8.
LA SPEDIZIONE

Di nuovo, il gruppo stava risalendo il fiume. Questa volta erano in tredici adulti e due ragazzi, distribuiti su due lance a motore che Carías aveva messo a disposizione del professor Leblanc.

Alex attese il momento giusto per prendere da parte la nonna e raccontarle della conversazione misteriosa tra Mauro Carías e il capitano Ariosto che Nadia gli aveva tradotto. Kate ascoltò con attenzione e non mostrò alcun segno di incredulità, come aveva temuto il nipote, anzi, era interessatissima.

"Carías non mi piace. Con quale piano intende sterminare gli indios?" chiese.

"Non lo so."

"L'unica, per adesso, è aspettare e stare con gli occhi aperti" decise la giornalista.

"Nadia ha detto lo stesso."

"Quella ragazzina dovrebbe essere mia nipote, Alexander."

Il viaggio sul fiume era simile a quello intrapreso da Manaus a Santa María de la Lluvia, ma il paesaggio era cambiato. Ormai Alex aveva deciso di fare come Nadia: invece di ingaggiare una lotta contro le zanzare inzuppandosi di insetticida, lasciava che lo pungessero, vincendo la tentazione di grattarsi. Si tolse anche gli stivali quando constatò che erano sempre bagnati e che le sanguisughe lo attaccavano comunque. La prima volta non se n'era reso conto finché sua nonna non gli aveva indicato i piedi: aveva i calzini insanguinati. Se li era tolti e aveva visto quelle bestie schifose appiccicate alla pelle, gonfie di sangue.

"Non ti fanno male perché iniettano un anestetico prima di succhiare il sangue" aveva spiegato César.

Poi gli aveva insegnato a staccare le sanguisughe bruciandole con una sigaretta, per evitare che i denti restassero incastrati sotto pelle provocando un'infezione. Non era un metodo semplicissimo per Alex, visto che non fumava, ma aveva scoperto che un po' di tabacco caldo della pipa di sua nonna sortiva lo stesso effetto. Era più facile farle fuori che vivere nell'angoscia di evitarle.

Fin dall'inizio, Alex ebbe l'impressione che tra gli adulti della spedizione la tensione fosse palpabile: nessuno si fidava di nessuno. E non riusciva nemmeno a liberarsi della sensazione di essere spiato, che mille occhi stessero osservando tutti i movimenti delle lance. Spesso si guardava alle spalle, ma sul fiume non c'era anima viva.

I cinque soldati erano caboclo, originari della regione; Matuwe, la guida assunta da César, era indigeno e avrebbe fatto da interprete con le tribù. L'altro indio era Karakawe, l'assistente di Leblanc. Stando alla dottoressa Torres, Karakawe non si comportava più come gli altri indios e con ogni probabilità non sarebbe mai più stato in grado di vivere con la sua tribù.

Gli indios avevano tutto in comune, tranne qualche arma o qualche arnese rudimentale che ognuno poteva portarsi appresso. Ogni tribù aveva uno shabono, un'enorme capanna comune dalla forma circolare e dal tetto di paglia, che dava su uno spiazzo interno. Vivevano tutti insieme, condividendo ogni momento della giornata, dai pasti all'educazione dei piccoli. Il contatto con gli stranieri stava però sterminando le tribù: gli indios venivano contagiati dalle malattie del corpo, ma soprattutto da quelle dell'anima. Non appena venivano a contatto con un machete, un coltello o qualsiasi altro attrezzo metallico, la loro vita cambiava per sempre. Con un solo machete potevano moltiplicare per mille la produzione dei piccoli orti coltivati a manioca e mais. Con un coltello in mano, qualsiasi guerriero si sentiva un dio. Gli indios provavano nei confronti dell'acciaio la stessa ossessione che gli stranieri avevano per l'oro. Karakawe aveva superato la fase del machete ed era nel pieno di quella delle armi da fuoco e, infatti, non si separava mai dalla sua vecchissima pistola. Chi, come lui, pensava più a se stesso che alla comunità, non aveva posto nella tribù. L'individualismo era visto come una forma di follia, come l'essere posseduti da uno spirito maligno.

Karakawe era un uomo cupo e silenzioso, rispondeva con una o due parole solo quando gli veniva posta una domanda a cui non poteva sfuggire; non era a suo agio né con gli stranieri, né con i caboclo e tanto meno con gli indios. Serviva il professor Leblanc di malavoglia e, quando doveva rivolgersi all'antropologo, nei suoi occhi si vedeva brillare odio puro. Non mangiava con gli altri, non toccava una goccia di alcol e si separava dal gruppo quando si accampavano per dormire. Nadia e Alex una volta lo sorpresero a frugare tra le cose della dottoressa Torres.

"Una tarantola" fu la sua spiegazione.

I ragazzi decisero di tenerlo sotto controllo.

A mano a mano che il viaggio proseguiva, la navigazione si faceva più difficoltosa poiché il fiume si restringeva, formando rapide che rischiavano di capovolgere le lance. In altri tratti, invece, l'acqua sembrava stagnante e i cadaveri di animali che galleggiavano insieme a tronchi marci e rami impedivano il passaggio delle imbarcazioni. Dovevano spegnere i motori e proseguire a remi, usando delle pertiche di bambù per rimuovere gli ostacoli. Spesso, in realtà, si trattava di caimani, che visti dall'alto sembravano tronchi. César spiegò che quando l'acqua era bassa spuntavano i giaguari e quando era alta arrivavano i serpenti. Videro due tartarughe gigantesche e un'anguilla di un metro e mezzo che, secondo César, attaccava con una forte scarica elettrica. La vegetazione era fitta ed emanava un odore di materia organica in decomposizione, ma a volte, quando scendeva la notte, si schiudevano dei grandi fiori intrecciati sulle chiome degli alberi e allora l'aria si riempiva di un profumo dolce di vaniglia e miele. Gli aironi bianchi li osservavano, immobili, dall'erba alta ai bordi del fiume e moltissime farfalle dai colori brillanti li accompagnavano ovunque.

César fermava le lance ogni volta che incontravano alberi i cui rami si curvavano sull'acqua e bastava solo allungare la mano per raccoglierne i frutti. Alex non li aveva mai visti e non volle assaggiarli, mentre i compagni li assaporavano con gusto. Una volta, la guida volle fare una deviazione per raccogliere una pianta che, spiegò, era un cicatrizzante efficacissimo. La dottoressa Torres era d'accordo e raccomandò ad Alex di strofinare il succo della pianta sulla cicatrice della mano, anche se non era più necessario visto che ormai era perfettamente guarita. Rimaneva solo un segno rosso che non gli dava alcun fastidio.

Kate raccontò che in quella regione molti uomini avevano cercato la mitica città di El Dorado, dove la leggenda narra che le strade fossero d'oro e i bambini giocassero con pietre preziose. Molti avventurieri si erano addentrati nella foresta e avevano risalito il Rio delle Amazzoni e l'Orinoco, senza mai raggiungere il cuore di quella zona incantata, dove il mondo era ancora innocente, come al risveglio della vita umana sul pianeta. Erano morti o erano tornati indietro, sconfitti dagli indios, dalle zanzare, dalle malattie tropicali, dal clima e dalle asperità del terreno.

Erano ormai in territorio venezuelano, ma lì le frontiere non avevano alcun senso, era tutto un unico paradiso preistorico. Rispetto al Rio Negro, le acque di quei fiumi erano solitarie. Non incontrarono altre imbarcazioni, non videro canoe, né palafitte né un solo essere umano. In compenso, la flora e la fauna erano meravigliose e i fotografi erano fuori di sé dalla gioia: non avevano mai avuto a portata di obiettivo tante specie di alberi, piante, fiori, insetti, uccelli e altri animali. Videro pappagalli verdi e rossi, eleganti fenicotteri, tucani dal becco così grande e pesante che il loro fragile cranio riusciva a stento a sostenere, centinaia di canarini e cocorite. Molti di questi uccelli erano a rischio di estinzione, perché i trafficanti li cacciavano senza pietà per venderli di contrabbando in altri paesi. Le scimmie di diverse specie, quasi umane nelle loro espressioni e nei loro giochi, sembravano salutarli dagli alberi. Videro cervi, formichieri, scoiattoli e altri piccoli mammiferi. Numerose splendide are, chiamate guacamayas, li seguirono per lunghi tratti. Erano grandi uccelli multicolori che volavano con incredibile eleganza sopra le lance, come se fossero incuriositi dalle strane creature a bordo. Il professor Leblanc prese la mira e sparò, ma César riuscì a dargli un colpo secco al braccio, deviando il tiro. L'esplosione spaventò le scimmie e gli uccelli e il cielo si riempì di ali, ma poco dopo i pappagalli tornarono, imperturbabili.

"Non si mangiano, professore, la loro carne è amara. Non c'è motivo di ucciderli" lo rimproverò César.

"Mi piacciono le piume" disse Leblanc, seccato per l'intervento della guida.

"Se le compri a Manaus" replicò duro César.

"Le are si possono addomesticare. Mia madre ne ha una nella nostra casa di Boa Vista. L'accompagna dappertutto, volando sempre due metri sopra la sua testa. Quando mia madre va al mercato, l'ara segue l'autobus fino a quando lei scende, l'aspetta su un albero mentre fa la spesa e poi torna indietro con lei, come un cagnolino" raccontò la dottoressa Torres.

Alex constatò una volta di più che la musica del suo flauto aveva effetto sulle scimmie e sugli uccelli. Borobá pareva particolarmente attratta dal flauto. Quando lui suonava, la scimmietta restava ad ascoltare immobile, con un'espressione solenne e curiosa; a volte gli andava in braccio e strattonava lo strumento, reclamando musica. Alex l'accontentava, compiaciuto di disporre di un pubblico così interessato, dopo anni di lotta con le sorelle per poter suonare il flauto in santa pace. I membri della spedizione si sentivano confortati dalla musica, che li accompagnava via via che il paesaggio diventava più ostile e misterioso. Il ragazzo suonava senza sforzo, le note fluivano spontaneamente, quasi che il fragile strumento serbasse il ricordo dell'impeccabile maestria del proprietario precedente, il celebre Joseph Cold.

La sensazione di essere seguiti si era ormai impossessata di tutti. Senza confessarselo, poiché ciò che non si nomina è come se non esistesse, sorvegliavano la natura. Il professor Leblanc passava le giornate osservando le rive del fiume con il binocolo; la tensione lo aveva reso ancor più sgradevole. Gli unici a non esser stati contagiati dal nervosismo collettivo erano Kate e l'inglese Timothy Bruce. I due avevano già lavorato insieme in molte occasioni, avevano girato mezzo mondo per i loro reportage di viaggio, si erano ritrovati in mezzo a varie guerre e rivoluzioni, avevano scalato montagne ed erano scesi negli abissi marini: ben poche cose avrebbero potuto turbare il loro sonno. Inoltre amavano ostentare indifferenza.

"Non ti sembra che siamo sorvegliati, Kate?" domandò Alex.

"Sì."

"Non hai paura?"

"Ci sono molti modi di superare la paura, Alexander. Tutti inutili" gli rispose lei.

Aveva appena pronunciato queste parole, quando uno dei soldati a bordo della lancia cadde a terra ai suoi piedi senza emettere nemmeno un grido.

Kate si chinò sull'uomo, senza capire lì per lì che cosa fosse successo, finché vide una specie di lunga spina conficcata nel petto. Capì che era morto all'istante: la spina era passata esattamente tra le costole e gli aveva trafitto il cuore. Alex e Kate diedero l'allarme a tutto l'equipaggio che non si era accorto di nulla, tanto silenzioso era stato l'attacco. Un attimo dopo, mezza dozzina di pistole fecero fuoco contro la boscaglia. Quando sparirono il fragore, la polvere e il nugolo in fuga degli uccelli, che avevano coperto il cielo, videro che tutto nella foresta era rimasto immobile. Chi aveva tirato il dardo mortale era ancora nascosto, acquattato e silenzioso. Con uno strappo, César estrasse la freccia dal cadavere: era lunga circa un piede, rigida come l'acciaio.

La guida diede ordine di proseguire a tutta velocità, perché in quel tratto il fiume era stretto e le imbarcazioni sarebbero state un facile bersaglio per gli aggressori. Non si fermarono che due ore dopo, quando egli ritenne cessato il pericolo. A quel punto poterono esaminare il dardo, decorato con strani segni rossi e neri, che nessuno era in grado di decifrare. Karakawe e Matuwe giurarono che non li avevano mai visti e che non appartenevano alle loro tribù o ad altre che conoscevano, ma affermarono che tutti gli indios della regione usavano la cerbottana. La dottoressa Torres spiegò che, se la freccia non avesse raggiunto il cuore dell'uomo con quella precisione stupefacente, ne avrebbe comunque provocato il decesso nel giro di pochi minuti; sarebbe stata una morte più dolorosa, perché la punta era impregnata di curaro, un veleno mortale usato dagli indios per la caccia e la guerra e contro il quale non esisteva alcun antidoto.

"È inammissibile! La freccia avrebbe potuto colpire me!" protestò Leblanc.

"Ovvio" ammise César.

"È tutta colpa sua!" aggiunse il professore.

"Mia?" ripeté César, confuso dalla piega assurda che stava prendendo la faccenda.

"Lei è la guida! È responsabile della nostra sicurezza, la paghiamo per questo!"

"La nostra non è esattamente una gita turistica, professore" ribatté César.

"Invertiamo la rotta e torniamo indietro all'istante. Si rende conto di che perdita sarebbe per il mondo delle scienze se succedesse qualche cosa a Ludovic Leblanc?" domandò il professore.

Sconcertati, i membri della spedizione restarono in silenzio. Nessuno sapeva cosa dire, finché intervenne Kate.

"Mi è stato commissionato un articolo sulla Bestia e intendo scriverlo, con o senza frecce avvelenate, professore. Se lei desidera tornare indietro, può farlo a piedi o a nuoto, come preferisce. Noi continueremo, come stabilito" affermò.

"Vecchia insolente, come osa...?!" si mise a urlare il professore.

"Non mi manchi di rispetto, omuncolo" lo interruppe la giornalista con freddezza, afferrandolo per la camicia e immobilizzandolo con lo sguardo dei suoi feroci occhi azzurri.

Alex immaginò che l'antropologo avrebbe mollato uno schiaffo alla nonna e si avvicinò per difenderla, ma non fu necessario. Come per magia, lo sguardo di Kate riuscì a calmare i bollenti spiriti dell'irascibile Leblanc.

"Cosa facciamo del corpo di questo poveretto?" domandò la dottoressa, indicando il cadavere.

"Non possiamo portarcelo dietro, Omayra, sai che con questo clima la decomposizione è rapidissima. Credo che l'unica sia buttarlo nel fiume..." suggerì César.

"Il suo spirito si arrabbierebbe e ci inseguirebbe per ucciderci" intervenne Matuwe, atterrito.

"Allora faremo come gli indios, quando sono costretti a rimandare una cremazione: lo esporremo in modo che gli uccelli e gli altri animali possano approfittare dei suoi resti" decise César.

"Senza una cerimonia come si deve?" insistette Matuwe.

"Non ne abbiamo il tempo. Un funerale adeguato durerebbe alcuni giorni. Oltretutto quest'uomo era cristiano" spiegò César.

Alla fine decisero di avvolgerlo in un telo e di collocarlo su una piccola piattaforma di cortecce che appesero a un albero. Kate, che non era religiosa ma aveva buona memoria e ricordava le preghiere della sua infanzia, improvvisò un breve rito cristiano. Timothy Bruce e Joel González filmarono e fotografarono il corpo e il funerale, a testimonianza degli eventi. César intagliò delle croci sugli alberi della riva e indicò con la maggior precisione possibile il punto sulla cartina, in modo da riconoscerlo al ritorno e poter cercare le ossa da consegnare alla famiglia del defunto, a Santa María de la Lluvia.

A partire da quel momento il viaggio andò di male in peggio. La vegetazione diventava sempre più folta e la luce del sole li raggiungeva solo se navigavano nel centro del fiume. Erano così pigiati e scomodi che non riuscivano a dormire sulle barche e quindi, nonostante il pericolo rappresentato dagli indios e dagli animali selvatici, era necessario accamparsi sulla riva. César distribuiva i viveri, organizzava le partite di caccia e di pesca e stabiliva i turni di guardia degli uomini durante la notte. Escluse il professor Leblanc, perché era evidente che gli saltavano i nervi a ogni minimo rumore. Kate e la dottoressa Torres vollero a tutti i costi far parte dei turni di sorveglianza, perché esserne esentate in quanto donne parve loro un insulto. Allora anche i due ragazzi pretesero di venire coinvolti, se non altro perché volevano tenere sotto controllo Karakawe: lo avevano visto mettersi in tasca manciate di proiettili e girare intorno all'impianto radio grazie al quale César riusciva con gran difficoltà a mettersi in contatto con l'operatore di Santa María de la Lluvia per comunicargli la loro posizione. La cupola vegetale della foresta infatti faceva da schermo, impedendo il passaggio delle onde radio.

"Cosa sarà peggio, gli indios o la Bestia?" chiese scherzosamente Alex al professor Leblanc.

"Gli indios, ragazzo. Sono cannibali, non mangiano solo i nemici, ma pure i loro stessi morti" rispose con enfasi il professore.

"Davvero? Questa non l'avevo ancora sentita" ironizzò la dottoressa Torres.

"Legga il mio libro, signorina."

"Dottoressa" lo corresse lei per l'ennesima volta.

"Questi indios ammazzano per conquistare le donne" affermò Leblanc.

"Forse lei ucciderebbe per questo, professore, ma non lo farebbero di certo gli indios, che di donne ne hanno in abbondanza" rispose la dottoressa.

"L'ho visto con i miei occhi: assaltano altri shabono per rapire le ragazze."

"Che io sappia, non possono costringerle a rimanere con loro se non lo desiderano. Se vogliono, se ne possono andare. Quando c'è uno scontro tra due shabono è perché uno ha impiegato la magia per danneggiare l'altro, oppure per vendetta; a volte si tratta solo di rituali nei quali se le danno di santa ragione, ma senza intenzione di uccidere" si intromise César.

"Lei si sbaglia, Santos. Si guardi il documentario di Ludovic Leblanc e si convincerà della mia teoria" disse il professore sicuro.

"Probabilmente lei aveva distribuito machete e coltelli in uno shabono e aveva promesso agli indios altri regali se avessero seguito le sue istruzioni durante le riprese..." suppose la guida.

"Ma questa è una calunnia! In base alla mia teoria..."

"Sì, sì, tanti antropologi e giornalisti sono venuti in Amazzonia con le loro belle idee sugli indios. Uno di loro girò un documentario in cui mostrava che i ragazzi si vestivano da donna, si truccavano e si mettevano il deodorante" aggiunse César.

"Be', in effetti quel collega ha sempre avuto idee un po' bizzarre..." ammise il professore.

La guida insegnò ad Alex e Nadia a caricare e usare la pistola. La ragazzina non dimostrò particolare bravura o interesse; sembrava incapace di colpire un bersaglio a tre passi di distanza. Alex, invece, era entusiasta. Il peso della pistola nella mano gli comunicava una sensazione di onnipotenza; per la prima volta capiva il fanatismo di tanta gente per le armi.

"I miei genitori non sopportano le armi da fuoco. Credo che sverrebbero, se mi vedessero in questo momento" disse.

"Non ti vedranno" assicurò la nonna mentre gli scattava una fotografia.

Alex si chinò e fece finta di sparare, come quando giocava da piccolo.

"La miglior tecnica per sbagliare il tiro è puntare e sparare subito" disse Kate. "Sarà esattamente quello che farai tu se ci attaccano, Alexander, ma non preoccuparti, perché non ti vedrà nessuno. La cosa più verosimile è che poco dopo saremo già tutti morti."

"Non credi che io sappia difenderti, vero?"

"No. Ma preferisco comunque essere fatta fuori dagli indios in Amazzonia piuttosto che morire di vecchiaia a New York" rispose la nonna.

"Sei unica, Kate!" sorrise il ragazzo.

"Tutti siamo unici, Alexander" tagliò corto lei.

Il terzo giorno di viaggio scorsero una famiglia di cervi in una piccola radura accanto alla riva. Gli animali, abituati alla protezione della vegetazione, non sembravano preoccupati per la presenza delle imbarcazioni. César diede ordine di fermarsi e ne uccise uno con il fucile, mentre gli altri scappavano spaventati. Quella sera avrebbero avuto una cena di lusso; la carne di cervo, anche se un po' fibrosa, è ottima e sarebbe stata una festa variare la solita dieta a base di pesce. Matuwe aveva con sé un veleno che gli indios della sua tribù versavano nel fiume per pescare. Non appena il veleno toccava l'acqua, i pesci rimanevano paralizzati, pronti per essere trapassati con una lancia o una freccia legata a una liana. Il veleno non lasciava traccia né nella carne del pesce, né nell'acqua e gli altri pesci si riprendevano subito dopo.

Erano giunti in un'ampia ansa del fiume, un posto tranquillo, perfetto per una sosta di un paio d'ore per mangiare e riposarsi. César li avvertì di stare molto attenti, dato che l'acqua era torbida e avevano visto alcuni caimani qualche ora prima, ma tutti stavano morendo di caldo e di sete. Con le pertiche, i soldati ispezionarono l'acqua e, siccome non c'era ombra di caimani, decisero di farsi un bagno, tranne il professor Leblanc, che non entrava nel fiume per nessuna ragione. Borobá odiava fare il bagno, ma ogni tanto Nadia la costringeva a immergersi per toglierle le pulci. Appollaiata sulla testa della sua padroncina, la bestiola lanciava strilli di autentico terrore ogni volta che veniva spruzzata da una goccia. I membri della spedizione sguazzarono per un po', mentre César e due dei suoi squartavano il cervo e preparavano il fuoco per arrostirlo.

Alex vide che la nonna, senza il minimo imbarazzo, si era tolta pantaloni e camicia per nuotare in biancheria intima, che oltretutto, una volta bagnata, diventava praticamente trasparente. Cercò di non guardarla, ma si rese conto che lì, in mezzo alla natura, a mille miglia dal mondo conosciuto, la vergogna per il proprio corpo non aveva davvero senso. Era cresciuto con la madre e le sorelle, a scuola era sempre stato con le compagne, ma ultimamente tutto ciò che riguardava la sfera femminile lo affascinava come un mistero remoto e proibito. Sapeva il perché: i suoi ormoni erano impazziti e non lo lasciavano in pace. L'adolescenza era una bella grana, la peggiore di tutte, concluse il ragazzo. Avrebbero dovuto inventare una macchina a raggi laser in cui uno si infilava per un minuto e paf!, all'uscita si ritrovava già adulto. Dentro lo agitava un uragano: a volte si sentiva euforico, il re del mondo, pronto ad affrontare un leone a mani nude; mentre in altre occasioni era solo un bambinetto. Da quando era cominciato questo viaggio, però, non aveva più fatto caso agli ormoni, e non aveva nemmeno avuto il tempo di domandarsi se valeva la pena continuare a vivere, dubbio che normalmente lo assaliva almeno una volta al giorno. Ora poteva mettere a confronto il corpo di sua nonna, secco e nodoso, dalla pelle rugosa, con le forme morbide e dorate della dottoressa Torres, che indossava un discreto costume da bagno nero, e la grazia ancora infantile di Nadia. Osservò come il corpo cambia nel corso della vita e giunse alla conclusione che tutte e tre le donne erano, ciascuna a suo modo, belle. Arrossì all'idea. Due settimane prima non gli sarebbe mai venuto in mente di poter considerare attraente sua nonna. Gli ormoni gli stavano forse friggendo il cervello?

Un urlo spaventoso strappò Alex dalle sue speculazioni filosofiche. A gridare era Joel González, uno dei fotografi, che si stava dibattendo disperatamente vicino alla riva. All'inizio nessuno capì cosa stava succedendo, videro solo le braccia dell'uomo agitarsi nell'acqua e la testa che andava sotto e poi riemergeva in superficie. Alex, che faceva parte della squadra di nuoto della scuola, con due o tre bracciate fu il primo a raggiungerlo. Avvicinandosi, vide con orrore che un serpente grosso come una manichetta dei pompieri piena d'acqua si era arrotolato intorno al corpo del fotografo. Alex prese Joel per un braccio e cercò di trascinarlo fino a riva, ma l'uomo e il serpente erano troppo pesanti per lui. Con entrambe le mani provò a staccare la bestia, ma gli anelli del rettile stringevano sempre più forte la vittima. Rabbrividendo, pensò al surucucú che gli si era avvinghiato alla gamba qualche notte prima. Questo era mille volte peggio. Il fotografo non si dibatteva e non gridava più, era già incosciente.

"Papà, papà! Un anaconda!" urlò Nadia, unendo le sue grida a quelle di Alex.

A quel punto Kate, Timothy Bruce e due dei soldati erano già tutti lì a lottare con l'enorme serpente per staccarlo dal corpo del povero Joel. Nel combattimento, il fango sul fondo della laguna si era smosso e l'acqua era diventata scura e densa come cioccolata. In tutta quella confusione non si capiva cosa stesse succedendo, ognuno tirava dalla sua parte e gridava istruzioni, senza risultato. Tutto sembrava inutile, quando alla fine arrivò César armato del coltello con cui stava squartando il cervo. La guida non si arrischiò a colpire alla cieca, nel timore di ferire Joel o qualcun altro; aspettò il momento in cui la testa dell'anaconda emerse brevemente dal fango per decapitarla con un taglio netto. L'acqua si riempì di sangue, diventando color della ruggine. Ci vollero cinque minuti per liberare il fotografo perché gli anelli costrittori continuavano a tenerlo avvinghiato.

Trascinarono Joel, rigido come un morto, fino a riva. Il professor Leblanc si era agitato a tal punto che da un luogo sicuro continuò a sparare in aria, contribuendo allo scompiglio generale, fino a quando Kate non gli strappò la pistola e gli ordinò di piantarla. Mentre gli altri lottavano nell'acqua contro l'anaconda, la dottoressa Torres era tornata alla lancia per prendere la sua valigetta e ora era inginocchiata con una siringa in mano vicino all'uomo privo di sensi. Si muoveva in silenzio e con calma, come se l'attacco di un anaconda fosse la cosa più normale del mondo. Iniettò a Joel una dose di adrenalina e, assicuratasi che respirasse, cominciò a visitarlo.

"Ha diverse costole rotte ed è in stato di choc" disse. "Speriamo che i polmoni non siano stati perforati da un osso e che non abbia il collo fratturato. Bisogna immobilizzarlo."

"Come possiamo fare?" chiese César.

"Gli indios usano cortecce, fango e liane" rispose Nadia, che stava ancora tremando per lo spavento.

"Giusto" approvò la dottoressa.

La guida diede le istruzioni necessarie e nel giro di poco tempo la dottoressa, aiutata da Kate e Nadia, aveva avvolto il busto del ferito in panni imbevuti di fango e coperti da pezzi di corteccia, poi aveva legato il tutto con delle liane. Una volta seccatosi il fango, quell'impacchettamento rudimentale avrebbe svolto la stessa funzione di un busto ortopedico. Joel, intontito e dolorante, non era ancora in grado di capire l'accaduto, ma era tornato in sé e riusciva ad articolare alcune parole.

"Dobbiamo portare immediatamente Joel a Santa María de la Lluvia. Da lì potranno trasferirlo con l'aereo di Mauro Carías in un ospedale" decise la dottoressa.

"Che inconveniente disastroso! Abbiamo solo due lance. Non possiamo farne tornare indietro una" si oppose il professor Leblanc.

"Cosa? Ieri voleva una lancia per scappare e adesso non ne vuole mettere una a disposizione del mio amico gravemente ferito?" chiese Timothy Bruce trattenendo a stento l'ira.

"Senza cure adeguate, Joel rischia di morire" spiegò la dottoressa.

"Non esageri, buona donna. Quest'uomo non è grave, è soltanto spaventato. Un po' di riposo lo rimetterà in sesto nel giro di qualche giorno" assicurò Leblanc.

"Gentilissimo da parte sua, professore" sibilò Timothy Bruce stringendo i pugni.

"Ora basta, signori! Domani prenderemo una decisione. Ormai è troppo tardi per rimetterci in viaggio, presto sarà buio. Ci accampiamo qua" decise César.

La dottoressa Torres ordinò che si facesse un fuoco accanto al ferito per tenerlo al caldo e all'asciutto durante la notte, dato che la temperatura scendeva notevolmente. Per aiutarlo a sopportare il dolore, gli diede della morfina e un antibiotico per prevenire eventuali infezioni. In una bottiglia mescolò dell'acqua con un po' di sale e disse a Timothy Bruce di farla bere all'amico a cucchiaini per evitare che si disidratasse, visto che con ogni probabilità non sarebbe stato in grado di mangiare per qualche giorno. Il fotografo inglese, che difficilmente modificava la sua espressione da cavallo abulico, era davvero preoccupato e ubbidì agli ordini con una sollecitudine quasi materna. Persino l'astioso e irritabile professor Leblanc dovette ammettere tra sé e sé che la presenza della dottoressa era indispensabile in un'avventura come quella.

Nel frattempo, tre dei soldati rimasti e Karakawe avevano trascinato a riva il corpo dell'anaconda. Quando lo misurarono, videro che era lungo quasi sei metri. Il professor Leblanc volle essere fotografato con l'anaconda intorno al collo, messo in modo che non si vedesse che gli mancava la testa. Poi i soldati gli levarono la pelle, che inchiodarono a un tronco per farla seccare; grazie a questo metodo sarebbero riusciti a farla allungare del venti per cento e i turisti avrebbero pagato bene per averla. Tuttavia, non ci fu bisogno di portarla fino in città perché il professor Leblanc si offrì di comprarla seduta stante, quando si fu rassegnato all'evidenza che non gliela avrebbero mai regalata. Kate sussurrò scherzosa all'orecchio del nipote che nel giro di qualche settimana l'antropologo l'avrebbe certamente esibita come trofeo durante le sue conferenze, raccontando di come aveva ucciso l'anaconda con le sue mani. Aveva guadagnato in questo modo la fama di eroe tra gli studenti di antropologia di tutto il mondo, affascinati al pensiero che i selvaggi assassini avessero il doppio delle mogli e il triplo dei figli rispetto agli uomini pacifici. La teoria di Leblanc sui vantaggi del maschio dominante, capace di qualsiasi efferatezza pur di trasmettere i propri geni, aveva molta presa sugli annoiati studenti, costretti a vivere addomesticati nella civiltà.

I soldati cercarono la testa dell'anaconda nella laguna, ma non riuscirono a trovarla; forse era sepolta nella melma del fondo o era stata trascinata via dalla corrente. Non osarono scavare troppo, perché si diceva che quei rettili si muovessero sempre in coppia e nessuno aveva intenzione di imbattersi in un altro esemplare. La dottoressa Torres spiegò che gli indios, come i caboclo, attribuivano ai serpenti poteri curativi e divinatori. Li facevano seccare, li macinavano e usavano la polvere per curare la tubercolosi, la calvizie e le malattie ossee, così come per interpretare i sogni. La testa di un anaconda di quelle dimensioni sarebbe stata molto apprezzata, assicurò, peccato fosse andata persa.

Gli uomini tagliarono a pezzi la carne del rettile, la salarono e si misero ad arrostirla infilzata su alcuni bastoni. Alex, che si era rifiutato fino a quel momento di assaggiare la carne di pirarucú, di formichiere, di tucano, di scimmia o di tapiro, provò un'irresistibile curiosità per quella dell'enorme serpente acquatico. Pensò, soprattutto, a come sarebbe aumentato il suo prestigio davanti a Cecilia Burns e ai suoi amici in California, quando avessero saputo che aveva mangiato l'anaconda nel bel mezzo della foresta amazzonica. Si mise in posa davanti alla pelle del serpente tenendo in mano un pezzo di carne e volle che la nonna gli scattasse una foto. La carne, piuttosto bruciacchiata perché nessuno sapeva cucinare particolarmente bene, aveva la consistenza del tonno e un vago sapore di pollo. Rispetto al cervo, era insipido, ma Alex stabilì che era comunque migliore delle crêpe gommose di suo padre. L'improvviso pensiero della sua famiglia lo colpì come uno schiaffo. Restò con il pezzo di anaconda infilzato nel bastoncino, a osservare la notte, pensieroso.

"Cosa vedi?" gli chiese Nadia in un sussurro.

"Vedo la mia mamma" rispose il ragazzo, e un singhiozzo gli sfuggì dalle labbra.

"Come sta?"

"È malata, molto malata" rispose lui.

"La tua è malata nel corpo, la mia nell'anima."

"La puoi vedere?" domandò Alex.

"Ogni tanto" disse la ragazzina.

"È la prima volta che riesco a vedere qualcuno in questo modo" spiegò Alex. "Ho avuto una stranissima sensazione, come se avessi visto distintamente mia mamma su uno schermo, senza riuscire a toccarla o poterle parlare."

"È una questione di pratica, Giaguaro. Si può imparare a vedere con il cuore. Gli sciamani come Walimai possono anche toccare e parlare a distanza, con il cuore" gli spiegò Nadia.