in una dimensione illusoria. Sorgendo dal nulla come fantasmi, arrivarono donne e bambini a dare il benvenuto ai guerrieri. Erano bassi di statura, con la pelle più chiara rispetto agli indios della valle e gli occhi color ambra; si muovevano con straordinaria leggerezza, fluttuando, come se fossero privi di consistenza. I loro unici indumenti erano i disegni dipinti sul corpo e le piume o i fiori legati alle braccia o infilati dietro le orecchie. Spaventati dall'aspetto degli stranieri, i bambini più piccoli scoppiarono in lacrime e le donne restarono a distanza, impaurite nonostante la presenza dei loro uomini armati.
"Togliti i vestiti, Giaguaro" gli ordinò Nadia mentre si sfilava i pantaloncini, la maglietta e persino la biancheria intima.
Alex la imitò senza neanche pensarci. L'idea di spogliarsi e di restare nudo in mezzo a tanta gente fino a un paio di settimane prima lo avrebbe terrorizzato, ma ora gli sembrava naturale. Avere indosso degli indumenti diventava indecente se tutti gli altri erano nudi. Non lo stupì nemmeno la vista del corpo dell'amica, anche se fino a poco prima sarebbe sicuramente stato in imbarazzo se una delle sue sorelle gli si fosse presentata senza vestiti. Subito, donne e bambini non ebbero più paura e iniziarono lentamente ad avvicinarsi. Non avevano mai visto persone dall'aspetto tanto singolare, soprattutto il ragazzo americano, così bianco in certe parti. Alex notò che esaminavano con curiosità particolare la differenza di colore della pelle tra le parti normalmente protette dal costume e quelle abbronzate, abituate all'esposizione al sole. Lo sfregavano con le dita per vedere se era dipinto e poi ridevano fragorosamente.
I guerrieri appoggiarono al suolo la barella di Mokarita, che fu subito circondata da tutta la tribù. Comunicavano tra loro per mezzo di sussurri, con suoni melodiosi che imitavano i rumori del bosco, la pioggia, l'acqua sulle pietre del fiume, esattamente come parlava Walimai. Con stupore Alex si accorse che riusciva a capire abbastanza bene, se non si sforzava di farlo, ma "ascoltava con il cuore". Secondo Nadia, che aveva una predisposizione stupefacente per le lingue, le parole non erano così importanti, una volta comprese le intenzioni.
Iyomi, la sposa di Mokarita, ancora più anziana di lui, si avvicinò. Gli altri la fecero rispettosamente passare e lei si inginocchiò accanto al marito e, senza una lacrima, prese a mormorargli parole di consolazione all'orecchio, mentre le altre donne si disponevano in semicerchio, serie e silenziose, per rinfrancare la coppia con la loro vicinanza discreta, ma senza intervenire.
Presto scese la notte e l'aria diventò fredda. In uno shabono, di solito, per cucinare e riscaldare venivano accesi dei falò in cerchio, sotto il grande tetto comune, ma a Tapirawa-teri il fuoco era nascosto, come tutto il resto. I fuocherelli scoppiettavano solo di notte, dentro le capanne, su un altare di pietra, per non richiamare l'attenzione di eventuali nemici o degli spiriti malvagi. Il fumo usciva dalle fessure del tetto, disperdendosi nell'aria. All'inizio Alex ebbe l'impressione che le capanne fossero distribuite a caso sotto gli alberi, ma presto capì che erano disposte in una forma vagamente circolare, come uno shabono, e che erano collegate l'una all'altra da gallerie o tetti di rami, che conferivano unità al villaggio. Gli abitanti potevano spostarsi attraverso questa rete di sentieri nascosti, rimanendo protetti in caso di attacco e riparati dalla pioggia e dal sole.
Gli indios erano raggruppati per famiglie, ma gli adolescenti maschi e gli uomini ancora celibi vivevano separati in una capanna comune, con amache appese ai pali e stuoie sul pavimento. Alex venne sistemato lì, mentre Nadia fu condotta nella capanna di Mokarita. Il capo si era sposato, quando era ancora un ragazzo, con Iyomi, la compagna di tutta la vita, ma aveva anche altre due mogli giovani e un gran numero di figli e nipoti. Non teneva il conto dei suoi discendenti, perché in realtà non era importante sapere chi fossero i genitori: i bambini venivano cresciuti tutti insieme, protetti e accuditi dai membri del villaggio.
Nadia constatò che per il Popolo della Nebbia era normale avere più spose o più mariti; nessuno restava solo. Se un uomo moriva, i figli e le mogli venivano immediatamente adottati da qualcun altro in grado di proteggerli e badare a loro. Era il caso di Tahama, che doveva essere un ottimo cacciatore, visto che si occupava di varie donne e di una dozzina di bambini. Dal canto suo una madre, il cui sposo non fosse un buon cacciatore, poteva avere altri mariti che l'aiutassero a nutrire i figli. Di solito, i genitori promettevano le figlie in sposa già alla nascita, ma nessuna ragazza era costretta a sposarsi o a stare con un uomo contro la propria volontà. L'abuso contro donne e bambini era tabù e colui che lo violava perdeva la famiglia ed era condannato a dormire da solo, visto che veniva bandito anche dalla capanna dei celibi. L'unica punizione vigente presso il Popolo della Nebbia era l'isolamento: nulla era temuto quanto l'esclusione dalla comunità. Per il resto, il concetto di premio e punizione non aveva senso per loro. I bambini crescevano seguendo il modello dei grandi, perché diversamente sarebbero stati destinati a soccombere. Dovevano imparare a cacciare, pescare, coltivare, rispettare la natura e il prossimo, ad aiutare e a svolgere il proprio ruolo nella comunità. Ciascuno apprendeva con il proprio ritmo e in base alle proprie capacità.
A volte capitava che non nascessero abbastanza bambine, e allora gli uomini partivano per lunghi viaggi alla ricerca di spose. Le ragazze del villaggio, peraltro, potevano trovare marito anche durante le rare occasioni in cui visitavano altre regioni. La comunità si ingrandiva tutte le volte che accoglieva qualche famiglia di un'altra tribù che era stata abbandonata dopo una battaglia e che da sola non sarebbe mai sopravvissuta nella foresta. A volte, era necessario dichiarare guerra a un altro shabono per rendere più forti i guerrieri e per favorire la creazione di nuove coppie. Era molto triste quando i giovani se ne andavano a vivere in un'altra tribù, perché difficilmente avrebbero rivisto la famiglia di origine. Il Popolo della Nebbia manteneva gelosamente il segreto del suo villaggio, per difendersi dagli attacchi dei forestieri. Avevano vissuto così per migliaia di anni e non avevano intenzione di cambiare.
All'interno delle capanne c'erano pochissime cose: amache, zucche, asce di pietra, coltelli fatti di denti o artigli e vari animali domestici che appartenevano alla comunità e che entravano e uscivano a loro piacimento. In quella dei celibi erano conservati gli archi con le frecce e i dardi. Non c'era niente di superfluo, nessun oggetto ornamentale, ma solo l'essenziale per la pura sopravvivenza perché il resto veniva fornito dalla natura. Alexander non vide nessun utensile di metallo che testimoniasse contatti con il mondo esterno e ricordò che il Popolo della Nebbia non aveva toccato i doni appesi agli alberi da César come richiamo. Anche in questo si distinguevano dalle altre tribù della regione, che a poco a poco stavano soccombendo all'avidità che li spingeva a impossessarsi dell'acciaio e di altri beni dei forestieri.
Quando la temperatura si abbassò, Alex si rivestì, ma continuava a tremare dal freddo. Durante la notte vide che i suoi compagni di capanna dormivano in due in un'amaca o a terra uno stretto all'altro per tenersi al caldo, ma lui proveniva da una cultura in cui il contatto fisico tra maschi non è ammesso; gli uomini si toccano solo in impeti d'ira o negli sport più violenti. Si raggomitolò da solo in un angolo, sentendosi più insignificante di una pulce. Quel minuscolo gruppo di esseri umani, nel loro piccolo villaggio in mezzo alla foresta, era invisibile nell'immensità dello spazio siderale. Nell'infinito, la durata della loro vita era più breve di una frazione di secondo. O forse non esistevano nemmeno e gli esseri umani, i pianeti e tutto il creato erano solo sogni, pure illusioni. Sorrise umilmente ricordando che fino a poche settimane prima credeva di essere il centro dell'universo. Aveva freddo e fame e si preparò ad affrontare una notte lunghissima, ma in meno di cinque minuti stava già dormendo, come sotto l'effetto di un sonnifero.
Si svegliò rannicchiato per terra su una stuoia di paglia, stretto tra due robusti guerrieri che russavano e sbuffavano nelle sue orecchie, come faceva Poncho. A fatica si staccò dalle braccia degli indios e si alzò con discrezione, ma non andò lontano, perché un grosso serpente di oltre due metri si era messo di traverso sulla soglia. Alex rimase come pietrificato, e non osò muoversi anche se il rettile non dava alcun segno di vita: era morto o stava dormendo. Ben presto gli indios si svegliarono e cominciarono a dedicarsi senza alcuna fretta alle loro attività, scavalcando il serpente come se niente fosse. Era un boa constrictor addomesticato, la cui mansione era quella di eliminare topi, pipistrelli e scorpioni e di spaventare i serpenti velenosi. Il Popolo della Nebbia aveva molte mascotte: scimmie che venivano cresciute insieme ai bambini, cagnolini che le donne curavano come figli, tucani, pappagalli, iguane e persino un decrepito giaguaro giallo, inoffensivo e zoppicante. I boa, ben nutriti e quasi sempre in letargo, lasciavano che i bambini giocassero con loro. Alex pensò a quanto sarebbe stata felice sua sorella Nicole in mezzo a quel circo esotico di animali ammaestrati.
Buona pane della giornata trascorse nella preparazione dei festeggiamenti per il ritorno dei guerrieri e per onorare la visita delle due "anime bianche", come vennero chiamati Nadia e Alex. Tutti collaboravano, tranne un uomo che rimase seduto all'estremità del villaggio, lontano dagli altri. L'indio si stava sottoponendo al rito di purificazione, l'unokaimú, obbligatorio quando si era ucciso un altro essere umano. Alex venne a sapere che l'unokaimú consisteva nel digiuno totale, nel silenzio e nell'immobilità per diversi giorni, in modo da consentire allo spirito del morto, fuggito dal naso del cadavere per trovare dimora nel petto dell'assassino, di separarsi poco alla volta. Se l'uccisore avesse mangiato del cibo, il fantasma della vittima sarebbe ingrassato e il peso avrebbe finito per schiacciarlo. Davanti al guerriero immobile per l'unokaimú c'era una lunga cerbottana di bambù con strani simboli, identici a quelli del dardo avvelenato che aveva attraversato il cuore del soldato durante il viaggio sul fiume.
Alcuni uomini partirono per la caccia e la pesca, guidati da Tahama, mentre diverse donne andarono a raccogliere mais e banane negli orticelli nascosti nella boscaglia e altre si dedicarono a macinare la manioca. I bambini più piccoli mettevano insieme formiche e altri insetti da cucinare; i più grandicelli raccoglievano noci e frutti o si arrampicavano agilmente su un albero per prendere il miele dal favo, l'unica fonte di zuccheri nella foresta. Da quando iniziavano a stare in piedi, i bambini imparavano ad arrampicarsi e a correre sui rami più alti degli alberi con incredibile agilità. Nadia soffriva di vertigini al solo vederli, così sospesi a quell'altezza, come scimmie.
Alex ricevette un canestro, gli insegnarono come legarselo sulla testa e gli fecero segno di seguire i giovani della sua età. Si addentrarono nella vegetazione per un buon tratto, attraversarono il fiume attaccandosi alle pertiche e alle liane e giunsero a un gruppo di palme altissime dai tronchi tempestati di spine. Appena sotto le foglie, a più di quindici metri dal suolo, luccicavano grappoli di un frutto giallo simile alla pesca. I giovani legarono alcuni pali per formare due solide impalcature incrociate, ne appoggiarono una intorno al tronco e vi adagiarono sopra la seconda. Uno di loro si arrampicò su quella in basso, afferrò l'altra e vi montò su, poi tese una mano per recuperare la prima e sollevarla al di sopra di sé e in questo modo proseguì fino in cima con l'agilità di un trapezista. Alex aveva sentito parlare di tale impresa, ma non avrebbe mai creduto possibile arrampicarsi fino in alto senza ferirsi con le spine. Dalla cima, l'indio si mise a lanciare giù i frutti, che gli altri depositavano nei canestri. Più tardi, le donne del villaggio li avrebbero macinati mescolandoli alle banane per preparare una zuppa molto apprezzata dal Popolo della Nebbia.
Nonostante tutti fossero affaccendati nei preparativi, si respirava un'aria rilassata e gioiosa. Nessuno aveva fretta e avanzò il tempo per un lungo bagno nel fiume. Mentre sguazzava in compagnia degli altri, Alexander pensò che il mondo non gli era mai sembrato così bello e che non si sarebbe mai più sentito così libero. Dopo il lungo bagno, le ragazze di Tapirawa-teri prepararono pitture vegetali di diversi colori e decorarono tutti i membri della tribù, compresi i neonati, con complicati disegni. Nel frattempo, gli anziani macinavano e mescolavano foglie e cortecce di diversi alberi per preparare lo yopo, la polvere magica per le cerimonie.