10.
IL RAPIMENTO
Il giorno seguente passò, lento e noioso, sotto una pioggia battente che non dava modo di fare asciugare gli indumenti tra uno scroscio e l'altro. Quella notte, durante il loro turno, sparirono i due soldati e ben presto la compagnia si accorse che mancava anche la lancia a motore. I due, che dalla morte dei loro compagni vivevano nel terrore, erano fuggiti per il fiume. Erano stati sul punto di ammutinarsi quando era stato loro impedito di rientrare a Santa María de la Lluvia con la prima lancia; non erano pagati per rischiare la pelle, avevano detto. César aveva ribattuto che invece erano pagati proprio per quello, non erano forse soldati? Probabilmente la decisione di fuggire poteva costar loro cara, ma evidentemente avevano preferito rischiare la corte marziale piuttosto che morire ammazzati per mano degli indios o della Bestia. Per quelli che restavano, l'imbarcazione, ormai persa, rappresentava l'unica possibilità di tornare nel mondo civilizzato; ora, senza lancia e senza radio, erano completamente isolati.
"Ma gli indios sanno che siamo qui. Non possiamo rimanere!" esclamò il professor Leblanc.
"E dove vuole andare, professore? Se ci spostiamo, gli elicotteri non ci troveranno mai. Dall'alto si vede solo una grande macchia verde, è impossibile localizzarci" spiegò César.
"Non possiamo seguire il corso del fiume e provare a tornare a Santa María de la Lluvia a piedi?" buttò lì Kate.
"È impossibile: troppi ostacoli e deviazioni" rispose la guida.
"Tutta colpa sua, Cold! Avremmo dovuto tornare indietro tutti insieme, come avevo proposto io" recriminò il professore.
"Va bene, è colpa mia. Che misure intende adottare?" chiese la giornalista.
"La denuncerò! Le rovinerò la carriera!"
"Può darsi che sia io a rovinare la sua, professore" replicò lei senza scomporsi.
César li interruppe: invece di litigare era il caso di fare fronte comune e valutare la situazione: gli indios non si fidavano, non avevano manifestato interesse per i regali, si limitavano a osservarli ma comunque non li avevano attaccati.
"Certo, a quel povero soldato non hanno fatto niente, vero?" domandò Leblanc con sarcasmo.
"Non credo siano stati gli indios, non è il loro modo di uccidere. Se siamo fortunati, probabilmente questa è una tribù pacifica" rispose la guida.
"Se invece non siamo fortunati, ci mangeranno" grugnì l'antropologo.
"Sarebbe perfetto, professore. La sua teoria sulla ferocia degli indios verrebbe così dimostrata" disse Kate.
"Ora basta con le stupidaggini. Bisogna prendere una decisione. Andarsene o restare..." tagliò corto il fotografo Timothy Bruce.
"La prima lancia è partita tre giorni fa. Visto che aveva la corrente a favore e che Matuwe conosce la strada, credo che siano già arrivati a Santa María de la Lluvia. Domani o al massimo nel giro di due giorni, arriveranno gli elicotteri del capitano Ariosto. Viaggeranno di giorno, per cui terremo un fuoco sempre acceso perché vedano il fumo. La situazione è difficile, come ho detto, ma non disperata; molte persone sanno dove siamo e verranno a prenderci" assicurò César.
Nadia era tranquilla, abbracciata alla sua scimmietta, come se non cogliesse la gravità di quanto stava succedendo. Al contrario, Alex era certo di non essersi mai trovato in una situazione così pericolosa, nemmeno quando era rimasto appeso a El Capitán, una parete scoscesa che solo i più esperti osavano scalare. Se non fosse stato legato a suo padre con una corda, ci avrebbe rimesso la vita.
César li aveva messi in guardia contro una serie di insetti e di animali della foresta, dalle tarantole ai serpenti, ma si era dimenticato delle formiche rosse. Alex aveva rinunciato ai suoi stivali, non solo perché erano perennemente umidi e puzzolenti, ma perché erano diventati più duri, forse a causa di tutta l'acqua che avevano preso. Sebbene nei primi giorni non si fosse mai tolto i sandali che gli aveva dato César, i piedi gli si erano riempiti di croste e calli.
"Non è un posto per piedi delicati" commentò laconica la nonna quando le mostrò i tagli sanguinanti.
La sua indifferenza divenne preoccupazione quando il nipote fu morso da una formica rossa. Il ragazzo non riuscì a trattenere un urlo: sentì come se gli stessero bruciando la caviglia con una sigaretta. La formica gli lasciò un segnetto bianco che in pochi minuti diventò rosso e gonfio come una ciliegia. Il dolore salì per la gamba a vampate e il ragazzo non poté più camminare. La dottoressa Torres lo avvertì che l'effetto del veleno sarebbe durato alcune ore e che era costretto a sopportarlo con l'unico sollievo di impacchi di acqua calda.
"Spero che tu non sia allergico, altrimenti le conseguenze potrebbero essere peggiori" osservò la dottoressa.
Alex non lo era, ma comunque la puntura gli rovinò buona parte della giornata. Verso sera, quando fu in grado di appoggiare il piede e fare qualche passo, Nadia gli raccontò che, mentre erano tutti intenti nelle loro faccende, lei aveva visto Karakawe aggirarsi intorno alla cassa dei vaccini. Quando l'indio si era accorto di essere stato scoperto, l'aveva afferrata con tanta violenza da lasciarle il segno delle dita sulla pelle e l'aveva avvertita che le avrebbe fatto passare guai seri se avesse detto una sola parola. Era certa che quell'uomo avrebbe messo in atto la sua minaccia, ma Alex era dell'idea che non potevano stare zitti e che dovevano riferire l'accaduto alla dottoressa. Nadia, che era affascinata dalla dottoressa quanto il padre e cominciava ad accarezzare l'idea di vederla diventare la sua matrigna, avrebbe voluto dirle anche della conversazione tra Mauro Carías e il capitano Ariosto origliata insieme ad Alex a Santa María de la Lluvia. Era convinta che Karakawe fosse la persona incaricata di portare a termine il sinistro progetto di Carías.
"Di questo non diremo nulla per ora" decise Alex.
Aspettarono il momento opportuno, quando Karakawe andò a pescare al fiume, e misero al corrente la dottoressa Torres. Lei li ascoltò con attenzione, e per la prima volta da quando la conoscevano diede segni di una certa inquietudine. Persino nei momenti più drammatici di quell'avventura, l'incantevole donna non aveva mai perso la calma; aveva i nervi saldi di un samurai. Nemmeno questa volta si agitò, ma volle comunque conoscere tutti i dettagli. Quando le dissero che Karakawe aveva aperto le casse, lasciando comunque intatti i tappi dei flaconcini, tirò un respiro di sollievo.
"Quei vaccini sono l'unica speranza di vita per gli indios. Dobbiamo proteggerli come un tesoro" disse.
"Alex e io abbiamo tenuto d'occhio Karakawe, crediamo che abbia manomesso la radio, ma mio papà dice che senza prove non possiamo accusarlo" aggiunse Nadia.
"Non preoccupiamo tuo padre per niente, Nadia, ne ha già abbastanza di problemi. Noi tre insieme riusciremo a neutralizzare Karakawe. Non toglietegli gli occhi di dosso, ragazzi" li pregò la dottoressa e loro acconsentirono.
Il giorno passò senza altre novità. César continuava a cercare di far funzionare la radio, ma senza successo. Timothy Bruce aveva un apparecchio con il quale aveva ascoltato i notiziari di Manaus nella prima parte del viaggio, ma non era a onde lunghe. Si annoiavano perché, una volta che si erano procurati alcuni uccelli e del pesce per i pasti, non avevano più niente da fare; era inutile cacciare o pescare in abbondanza perché il cibo si riempiva di formiche o andava a male nel giro di poche ore. Alex era finalmente riuscito a capire la mentalità degli indios, che non accumulavano mai niente. Si davano il cambio per mantenere vivo il fuoco, nel caso arrivassero gli elicotteri, anche se César aveva detto che era ancora troppo presto. Timothy Bruce tirò fuori un vecchio mazzo di carte e giocarono a poker, blackjack e gin rummy finché iniziò a imbrunire. L'odore penetrante della Bestia non si era più fatto sentire.
Nadia, Kate e la dottoressa andarono al fiume a lavarsi; come d'accordo, nessuno doveva avventurarsi da solo oltre l'accampamento. Per i bisogni personali, le donne stavano tutte e tre insieme, per il resto, ci si muoveva a coppie. César faceva in modo di restare sempre con la dottoressa Torres, cosa che dava parecchio fastidio a Timothy Bruce, visto che anche lui ne era attratto. Sebbene Kate gli avesse raccomandato di conservare le pellicole per la Bestia e gli indios, durante il viaggio l'inglese aveva scattato un sacco di foto a Omayra, finché lei si era rifiutata di continuare a posare. La giornalista e Karakawe sembravano gli unici immuni dal fascino della giovane donna. Kate borbottò che era troppo vecchia per imbambolarsi davanti a un bel viso, ma questo commento suonò al nipote come una dimostrazione di gelosia che non faceva onore alla sua intelligenza. Il professor Leblanc, che non poteva competere né con la prestanza fisica di César né con la giovane età di Timothy Bruce, tentava di fare colpo sulla dottoressa ostentando la sua fama e non perdeva occasione per leggerle ad alta voce paragrafi del suo libro in cui raccontava per filo e per segno i terribili pericoli corsi con gli indios. Lei riusciva a stento a immaginarsi quel fifone di Leblanc, in perizoma, combattere a mani nude con indios e fiere, cacciare con frecce e sopravvivere senza alcun aiuto in mezzo a ogni genere di catastrofi naturali, come il professore andava raccontando. La rivalità degli uomini per attirare l'attenzione della dottoressa Torres aveva comunque creato una certa tensione, che aumentava via via che passavano le ore nell'angosciosa attesa degli elicotteri.
Alex si guardò la caviglia: gli faceva male ed era ancora un po' gonfia, ma quella dura ciliegia rossa nel punto in cui lo aveva morso la formica si era ridotta; gli impacchi di acqua calda avevano fatto effetto. Per distrarsi, prese il flauto e cominciò a suonare il pezzo preferito di sua mamma, una melodia dolce e romantica di un compositore europeo morto da oltre un secolo, un'armonia che si intonava con l'ambiente della foresta. Suo nonno Joseph Cold aveva ragione: la musica è un linguaggio universale. Già dalle prime note, Borobá era arrivata saltellando e si era seduta ai piedi del ragazzo con un atteggiamento serio e competente e poco dopo si erano unite anche Nadia, la dottoressa e Kate. La ragazzina attese che tutti fossero intenti a preparare l'accampamento per la notte per fare cenno ad Alex di seguirla di nascosto.
"Sono ancora qui, Giaguaro" gli mormorò all'orecchio.
"Gli indios?"
"Sì, il Popolo della Nebbia. Credo che siano stati attratti dalla musica. Non fare rumore e vienimi dietro."
Si addentrarono per qualche metro nella boscaglia e, come l'altra volta, restarono in silenzio. Per quanto Alex aguzzasse la vista, non riusciva a scorgere nessuno tra gli alberi: in sua presenza, gli indios si dissolvevano. All'improvviso, sentì delle mani che lo afferravano per le braccia e voltandosi vide che erano circondati. Gli indios non erano rimasti a distanza, come la volta prima; ora Alex poteva sentire l'odore dolciastro dei loro corpi. Notò di nuovo che erano bassi e magri, ma ora constatava che erano anche molto forti e che il loro atteggiamento tradiva una certa ferocia. Che avesse ragione il professor Leblanc a ritenerli violenti e crudeli?
"Aía" provò a salutare.
Una mano gli tappò la bocca e, prima ancora che potesse rendersi conto di quanto stava accadendo, si sentì sollevare per le ascelle e le caviglie. Cominciò a contorcersi e a scalciare, ma le mani mantenevano salda la presa. Sentì un colpo alla testa, non capì se fosse un pugno o una pietra, ma pensò che era meglio lasciarsi trasportare piuttosto che farsi stordire o uccidere. Pensò a Nadia e si chiese se stessero trascinando via con la forza anche lei. Gli parve di sentire in lontananza la voce della nonna che lo chiamava, mentre gli indios lo portavano via, scomparendo nell'oscurità come spiriti della notte.
Alexander sentiva un forte bruciore alla caviglia, là dove lo aveva morso la formica, che ora era imprigionata dalla mano di uno dei quattro indios che lo stavano trasportando. I suoi rapitori procedevano veloci e a ogni passo il corpo del ragazzo dondolava e le spalle gli dolevano come se si stessero slogando. Gli avevano tolto la maglietta per legargliela stretta intorno alla testa, di modo che non potesse né vedere, né gridare. Riusciva appena a respirare e la testa pulsava dove lo avevano colpito, ma era comunque rincuorato per non aver perso conoscenza: voleva dire che i guerrieri non lo avevano picchiato forte e non intendevano ucciderlo. Per lo meno, non ancora... Gli sembrava di aver percorso un lungo tratto, quando si fermarono e lo lasciarono cadere a terra come un sacco di patate. La sensazione di sollievo ai muscoli e alle ossa fu quasi immediata, ma la caviglia continuava a bruciare terribilmente. Non osò togliersi la maglietta dalla testa per non irritare gli aggressori ma, siccome non succedeva niente, dopo un po' decise di levarsela. Nessuno glielo impedì. Quando i suoi occhi si furono abituati al tenue chiarore della luna, vide che si trovava in mezzo alla vegetazione, disteso sullo strato di humus che copriva il terreno. Intorno a sé, in un cerchio stretto, percepiva la presenza degli indios, sebbene non potesse distinguerli con così poca luce e senza occhiali. Gli venne in mente il suo coltellino svizzero e provò a cercarlo portando di nascosto la mano alla cintura, ma non riuscì a finire il gesto: una mano decisa gli afferrò il polso. Poi udì la voce di Nadia e sentì le zampine magre di Borobá nei capelli. Lanciò un grido perché la scimmia aveva toccato uno dei tagli causati dalla botta in testa.
"Stai calmo, Giaguaro. Altrimenti ci faranno del male" disse la ragazzina.
"Che cosa è successo?"
"Si sono spaventati, credevano che ti saresti messo a gridare e perciò hanno dovuto portarti via a forza. Vogliono soltanto che andiamo con loro."
"Dove? Perché?" farfugliò il ragazzo cercando di mettersi seduto. La testa gli rimbombava come un tamburo.
Nadia lo aiutò ad alzarsi e gli diede da bere dell'acqua da una zucca. I suoi occhi ormai si erano abituati al buio e così vide che gli indios lo stavano osservando da vicino e parlavano a voce alta, senza timore di venire uditi o raggiunti. Alex immaginò che i compagni della spedizione li stessero cercando, anche se nessuno si sarebbe avventurato troppo lontano in piena notte. Pensò che una volta tanto sua nonna si sarebbe preoccupata. Come avrebbe spiegato a suo figlio John di avere perso il nipote nella foresta? Per quanto aveva potuto vedere, gli indios avevano trattato Nadia con maggior clemenza, perché la ragazzina si muoveva in mezzo a loro con tranquillità. Quando si alzò in piedi, sentì che dalla tempia destra gocciolava sulla spalla qualcosa di tiepido. Si passò sopra un dito e se lo portò alla bocca.
"Mi hanno spaccato la testa" mormorò spaventato.
"Fa' finta di niente, Giaguaro, come un vero guerriero" gli raccomandò Nadia.
Il ragazzo concluse che doveva dare una dimostrazione di coraggio: si alzò in piedi stando attento a nascondere il tremito delle ginocchia, si mise dritto quanto poté e si batté il torace come aveva visto fare nei film di Tarzan, lanciando un lunghissimo ruggito alla King Kong. Gli indios indietreggiarono di un paio di passi e impugnarono le armi, attoniti. Alex ripeté i colpi sul petto e i grugniti, certo di avere scatenato la paura nelle fila nemiche ma, invece di mettersi a correre spaventati, i guerrieri scoppiarono a ridere. Anche Nadia sorrideva e Borobá saltava e digrignava i denti, sbellicandosi dalle risa. Il volume delle risate aumentò, alcuni indios si dovettero sedere, altri si buttarono a terra all'indietro con le gambe in aria divertendosi come matti, altri ancora imitavano il ragazzo ululando come Tarzan. Andarono avanti così per un bel po', finché Alex, sentendosi davvero ridicolo, venne contagiato dalle risate. Alla fine si calmarono e, asciugandosi le lacrime, si scambiarono pacche amichevoli.
Uno degli indios, che nella penombra sembrava più basso e più vecchio degli altri e che si distingueva per una corona di piume, unico ornamento sul suo corpo nudo, iniziò un lungo discorso. Nadia ne intese il senso perché conosceva diverse lingue degli indios e, anche se il Popolo della Nebbia parlava un idioma particolare, molte parole erano simili. Era sicura di riuscire a comunicare con loro. Dalla tirata dell'uomo con la corona di piume aveva colto i riferimenti a Rahakanariwa, lo spirito dell'uccello cannibale di cui le aveva parlato Walimai, ai nahab, come venivano chiamati i forestieri, e a un potente sciamano. Anche se non fece il nome, perché pronunciarlo sarebbe stato estremamente scortese, Nadia capì che si trattava di Walimai. Con l'aiuto delle parole e dei gesti, la ragazzina indicò l'osso intagliato che portava appeso al collo, regalo dello stregone. L'uomo che si comportava da capo osservò il talismano con grande attenzione, manifestò ammirazione e rispetto e quindi riprese il suo discorso, rivolgendosi ora ai guerrieri che uno a uno si avvicinarono per toccare l'amuleto.
Poi gli indios si sedettero in cerchio e continuarono la loro conversazione, mentre distribuivano pezzi di una specie di pane non lievitato. Alex si rese conto di non aver mangiato da molte ore e di sentire una gran fame; divorò la sua porzione di cena senza preoccuparsi della sporcizia e senza nemmeno chiedere di cosa fosse fatta; le sue fisime sul cibo erano ormai acqua passata. Poco dopo i guerrieri fecero girare una vescica di animale contenente un succo viscoso dall'odore acre e dal sapore di aceto e intonarono un canto per tenere lontani i fantasmi che provocano gli incubi. A Nadia non offrirono il beverone, ma ebbero la gentilezza di spartirlo con Alex, il quale non era attratto né dall'odore né dall'idea di dover bere dallo stesso recipiente di tutti gli altri. Ricordava la storia di César su quella tribù contagiata dalla sigaretta di un giornalista. L'ultima cosa che voleva fare era passare i propri germi a quegli indios dal sistema immunitario senza difese, ma Nadia lo avvertì che il suo rifiuto sarebbe stato considerato un insulto. Gli disse che era masato, una bevanda fermentata fatta con manioca masticata e saliva, riservata solo agli uomini. A questa spiegazione, Alex temette di vomitare ma non osò tirarsi indietro.
Tra il colpo sulla testa e il masato, il ragazzo partì subito per il pianeta delle sabbie dorate e delle sei lune nel cielo fosforescente, che aveva visto nell'accampamento di Carías. Era così confuso e intossicato che non avrebbe saputo fare nemmeno un passo e per fortuna non ce ne fu bisogno, perché anche i guerrieri, sotto l'effetto del liquore, ronfavano sdraiati per terra. Alex immaginò che non si sarebbero rimessi in marcia finché non fosse sorto il sole e si consolò con la vaga speranza che all'alba la nonna lo avrebbe trovato. Raggomitolato su se stesso, dimentico dei fantasmi, degli incubi, delle formiche rosse, delle tarantole e dei serpenti, si abbandonò al sonno. Non si scompose nemmeno quando il nauseabondo fetore della Bestia cominciò a impestare l'aria.
Le uniche a essere sobrie e sveglie all'arrivo della Bestia erano Nadia e Borobá. La scimmia rimase immobile, come impietrita, e la ragazzina riuscì a intravedere una gigantesca figura alla luce della luna prima di perdere conoscenza a causa del fetore. Più tardi avrebbe raccontato all'amico le stesse cose riferite da padre Valdomero: si trattava di una creatura dai tratti umani, eretta, alta circa tre metri, con braccia enormi che terminavano con artigli ricurvi simili a scimitarre e una testa piccola, sproporzionata rispetto al corpo. A Nadia sembrò che si muovesse con grande lentezza, ma certamente la Bestia avrebbe potuto sbudellare tutti quanti, se solo avesse voluto. Il puzzo che emanava, o forse il terrore che incuteva nelle vittime, paralizzava come una droga. Prima di svenire, la ragazzina aveva cercato di urlare e di scappare, ma non era riuscita a muovere nemmeno un muscolo; in uno sprazzo di lucidità, aveva rivisto il corpo del soldato sventrato come un animale e aveva potuto immaginare l'orrore dell'uomo, la sua impotenza e la terribile morte.
Alex si svegliò confuso per il tentativo di ricordare quello che era successo, con una tremarella in corpo dovuta allo strano liquore della sera prima e al fetore che aleggiava nell'aria. Vide Nadia, con Borobá accucciata in grembo, seduta a gambe incrociate e lo sguardo perso nel nulla. Si trascinò gattoni fino a lei, dominando a malapena i sussulti delle viscere.
"L'ho vista, Giaguaro" disse Nadia quasi in trance, con una voce che pareva venire da lontano.
"Cosa hai visto?"
"La Bestia. Era qui. È enorme, un gigante..."
Alex andò dietro alcune felci e svuotò lo stomaco. Ora andava meglio, anche se l'odore gli faceva tornare la nausea. Al suo ritorno, i guerrieri erano già pronti per rimettersi in cammino. Per la prima volta, nella luce dell'alba, ebbe modo di osservarli bene. Il loro aspetto incuteva timore, esattamente come aveva detto il professor Leblanc: erano nudi, i corpi dipinti di rosso, nero e verde, bracciali di piume e capelli tagliati a scodella, con la parte superiore del cranio rasata, come i frati. Portavano archi e frecce legati alla schiena e una piccola zucca con un coperchio di cuoio che, stando a Nadia, conteneva il letale curaro per frecce e dardi. Molti di loro erano armati di lunghi bastoni e tutti sfoggiavano cicatrici sulla testa, ostentate come decorazioni di guerra: il coraggio e la forza si misuravano dai segni dei colpi ricevuti.
Alex dovette scrollare Nadia per farla tornare in sé, dal momento che lo spavento per la Bestia l'aveva lasciata stordita. La ragazzina riuscì a riferire ciò che aveva visto e i guerrieri l'ascoltarono attentamente, senza dar segno di sorpresa e senza fare alcun commento sull'odore.
Si misero in marcia subito, di buon passo e tutti in fila dietro il capo, che Nadia decise di chiamare Mokarita, dato che non poteva chiedergli il vero nome. A giudicare dalla pelle, dai denti e dai piedi deformi, Mokarita doveva essere molto più vecchio di quanto Alex avesse immaginato la notte prima, ma era agile e forte come gli altri guerrieri. Uno dei giovani si distingueva dagli altri: era più alto ed era l'unico completamente dipinto di nero, eccettuata una specie di maschera rossa intorno agli occhi e sulla fronte. Camminava sempre accanto al capo, come se fosse il suo luogotenente, e parlava di sé col nome di Tahama. Nadia e Alexander capirono più tardi che quello era il titolo onorifico assegnato al miglior cacciatore della tribù.
Sebbene il paesaggio fosse sempre uguale e privo di punti di riferimento, gli indios sapevano perfettamente dove si stavano dirigendo. Non si girarono mai per controllare che i due ragazzi li seguissero: sapevano che non avevano alternativa, da soli si sarebbero persi. A volte Alex e Nadia avevano l'impressione di essere soli perché il Popolo della Nebbia spariva nella vegetazione, ma la sensazione non durava a lungo: gli indios, infatti, si dileguavano e riapparivano all'improvviso, come se si stessero esercitando nell'arte di diventare invisibili. Alex concluse che questo dono non poteva essere attribuito esclusivamente ai colori con cui si mimetizzavano, doveva trattarsi innanzitutto di un atteggiamento mentale. Come facevano? Pensò a quanto potesse tornare utile nella vita il trucco dell'invisibilità e decise di impararlo. Nel corso dei giorni seguenti avrebbe capito che non si trattava di illusionismo, bensì di una capacità che si poteva apprendere mediante pratica e concentrazione, esattamente come suonare il flauto.
Continuarono a procedere speditamente per alcune ore, fermandosi di tanto in tanto solo per bere. Alex aveva fame, ma almeno era contento che la caviglia morsa dalla formica non gli doleva più. César gli aveva raccontato che gli indios mangiano quando possono, non per forza tutti i giorni, e che il loro organismo è abituato a immagazzinare energia; lui, invece, aveva sempre avuto un frigorifero ben fornito, almeno quando sua madre stava bene, e le poche volte che gli era toccato saltare un pasto si era sentito debole. Non gli restò che sorridere dell'incredibile trasformazione nelle sue abitudini. Oltretutto, non si lavava i denti né si cambiava i vestiti da diversi giorni. Decise di ignorare il buco nello stomaco e di ingannare la fame con l'indifferenza. Un paio di volte diede un'occhiata alla bussola e scoprì che si stavano dirigendo a nordest. Qualcuno sarebbe venuto a salvarli? Come poteva lasciare delle tracce durante il cammino? Li avrebbero visti dall'elicottero? Non era molto ottimista: in effetti, la loro situazione era disperata. Si sorprese che Nadia non desse segni di stanchezza; anzi, la sua amica sembrava del tutto presa da questa avventura.
Dopo qualche ora – impossibile misurare il tempo in quel luogo – giunsero a un fiume chiaro e profondo. Proseguirono sulla riva per un paio di miglia e all'improvviso davanti agli occhi stupefatti di Alex sorse una montagna altissima e una meravigliosa cascata che scrosciava con un rombo di guerra, formando alla base una nuvola immensa di spuma e acqua nebulizzata.
"Questo è il fiume che scende dal cielo" disse Tahama.