16.
L'ACQUA DELLA VITA

Mentre Nadia saliva sulla cima del tepui, Alexander scendeva attraverso uno stretto passaggio nel ventre della Terra, un mondo chiuso, caldo, scuro e palpitante, come nei peggiori incubi. Se almeno avesse avuto una torcia elettrica... Doveva procedere a tentoni nel buio totale, a volte strisciando sulla pancia, a volte camminando gattoni. I suoi occhi non si abituavano perché le tenebre erano assolute. Allungava una mano tastando la roccia per calcolare la direzione e la larghezza della galleria, poi procedeva serpeggiando, centimetro dopo centimetro. A mano a mano che avanzava, il tunnel si restringeva e Alex pensò che non sarebbe riuscito a girarsi per tornare indietro. La poca aria era soffocante e fetida, gli sembrava di essere murato in una tomba. Lì certo non gli servivano le qualità del giaguaro nero; avrebbe avuto bisogno di un altro animale totemico, qualcosa di simile a un topo o a un lombrico.

Si fermò spesso accarezzando l'idea di tornare indietro prima che fosse troppo tardi, ma ogni volta riprendeva il cammino, spinto dal ricordo della madre. A ogni minuto aumentava l'oppressione che gli schiacciava il petto e il terrore diventava sempre più insostenibile. Sentì di nuovo il sordo battito cardiaco che aveva udito nel labirinto con Walimai. La sua mente, impazzita, prendeva in considerazione gli innumerevoli pericoli che lo minacciavano; il peggiore era quello di restare sepolto vivo nelle viscere della montagna. Quanto era lunga la galleria? Sarebbe arrivato sino alla fine o sarebbe crollato prima? L'ossigeno sarebbe bastato o sarebbe morto asfissiato?

A un certo punto si lasciò cadere lungo disteso, esausto e angosciato. Aveva i muscoli in tensione, le tempie che gli scoppiavano, tutti i nervi doloranti; non riusciva più a ragionare e temeva che gli stesse per esplodere la testa per mancanza d'ossigeno. Non aveva mai avuto tanta paura, neppure durante la lunga notte della sua iniziazione presso gli indios. Cercò di ricordare il terrore provato quando era rimasto appeso a una corda su El Capitán, ma non c'era paragone. Quella volta era sul picco di una montagna, ora stava nel suo interno. Allora era con suo padre, qui era totalmente solo. Sfiancato, si abbandonò alla disperazione, tremando. Per un lasso di tempo interminabile le tenebre penetrarono nella sua mente, il ragazzo perse i punti di riferimento e chiamò senza voce la morte, ormai sconfitto. Poi, quando il suo spirito si stava già allontanando nell'oscurità, la voce di suo padre si fece strada nella nebbia della mente e lo raggiunse, prima come un sussurro, poi con maggior chiarezza. Cosa gli ripeteva sempre il papà quando gli insegnava a scalare le rocce? "Stai calmo, Alexander, cerca il centro dite stesso, là dove c'è la tua forza. Respira. Quando inspiri ti carichi di energia e quando espiri butti fuori la tensione. Non pensare, ubbidisci all'istinto." Era ciò che lui stesso aveva consigliato a Nadia mentre salivano verso l'Occhio del Mondo, come aveva fatto a scordarselo?

Si concentrò sulla respirazione: inalare energia, senza pensare alla mancanza di ossigeno ed esalare la paura, rilassarsi, respingere i pensieri negativi che lo paralizzavano. "Posso farcela, posso farcela..." ripeteva. A poco a poco tornò nel suo corpo. Visualizzò le dita dei piedi e cominciò a rilassarle una per una, poi le gambe, le ginocchia, i fianchi, la schiena, le braccia fino alla punta delle dita, la nuca, la mandibola, le palpebre. Ora poteva respirare meglio e smise di singhiozzare. Trovò il centro di se stesso, un luogo rosso e vibrante all'altezza dell'ombelico. Ascoltò il battito del suo cuore. Sentì un solletico sulla pelle, poi un calore nelle vene e alla fine la forza si impossessò di nuovo del suo corpo, dei sensi e della mente.

Alexander lanciò un grido di sollievo. Il suono tardò qualche istante a rimbalzare contro qualcosa e tornare alle sue orecchie. Si accorse che il sonar dei pipistrelli funzionava così, consentendo loro di orientarsi nell'oscurità. Ripeté il grido, attese che tornasse indicandogli la distanza e la direzione e riuscì ad "ascoltare con il cuore", come gli aveva detto Nadia tante volte. Aveva scoperto il modo di procedere nelle tenebre.

Alex trascorse il resto del viaggio nel tunnel in uno stato di semincoscienza, in cui il suo corpo si muoveva da solo, quasi conoscesse la strada. Ogni tanto il ragazzo riusciva a riprendere il contatto con la mente e un'illuminazione gli suggeriva che quell'aria carica di gas sconosciuti gli stava offuscando i pensieri. Più tardi avrebbe creduto di aver vissuto un sogno.

Quando ormai pensava che la galleria non sarebbe mai finita, sentì un rumore d'acqua, simile a quello di un fiume, e una ventata di aria calda raggiunse i suoi polmoni sfiniti. Riprese forza. Si spinse in avanti e, giunto a una curva del sotterraneo, si rese conto che i suoi occhi percepivano qualcosa nel buio. Un chiarore, molto tenue in principio, si faceva strada a poco a poco. Speranzoso, continuò a strisciare e notò che la luce e l'aria aumentavano. Ben presto si ritrovò in una grotta che in qualche modo doveva essere collegata con l'esterno perché era debolmente illuminata. C'era uno strano odore, forte e un po' nauseabondo, come di aceto misto a fiori appassiti. La grotta presentava le stesse formazioni di minerali brillanti viste nel labirinto. Le loro sfaccettature sagomate facevano da specchio, riflettendo e moltiplicando la poca luce che penetrava fino a lì. Alex era giunto sulla riva di un laghetto minuscolo, alimentato da un rigagnolo di acqua bianca simile a latte scremato. Rispetto alla tomba nera da cui proveniva, Io specchio d'acqua e il fiume bianco gli sembrarono lo spettacolo più bello mai ammirato in vita sua. Era questa la fonte dell'eterna giovinezza? L'odore gli faceva girare la testa, doveva essere il gas sprigionato dalle viscere della Terra, un gas tossico, forse, che gli stava intorpidendo il cervello.

Una voce sussurrante e carezzevole richiamò la sua attenzione. Sorpreso, scorse qualcosa sull'altra riva della laguna, a pochi metri di distanza e, quando riuscì a mettere a fuoco l'immagine nella luce fioca, distinse una figura umana. Non riusciva a vederla bene, ma la sagoma e la voce erano quelle di una ragazza. Impossibile, si disse, le sirene non esistono, tra il gas e l'odore sto diventando matto; ma la ragazza pareva reale, i suoi capelli lunghi si muovevano, la sua pelle irradiava luce, i suoi gesti erano umani, la voce seducente. Decise di tuffarsi nell'acqua bianca per bere, togliersi la terra di dosso e lavarsi il sangue delle ferite ai gomiti e alle ginocchia. La tentazione di avvicinarsi alla bellissima creatura che lo chiamava e di abbandonarsi al piacere era irresistibile. Stava per raggiungere l'acqua quando si rese conto che l'apparizione era identica a Cecilia Burns, gli stessi capelli castani, gli stessi occhi azzurri, gli stessi gesti languidi. La parte ancora lucida del cervello lo avvisò che quella sirena era frutto della sua mente, proprio come le altre creature marine che fluttuavano, gelatinose e trasparenti, nell'aria biancastra della caverna. Ricordò quello che aveva sentito sulla mitologia degli indios, le storie raccontate da Walimai sui giganti dell'universo, in cui compariva il Fiume di Latte che conteneva tutti i semi della vita, ma anche la morte e la putrefazione. No, quella non era l'acqua miracolosa che avrebbe guarito sua madre, decise il ragazzo; era un rigagnolo della sua mente per distrarlo dalla sua missione. Non c'era tempo da perdere, ogni minuto era prezioso. Si coprì il naso con la maglietta, lottando contro il profumo penetrante che lo stordiva. Vide che lungo la riva si apriva uno stretto passaggio che si perdeva seguendo il fiumiciattolo e decise di fuggire da quella parte.

Alexander percorse il sentiero, lasciandosi alle spalle la laguna e la prodigiosa apparizione della ragazza. Con sua sorpresa, il tenue chiarore continuava ad accompagnarlo; se non altro, non doveva più procedere alla cieca. Il profumo andò via via diminuendo e poi sparì del tutto. Proseguì il più velocemente possibile, abbassandosi per evitare di battere la testa e cercando di restare sempre attaccato alla parete: se fosse caduto nel fiume forse sarebbe stato trascinato via. Purtroppo non aveva avuto il tempo di scoprire cosa fosse quel liquido bianco simile al latte e dall'odore di condimento per insalata. Il lungo sentiero era coperto di una muffa scivolosa dove brulicavano centinaia di minuscole creature, larve, insetti, vermi ed enormi rospi azzurrognoli, dalla pelle così trasparente che si vedevano palpitare gli organi interni. Le loro lingue, lunghe come quelle dei serpenti, cercavano di raggiungere le sue gambe. Alex sentiva la mancanza degli stivali perché doveva calpestarli a piedi nudi e i loro corpi molli e freddi come gelatina erano terribilmente ripugnanti. Dopo duecento metri il tappeto di muffa e i rospi sparirono e il sentiero si fece più largo. Sollevato, si guardò intorno e per la prima volta vide che le pareti erano ricoperte di bellissimi colori. Osservandole da vicino si accorse che erano pietre preziose e filoni di metalli altrettanto pregiati. Con il coltellino svizzero raschiò la roccia e constatò che le pietre si staccavano facilmente. Cos'erano? Riconobbe alcuni colori, il verde intenso degli smeraldi e il rosso puro dei rubini. Era circondato da un tesoro incredibile: quello era il vero El Dorado, bramato dagli avventurieri per secoli.

Bastava intagliare la roccia con il coltellino per raccogliere una fortuna. Se riempiva la zucca che gli aveva dato Walimai con quelle pietre preziose, sarebbe tornato in California miliardario, avrebbe potuto pagare le migliori cure per sua madre, regalare una casa nuova ai genitori e pensare all'istruzione delle sorelle. E per sé? Si sarebbe comprato un'auto da corsa per far crepare d'invidia gli amici e lasciare di stucco Cecilia Burns. Quei gioielli rappresentavano la soluzione della sua vita: avrebbe potuto dedicarsi alla musica, alle scalate o a qualsiasi altra cosa, senza doversi preoccupare di guadagnarsi da vivere... No! Ma a che cosa stava pensando? Quelle pietre non erano solo sue, dovevano servire per aiutare gli indios. Con quella favolosa ricchezza avrebbe acquisito il potere per portare a termine la missione affidatagli da Iyomi: negoziare con i nahab. Sarebbe diventato il protettore della tribù, dei boschi e delle cascate; grazie alla penna della nonna e al denaro ricavato dalle pietre avrebbero trasformato l'Occhio del Mondo nella riserva naturale più grande della Terra. In poche ore poteva riempire la zucca e cambiare il destino del Popolo della Nebbia e della sua famiglia.

Il ragazzo iniziò a grattare con la punta del coltello intorno a una pietra verde, facendo saltar via pezzetti di roccia. Dopo alcuni minuti riuscì a staccarla e quando l'ebbe tra le dita poté osservarla bene. Non aveva lo splendore di uno smeraldo levigato, come quello degli aneli, ma il colore era senza dubbio lo stesso. Stava per riporla nella zucca, quando ricordò che l'obiettivo della sua missione nelle viscere della Terra era riempire la zucca con l'acqua della vita. No. Non sarebbero stati i gioielli a restituire la salute a sua madre; occorreva qualcosa di magico. Sospirando, si infilò la pietra verde nella tasca dei pantaloni e proseguì, preoccupato perché aveva perso minuti preziosi e non sapeva neanche quanto ancora gli mancava per raggiungere la fonte meravigliosa.

All'improvviso il sentiero finì davanti a un cumulo di pietre. Alex lo ispezionò con le mani, certo che dovesse esserci il modo di andare oltre; non era possibile che il suo viaggio terminasse così di colpo. Se Walimai lo aveva spedito in quel buco infernale sotto la montagna, era perché la fonte esisteva e si trattava solo di trovarla; ma forse aveva sbagliato strada, non aveva scelto la direzione giusta a qualche biforcazione. Forse avrebbe dovuto attraversare il lago di latte, la ragazza non era affatto una tentazione che voleva distoglierlo dal suo compito, bensì la guida per arrivare all'acqua della vita... I dubbi cominciarono a rimbombargli a tutto volume nel cervello. Portò le mani alle tempie cercando di calmarsi, rifece la respirazione profonda praticata nel tunnel e ascoltò la voce lontana del padre che lo guidava. "Devo mettermi al centro di me stesso, là dove ci sono la pace e la forza" mormorò. Decise di non sprecare altra energia a ripensare agli eventuali errori commessi e si concentrò sull'ostacolo che aveva davanti. Durante l'inverno dell'anno prima, sua madre gli aveva chiesto di spostare un enorme fascio di legna dal giardino al fondo del garage. Quando le aveva risposto che nemmeno Ercole sarebbe stato capace di farlo, la mamma gli aveva mostrato la soluzione: un pezzo alla volta.

Alex cominciò a levare le pietre, prima i ciottoli, poi i sassi più grandi, che venivano via facilmente, e infine i macigni. Fu un lavoro lento e faticoso, ma dopo un po' aveva liberato uno stretto passaggio. Come se avesse aperto lo sportello di un forno, una vampata di vapore bollente lo investì in pieno viso e lo fece retrocedere. Aspettò, senza sapere cosa fare, mentre il getto d'aria continuava a uscire. Non sapeva nulla di tecniche estrattive, ma aveva letto che nelle miniere ci sono spesso fughe di gas e, se questo era uno di quei casi, era spacciato. Ma poco alla volta il flusso diminuì, come se fosse stato in pressione, e poi smise. Attese qualche istante, poi avvicinò la testa al buco.

Dall'altra parte vide una caverna con un pozzo, dal cui centro fuoriuscivano nuvole di fumo e una luce rossastra. Si sentivano deboli esplosioni, come se sotto ribollisse qualche sostanza densa che scoppiettava. Non ebbe bisogno di avvicinarsi per indovinare che doveva trattarsi di lava incandescente, forse gli ultimi spasimi di un vulcano antichissimo. Si trovava nel cuore del cratere. Prese in considerazione l'ipotesi che i vapori fossero tossici ma, siccome non puzzavano, decise di entrare nella caverna. Infilò tutto il corpo nell'apertura e, quando fu dall'altra parte, sentì che il suolo era di pietra bollente. Arrischiò un passo e poi un altro, intenzionato a esplorare l'ambiente. Faceva più caldo che in una sauna e nel giro di qualche istante si ritrovò fradicio di sudore. Per fortuna non mancava l'aria. Si tolse la maglietta e se la legò intorno al naso e alla bocca. Gli lacrimavano gli occhi. Capì che doveva procedere con grande prudenza per non scivolare nel pozzo.

La caverna era ampia e di forma irregolare, illuminata dalla luce rossastra e tremolante del fuoco che scoppiettava in basso. Sulla destra si apriva un'altra cavità, che il ragazzo esplorò scoprendo che era più buia perché la luce vi arrivava appena. La temperatura qui era più sopportabile, forse entrava aria fresca da qualche fessura. Alex era al limite della resistenza: madido di sudore e assetato, era convinto che la sua debolezza gli avrebbe impedito di percorrere il lungo cammino di ritorno. Dov'era la fonte che cercava?

In quel momento sentì una forte brezza seguita da un'improvvisa e spaventosa vibrazione che rimbombò nei suoi nervi, come se si fosse trovato dentro un enorme tamburo metallico. Istintivamente si tappò le orecchie, ma non era rumore, bensì un'energia insopportabile, dalla quale era impossibile difendersi. Si girò per scoprirne l'origine e la trovò. Davanti a lui campeggiava un pipistrello gigantesco, le cui ali aperte dovevano misurare circa cinque metri. Il corpo di topo era due volte quello di Poncho e la grossa testa aveva fauci provviste di lunghe zanne. Non era nero, ma completamente bianco, un pipistrello albino.

Terrorizzato, Alex comprese che l'animale, come le Bestie, era l'ultimo sopravvissuto di un'età antichissima, del tempo in cui i primi esseri umani avevano alzato la fronte da terra per guardare impauriti le stelle, migliaia e migliaia di anni prima. La cecità del pipistrello non era un vantaggio per il ragazzo, perché la sua presenza era stata avvertita dal sonar: il pipistrello sapeva esattamente come e dove era l'intruso. Ci fu un'altra raffica di vento: erano le ali che si agitavano, pronte all'attacco. Era quello il Rahakanariwa degli indios, il terribile uccello cannibale?

La sua mente prese il volo. Sapeva che le possibilità di fuga erano praticamente nulle, visto che non poteva certo tornare nell'altra cavità e mettersi a correre su quel terreno traditore senza rischiare di cadere nel pozzo di lava. Senza pensarci portò la mano alla cintola per prendere il suo coltellino svizzero, sebbene si rendesse conto che era un'arma ridicola rispetto alle dimensioni del nemico. Le dita inciamparono nel flauto appeso accanto al coltellino e senza pensarci due volte lo staccò e lo avvicinò alle labbra. Riuscì a mormorare il nome del nonno Joseph e a chiedergli aiuto in quel momento di estremo pericolo. Poi cominciò a suonare.

Le prime note risuonarono cristalline, fresche e pure in quell'ambiente malefico. L'enorme pipistrello, sensibilissimo ai suoni, raccolse le ali e parve ridursi di grandezza. Forse perché era vissuto per molti secoli nella solitudine e nel silenzio di quel mondo sotterraneo, le note ebbero l'effetto di un'esplosione nel suo cervello che si sentì assalito da milioni di dardi pungenti. Lanciò un altro grido impercettibile all'udito umano, un urlo di dolore la cui vibrazione si confuse con la musica di cui il pipistrello, sconcertato, non riuscì a individuare la fonte.

Mentre Alex suonava il flauto, l'enorme pipistrello bianco indietreggiò a poco a poco, fino a restare immobile in un angolo, come un orso bianco alato, le zanne e gli artigli ben in vista, ma paralizzato. Una volta di più il ragazzo si meravigliò del potere di quel flauto che lo aveva accompagnato in ogni momento cruciale della sua avventura. Quando l'animale si mosse, Alex intravide un sottile filo d'acqua scorrere lungo la parete della caverna e capì di essere giunto alla fine del viaggio: si trovava finalmente davanti alla fonte dell'acqua della vita. Non era l'abbondante sorgente in mezzo a un giardino descritta dalla leggenda. Si trattava di poche gocce che accarezzavano umili la roccia viva.

Continuando a suonare, Alexander avanzò con cautela, un passo per volta, verso il mostruoso pipistrello e cercò di pensare con il cuore e non con la testa. Era un'esperienza così straordinaria che non poteva contare solo sulla razionalità o sulla logica, era giunto il momento di ricorrere alla risorsa necessaria nelle scalate e nella creazione musicale: l'intuizione. Provò a immaginare lo stato emotivo dell'animale e decise che doveva essere terrorizzato almeno quanto lui. Per la prima volta si trovava di fronte a un essere umano, non aveva mai sentito un suono come quello del flauto e il rumore doveva risultargli assordante, ecco perché sembrava ipnotizzato. Ricordò che doveva raccogliere un po' d'acqua nella zucca e rientrare prima di notte. Era impossibile calcolare da quante ore si trovasse nel mondo sotterraneo, ma l'unica cosa che desiderava era uscirne al più presto.

Suonando un'unica nota con una mano, allungò l'altra verso la fonte e quasi sfiorò il pipistrello ma, non appena le prime gocce si furono depositate nella zucca, l'acqua del rigagnolo diminuì fino a sparire completamente. La frustrazione di Alex fu così grande che ebbe la tentazione di prendere a pugni la roccia. Lo fermò unicamente la presenza dell'orrendo animale che si ergeva accanto a lui come una sentinella.

Era sul punto di tornare indietro quando gli vennero in mente le parole di Walimai sull'ineluttabile legge della natura: dare tanto quanto si riceve. Passò in rassegna i suoi miseri averi: la bussola, il coltellino svizzero e il flauto. I primi due poteva senz'altro offrirli, dato che non gli sarebbero serviti a molto, ma non poteva separarsi dal suo flauto magico, eredità del nonno e suo strumento di potere. Senza di lui era perso. Depositò bussola e coltellino al suolo e attese. Nulla. Nemmeno una goccia fece la sua comparsa sulla roccia.

Allora capì che l'acqua della vita era il tesoro più grande del mondo, l'unico in grado di salvare sua madre. In cambio doveva lasciare il suo oggetto più prezioso. Appoggiò il flauto per terra mentre le ultime note riecheggiavano contro le pareti della caverna. E subito il debole gocciolio riprese. I minuti necessari a riempire la zucca furono eterni e Alex non perse mai di vista il pipistrello, minaccioso lì accanto. Era così vicino che il ragazzo poteva sentire il suo odore di morte, contargli i denti e provare una compassione infinita per la solitudine assoluta che lo avvolgeva, tuttavia non permise che nulla di tutto ciò lo distraesse dal suo compito. Quando la zucca fu colma, il giovane arretrò lentamente per non provocare il mostro. Uscì dalla caverna, entrò nell'altra, nella quale si udiva il brontolio della lava che ribolliva nelle viscere della Terra, e infine strisciò attraverso lo stretto passaggio. Pensò di rimettere a posto le pietre per chiudere il buco, ma non aveva tempo e immaginò che il pipistrello fosse comunque troppo grande per riuscire a inseguirlo.

Il ritorno fu più veloce perché conosceva già il cammino. Non ebbe la tentazione di raccogliere le pietre preziose e, quando passò per il laghetto di latte dove lo attendeva il miraggio di Cecilia Burns, Alex si tappò il naso per difendersi dal gas profumato che indeboliva la mente e proseguì. La cosa più difficile fu entrare di nuovo nella stretta galleria tenendo in verticale la zucca per non rovesciarne il contenuto. Aveva un coperchio, un pezzo di pelle legato a una corda, ma non era una chiusura ermetica e il ragazzo non voleva perdere nemmeno una goccia della meravigliosa acqua della vita. Questa volta la galleria, benché opprimente e tenebrosa, non gli sembrò così orribile: sapeva che in fondo c'erano la luce e l'aria.

Il materasso di nuvole sopra la bocca del tepui, illuminato dagli ultimi raggi di sole, aveva tutte le sfumature del rosso, dal ruggine al dorato. Le sei lune stavano per tramontare nello strano firmamento del tepui, quando Nadia e Alexander fecero ritorno. Walimai e Borobá li aspettavano nell'anfiteatro della città d'oro, di fronte al consiglio delle Bestie. Quando la scimmietta vide la padroncina le corse incontro, sollevata, e le saltò al collo. I ragazzi erano esausti, pieni di graffiature e lividi, ma tutti e due avevano in mano il tesoro che erano andati a cercare. L'anziano stregone non parve sorpreso, li ricevette con la stessa serenità con cui compiva ogni gesto e disse loro che bisognava partire. Non c'era tempo per riposare, dovevano attraversare il labirinto durante la notte per tornare all'Occhio del Mondo.

"Ho dovuto lasciare il mio talismano" raccontò Nadia scoraggiata all'amico.

"E io il flauto" replicò lui.

"Ne potrai avere un altro. Sei tu che produci musica, non lo strumento" disse la ragazza.

"Anche i poteri del talismano sono dentro di te" la consolò.

Walimai esaminò attentamente le tre uova, annusò l'acqua della zucca e fece un solenne cenno di approvazione. Staccò uno dei sacchetti di pelle appesi al suo bastone da guaritore e disse ad Alex che per curare la madre doveva macinare quelle foglie e mescolarle con l'acqua magica. Il ragazzo, con le lacrime agli occhi, si legò il sacchettino al collo. Walimai gli agitò il cilindro di quarzo sulla testa per qualche minuto, poi gli soffiò sul petto, sulle tempie e sulla schiena, e con il bastone gli toccò le braccia e le gambe.

"Se tu non fossi un nahab, saresti il mio successore, sei nato con l'anima dello sciamano. Hai il dono di guarire, fanne buon uso" gli raccomandò.

"Vuol dire che posso curare mia mamma con quest'acqua e queste foglie?"

"Forse sì, forse no..."

Alex si rendeva conto che le sue illusioni erano prive di fondamento logico, doveva avere fiducia nelle cure all'avanguardia dell'ospedale texano e non certo in una zucca con acqua mischiata a foglie secche offerte da un vecchio senza vestiti nel bel mezzo dell'Amazzonia, ma in quel viaggio aveva imparato ad aprire la mente ai misteri. I poteri soprannaturali e altre dimensioni del reale esistevano davvero, esattamente come quel tepui popolato da creature di epoche preistoriche. Certo, quasi tutto poteva essere spiegato con la ragione, Bestie comprese, ma Alex preferiva affidarsi alla speranza di un miracolo.

Il consiglio degli dèi aveva deciso di accettare le raccomandazioni dei giovani forestieri e del saggio Walimai. Le Bestie non sarebbero uscite di lì per uccidere i nahab, sarebbe stata un'impresa inutile, visto che erano numerosi come le formiche e ne sarebbero arrivati altri. Non avrebbero dunque abbandonato la montagna sacra, dove erano al sicuro, almeno per il momento.

Nadia e Alex si accomiatarono a malincuore dai grandi bradipi. Nel migliore dei casi, se tutto andava bene, nessuno avrebbe scoperto l'entrata del labirinto sotto il tepui e gli elicotteri non sarebbero calati dal cielo. Con un po' di fortuna, la curiosità umana non sarebbe arrivata nell'ultimo rifugio della preistoria prima di altri cent'anni. In caso contrario, confidavano che almeno la comunità scientifica avrebbe difeso quelle creature straordinarie dall'avidità distruttrice degli avventurieri. Loro, comunque, non avrebbero mai più rivisto le Bestie.

Mentre scendeva la notte, risalirono la scalinata che portava al labirinto, illuminati dalla torcia di Walimai. Sotto la guida esperta dello sciamano, ripercorsero il groviglio di gallerie senza esitazioni. Dato che lo stregone aveva la mappa stampata in mente, non finirono mai in un vicolo cieco, né furono mai costretti a tornare sui propri passi. Alex rinunciò all'idea di memorizzare il contorto percorso perché, anche se avesse avuto modo di tenerlo a mente o di annotarlo su un pezzo di carta, gli sarebbero comunque mancati i punti di riferimento necessari per orientarsi.

Giunsero alla bellissima caverna dove avevano visto il primo dragone e nuovamente poterono ammirare i colori delle pietre, i cristalli e i metalli che luccicavano intorno. Era una vera caverna di Alì Babà, piena di tutti i favolosi tesori che una mente avida potesse desiderare. Alex si ricordò della pietra che si era infilato in tasca e la tirò fuori per metterla a confronto. Nel bagliore incerto e pallido della caverna non era più verde, ma giallognola e il ragazzo capì che il colore di tali gemme era prodotto dalla luce e che verosimilmente il loro valore non superava quello della mica di El Dorado. Aveva fatto bene a rinunciare al proposito di riempire la zucca con le pietre invece che con l'acqua della vita. Conservò lo smeraldo finto come ricordo: lo avrebbe regalato a sua madre.

Il dragone alato stava nel suo angolo, come la prima volta, ma adesso era in compagnia di un dragone più piccolo, forse la sua compagna. All'arrivo dei tre esseri umani rimasero impassibili e non si mossero nemmeno quando la sposa-angelo di Walimai volò a salutarli, fluttuando intorno a loro come una fata senz'ali.

Anche in quest'occasione, esattamente come gli era accaduto durante il suo pellegrinaggio nelle viscere della Terra, ad Alex parve che il ritorno fosse più breve e semplice dell'andata, perché conosceva la strada e non temeva sorprese. Che in effetti non si presentarono, tant'è che dopo aver percorso l'ultimo corridoio si ritrovarono nella grotta a pochi metri dall'uscita. Walimai fece loro cenno di sedersi, aprì uno dei suoi misteriosi sacchetti e ne estrasse alcune foglie che sembravano di tabacco. Con poche parole spiegò che dovevano "purificarsi" e cancellare il ricordo di ciò che avevano visto. Alex non voleva dimenticare le Bestie né il suo viaggio nelle profondità della Terra e nemmeno Nadia desiderava rinunciare a quanto aveva imparato, ma Walimai li tranquillizzò: avrebbero ricordato tutto, tranne la strada percorsa per raggiungere la montagna sacra.

Lo stregone arrotolò le foglie, le incollò con la saliva, le accese come una sigaretta e si mise a fumare. Dopo aver inalato, soffiò con forza il fumo nella bocca dei ragazzi, prima ad Alex e poi a Nadia. Non fu un'esperienza gradevole: il fumo, puzzolente, caldo e irritante, andava dritto al cervello come se stessero aspirando del peperoncino. Sentirono una fitta terribile alla testa, un impulso incontrollabile a starnutire e ben presto ebbero la nausea. Ad Alex venne in mente la sua prima esperienza con il tabacco, quando la nonna si era chiusa con lui in macchina a fumare finché era stato male. I sintomi attuali erano simili e per di più tutto gli girava intorno.

Alla fine Walimai spense la torcia. La grotta non riceveva il debole raggio di luce che la illuminava nei giorni precedenti e il buio era totale. I ragazzi si presero per mano, mentre Borobá gemeva impaurita, sempre incollata al fianco della padroncina. Alex e Nadia, circondati dalle tenebre, percepivano la presenza di mostri minacciosi e udivano strilli spaventosi, ma non avevano paura. Con la poca lucidità rimasta, dedussero che le visioni terrificanti fossero effetto del fumo inalato e che, finché l'amico stregone fosse rimasto con loro, non correvano alcun pericolo. Si distesero a terra abbracciati e persero conoscenza nel giro di qualche minuto.

Non riuscirono a calcolare per quanto tempo rimasero addormentati. Quando si svegliarono, sentirono la voce di Walimai che li chiamava e le sue mani che li cercavano nel buio. La grotta non era più immersa nell'oscurità, una debole penombra consentiva di scorgere vaghi contorni. Lo sciamano indicò lo stretto passaggio dal quale raggiungere l'esterno e i ragazzi, ancora leggermente nauseati, lo seguirono. E si ritrovarono nel bosco di felci. Nell'Occhio del Mondo era già mattina.