12.
IL RITO D'INIZIAZIONE
La festa cominciò nel pomeriggio e durò tutta la notte. Gli indios, pitturati dalla testa ai piedi, cantarono, ballarono e mangiarono fino a non poterne più. Che un invitato rifiutasse da bere e da mangiare era considerata una scortesia, per cui Alex e Nadia, imitando gli altri, si rimpinzarono fino ad avere conati di vomito, il che presso il Popolo della Nebbia era segno di buona educazione. I bambini correvano con grandi farfalle e scarabei fosforescenti legati con lunghi capelli. Le donne, ornate di lucciole, orchidee e piume alle orecchie e bastoncini infilati nelle labbra, diedero inizio alla festa dividendosi in due gruppi che si affrontavano in una amichevole gara di canto. Poi, ispirandosi ai movimenti degli animali che si accoppiano durante la stagione delle piogge, invitarono gli uomini a ballare. E infine si esibirono gli uomini, prima muovendosi in cerchio e imitando scimmie, giaguari e caimani, per poi dare una dimostrazione di forza e abilità brandendo le armi e facendo salti elegantissimi. A Nadia e Alex girava la testa ed erano frastornati dallo spettacolo, dal tamtam dei tamburi, dai canti, dalle grida e dai rumori della foresta.
Mokarita era stato posto al centro del villaggio e tutti gli porgevano cerimoniosi saluti. Beveva piccoli sorsi di masato, ma non riuscì a toccare cibo. Un altro anziano, con fama di guaritore, gli si presentò di fronte coperto da una crosta di fango secco e resina a cui erano state attaccate delle piccole piume bianche che lo facevano somigliare a uno strano uccello appena nato. A lungo il guaritore continuò a saltare e a urlare per scacciare gli spiriti maligni che erano entrati nel corpo del capo, dopodiché succhiò alcuni punti del ventre e del petto, quasi volesse aspirare gli spiriti cattivi e sputarli lontano. Infine sfregò il corpo del moribondo con una pasta di paranary, una pianta usata in Amazzonia per curare le ferite, ma le lesioni di Mokarita non erano visibili e il rimedio non ebbe alcun effetto. Alex immaginò che la caduta avesse compromesso qualche organo interno, forse il fegato, dato che con il passare delle ore l'anziano era sempre più debole e un filo di sangue gli colava giù dalle labbra.
All'alba Mokarita chiamò Nadia e Alex e con le poche forze che gli restavano spiegò che loro erano gli unici forestieri che fossero mai entrati a Tapirawa-teri, da quando il villaggio era stato fondato.
"Le anime del Popolo della Nebbia e dei nostri antenati abitano qui. I nahab, sono bugiardi, non conoscono la giustizia e le potrebbero contaminare" disse.
Erano stati invitati, aggiunse, per ordine del grande sciamano, che li aveva avvertiti che Nadia era destinata ad aiutarli. Non sapeva che ruolo avrebbe giocato Alex negli avvenimenti futuri, ma, in qualità di compagno della ragazzina, era anche lui benvenuto a Tapirawa-teri. Alexander e Nadia compresero che l'anziano si riferiva a Walimai e alla sua profezia sul Rahakanariwa.
"Quale forma adotta il Rahakanariwa?" chiese Alex.
"Molte. È un uccello cannibale. È ostile, si comporta come un demente, non si conoscono mai le sue intenzioni, è sempre assetato di sangue, si arrabbia e si vendica" spiegò Mokarita.
"Avete visto uccelli di grandi dimensioni?" domandò ancora Alex.
"Abbiamo visto gli uccelli del rumore e del vento, ma loro non ci hanno visti. Sappiamo che non sono il Rahakanariwa, anche se gli somigliano molto: sono gli uccelli dei nahab. Volano solo di giorno, mai di notte, per questo stiamo attenti ad accendere il fuoco, così l'uccello non vede il fumo. Ecco perché viviamo nascosti. Ecco perché siamo il popolo invisibile" rispose Mokarita.
I nahab arriveranno prima o poi, è inevitabile. Che cosa farà allora il Popolo della Nebbia?"
"Il mio tempo nell'Occhio del Mondo è giunto alla fine. Toccherà al mio successore decidere" fu la flebile risposta di Mokarita.
Sul far del mattino Mokarita morì. Un coro di lamenti scosse Tapirawa-teri per ore: nessuno aveva ricordi di epoche precedenti, perché Mokarita era stato la guida della tribù per molti decenni. La corona di piume gialle, simbolo della sua autorità, fu collocata in cima a un palo, in attesa che venisse designato il successore, e nel frattempo il Popolo della Nebbia iniziava a togliersi gli ornamenti e a ricoprirsi di fango, carbone e cenere, in segno di lutto. Una grande inquietudine regnava nel villaggio, perché tutti erano convinti che la morte raramente si presentasse per cause naturali e che in genere a provocarla è un nemico che si avvale della magia per colpire. Lo spirito del morto si placa solo se incontra il suo nemico e lo elimina, altrimenti il fantasma rimane nel mondo dei vivi e li perseguita. Quando il nemico apparteneva a un'altra tribù, lo si affrontava in battaglia, ma se era membro dello stesso villaggio, era possibile "ucciderlo" simbolicamente mediante una particolare cerimonia. I guerrieri, che per tutta la notte avevano bevuto masato, erano eccitati all'idea di sconfiggere il nemico che aveva provocato la morte di Mokarita. Scoprirlo e batterlo era una questione d'onore. Nessuno aspirava a sostituire il capo, perché tra loro non avevano il concetto di gerarchia, nessuno aveva più importanza di un altro e il capo, rispetto agli altri, aveva solo più obblighi. Mokarita non era rispettato per la sua posizione, ma perché, essendo anziano, aveva maggior esperienza e conoscenza. Gli uomini, ubriachi ed esaltati, potevano diventare violenti da un momento all'altro.
"Credo che sia arrivato il momento di chiamare Walimai" sussurrò Nadia ad Alex.
La ragazzina si appartò lontano del villaggio, sfilò l'amuleto dal collo e cominciò a soffiarci dentro. Il grido acuto della civetta che fuoriusciva dall'osso intagliato suonava strano in quel posto. Nadia aveva immaginato che sarebbe stato sufficiente ricorrere al talismano per vedere comparire Walimai come per magia ma, per quanto soffiasse, lo sciamano non apparve.
Durante le ore successive la tensione nel villaggio aumentò progressivamente. Uno dei guerrieri aggredì Tahama che gli rispose con un colpo alla testa tale da lasciarlo lungo disteso al suolo in una pozza di sangue; dovettero intervenire in molti per placare gli animi. Infine decisero di risolvere il conflitto con lo yopo, la polvere verde usata solo dagli uomini, come il masato. Si disposero a due a due, ogni coppia provvista di una lunga canna intagliata sulla punta attraverso la quale si soffiavano la polvere a vicenda direttamente nel naso. Lo yopo penetrava fino al cervello dandogli un terribile scossone, e l'uomo cadeva riverso all'indietro, gridando di dolore; subito dopo cominciava a vomitare, a saltare, a grugnire e ad avere delle visioni, mentre un muco verde gli usciva dalle narici e dalla bocca. Non era una scena particolarmente piacevole a vedersi, ma lo yopo serviva per raggiungere il mondo degli spiriti. Alcuni uomini si trasformarono in spiriti maligni, altri assunsero l'anima di diversi animali, altri ancora videro nel futuro, ma a nessuno apparve il fantasma di Mokarita per suggerire il nome del successore.
Alex e Nadia avevano l'impressione che quel pandemonio sarebbe sfociato in violenza e preferirono mantenersi lontani e restare in silenzio, nella speranza che nessuno si ricordasse di loro. Ma non ebbero fortuna, perché all'improvviso uno dei guerrieri ebbe una visione in cui il nemico assassino di Mokarita era il ragazzo forestiero. In un attimo tutti gli indios gli furono intorno, intenzionati a punire il presunto colpevole della morte del capo e, armati di bastoni, si avvicinarono ad Alex. Non era certo il caso di ricorrere al flauto per placare gli animi e quindi Alex prese a correre come una gazzella. Dalla sua aveva solo la forza della disperazione, che gli aveva messo le ali ai piedi, e il fatto che gli inseguitori non erano nelle migliori condizioni. Intossicati dalla droga, inciampavano, si spingevano l'un l'altro e nella confusione si bastonavano a vicenda, mentre le donne e i bambini correvano tutto intorno per incoraggiarli. Alex credette che fosse arrivata la sua ultima ora e mentre correva a più non posso, l'immagine di sua madre gli attraversò come un lampo la mente.
Il ragazzo non poteva certo competere in velocità e agilità con i guerrieri indigeni, ma siccome erano drogati caddero a uno a uno riversi al suolo. Alla fine Alex, ansimante e sfinito, trovò riparo sotto un albero. Quando ormai era convinto di essere in salvo, si vide circondato e, prima ancora di poter riprendere la fuga, le donne della tribù gli saltarono addosso. Ridevano, quasi che l'inseguimento fosse stato solo un gioco di cattivo gusto, ma lo tenevano ben stretto e, nonostante le manate e le pedate del ragazzo, riuscirono a trascinarlo fino a Tapirawa-teri, dove lo legarono a un albero. Alcune ragazze gli fecero il solletico, altre gli infilarono in bocca pezzi di frutta, ma comunque lo lasciarono lì, stretto nelle corde che lo imprigionavano. A quel punto, l'effetto dello yopo iniziava a venir meno e poco alla volta gli uomini stavano tornando in sé, esausti. Sarebbero passate ancora alcune ore prima che riuscissero a recuperare la lucidità e le forze.
Ad Alex, dolorante per essere stato trascinato e umiliato dagli scherzi delle donne, vennero in mente le spaventose storie del professor Leblanc. Se la sua teoria era giusta, lo avrebbero mangiato. E che cosa sarebbe accaduto a Nadia? Si sentiva responsabile anche della sua sorte. Pensò che nei film e nei romanzi quello era il momento giusto per l'arrivo degli elicotteri e guardò il cielo senza alcuna speranza, perché nella vita reale gli elicotteri non arrivano mai in tempo. Intanto Nadia si era avvicinata all'albero senza difficoltà perché nessun guerriero immaginava che una ragazzina osasse sfidarli. Alex e Nadia si erano rimessi i vestiti già dalla prima notte per via del freddo e, dato che il Popolo della Nebbia si era abituato a vederli così, non se li erano più tolti. Alex indossava la cintura a cui erano appesi il flauto, la bussola e il coltellino che Nadia utilizzò per liberarlo. Nei film basta un unico movimento per tagliare una corda, ma lei invece impiegò un bel po' di tempo a segare le strisce di cuoio che lo legavano al palo, mentre lui sudava per l'impazienza. I bambini e alcune donne si avvicinarono per vedere cosa succedeva, stupiti dalla temerarietà di Nadia, ma la padronanza con cui maneggiava il coltello davanti al naso di tutti era tale che nessuno intervenne e nel giro di dieci minuti Alex recuperò la libertà. I due amici cominciarono a indietreggiare poco alla volta, senza mettersi a correre per non attirare l'attenzione dei guerrieri. In quel momento, l'arte di diventare invisibili sarebbe tornata utilissima.
I due giovani forestieri non arrivarono lontano perché Walimai fece il suo ingresso nel villaggio. Il vecchio stregone apparve con il suo bagaglio di sacchetti di pelle appesi al bastone, la piccola lancia e il cilindro di quarzo che tintinnava come un sonaglio. Conteneva pietruzze raccolte nel luogo in cui era caduto un fulmine, era il simbolo di guaritori e sciamani e rappresentava il potere del Padre Sole. Lo accompagnava una giovane donna, dai lunghi capelli neri che le scendevano fino alla vita come un mantello, priva di sopracciglia, con collane di perline e bastoncini levigati infilati nelle guance e nel naso. Era bellissima e serena perché, pur non dicendo una parola, continuava a sorridere. Alex capì che era la sposa-angelo dello sciamano e fu felice di poterla vedere perché ciò significava che qualcosa si era aperto nella sua mente o nel suo spirito. Proprio come gli aveva insegnato Nadia, bisognava "vedere con il cuore". Lei gli aveva anche raccontato che molti anni prima, quando Walimai era ancora giovane, era stato costretto a uccidere la ragazza con il suo coltello avvelenato per liberarla dalla schiavitù. Non si era trattato di un delitto, bensì di un favore che lui le aveva fatto, ma ciò nonostante l'anima della donna era rimasta dentro il petto dello stregone. Walimai era fuggito nella foresta portando con sé l'anima della giovane perché nessuno potesse trovarla. Lì aveva adempiuto ai necessari riti di purificazione, il digiuno e l'immobilità. Ma durante il viaggio lui e la donna si erano innamorati e, una volta conclusosi l'unokaimú, lo spirito di lei non volle andarsene e preferì restare in questo mondo insieme all'uomo che amava. Ciò era accaduto quasi un secolo prima e da allora lei accompagnava sempre Walimai, aspettando il momento in cui anche lo sposo, trasformatosi in spirito, sarebbe potuto volare via con lei.
La presenza di Walimai alleggerì la tensione a Tapirawa-teri e gli stessi guerrieri che fino a poco prima erano pronti a massacrare Alex, ora lo trattavano con gentilezza. La tribù rispettava e temeva il grande sciamano perché era dotato della facoltà soprannaturale di interpretare i sogni. Tutti sognavano e avevano visioni, ma solo gli eletti, come Walimai, erano in grado di viaggiare nel mondo degli spiriti superiori, dove se ne impara il significato, per diventare guida agli altri e per modificare il corso delle catastrofi naturali.
Il vecchio annunciò che il ragazzo aveva l'anima del giaguaro nero, animale sacro, e che era giunto da molto lontano per aiutare il Popolo della Nebbia. Spiegò che correvano tempi strani, tempi in cui il confine tra questo e l'altro mondo era labile, tempi in cui il Rahakanariwa poteva divorare tutti loro. Ricordò l'esistenza dei nahab, che la maggioranza conosceva solo grazie ai racconti dei fratelli delle tribù delle Terre Basse. I guerrieri di Tapirawa-teri avevano spiato per giorni la spedizione dell'"International Geographic", ma non avevano capito le mosse o le abitudini di quegli stranieri bizzarri. Walimai, che nella sua lunga vita aveva visto molte cose, raccontò ciò che sapeva.
"I nahab sono come morti, l'anima è fuggita dal loro petto" disse. "I nahab non sanno niente di niente, non sono capaci di infilzare un pesce con una lancia né di colpire una scimmia con un dardo o di arrampicarsi su un albero. Non vestono aria e luce, come noi, ma abiti puzzolenti. Non si lavano nel fiume, non conoscono le regole della decenza o della cortesia, non condividono le loro case, i figli o le spose. Hanno ossa fragili e basta un colpo per spaccargli la testa. Ammazzano gli animali e non li mangiano, li lasciano marcire. Ovunque vadano, si lasciano dietro immondizia e veleno, anche nell'acqua. I nahab sono così folli da volersi portare via le pietre della terra, la sabbia dei fiumi e gli alberi della foresta. Alcuni vogliono la terra. Glielo abbiamo detto che non è possibile caricarsi la foresta sulle spalle come un tapiro morto, ma non ascoltano. Ci parlano delle loro divinità, ma non vogliono sentire delle nostre. Sono insaziabili come caimani. Queste terribili cose le ho viste con i miei occhi, ascoltate con le mie orecchie e toccate con le mie mani."
"Non permetteremo mai che questi spiriti maligni arrivino all'Occhio del Mondo, li uccideremo con i nostri dardi e le nostre frecce quando risaliranno la cascata, come abbiamo già fatto con tutti gli stranieri che ci hanno provato fino a ora, fin dai tempi dei nostri antenati" annunciò Tahama.
"Arriveranno lo stesso. I nahab hanno gli uccelli del rumore e del vento, possono volare oltre le montagne. Verranno perché vogliono le pietre, gli alberi e la terra" si intromise Alex.
"È così" ammise Walimai.
"I nahab possono anche sterminare con le malattie. Molte tribù sono morte in questo modo, ma il Popolo della Nebbia può salvarsi" disse Nadia.
"Questa ragazzina color del miele sa quello che dice, dobbiamo ascoltarla. Spesso il Rahakanariwa prende la forma di malattie mortali" assicurò Walimai.
"E lei è più forte del Rahakanariwa?" chiese incredulo Tahama.
"No, io no, ma c'è un'altra donna potentissima. Ha i vaccini che possono evitare le epidemie" disse Nadia.
Nadia e Alex cercarono quindi di convincere gli indios che non tutti i nahab erano spiriti malvagi, che qualcuno era buono, come la dottoressa Torres. Agli ostacoli della lingua si aggiungevano le differenze culturali. Come spiegare che cos'era un vaccino? Loro stessi non lo sapevano con precisione e quindi decisero di definirlo magia potentissima.
"L'unica salvezza è che questa donna venga a vaccinare tutto il Popolo della Nebbia" provò a spiegare Nadia. "Così sarete in salvo dalle malattie anche se dovessero arrivare i nahab o il Rahakanariwa assetati di sangue."
"Possono minacciarci anche in altri modi. In quel caso dichiareremo guerra" affermò Tahama.
"La guerra contro i nahab è una pessima idea...".
"Toccherà al prossimo capo decidere" concluse lui.
Walimai si incaricò di officiare il rito funebre di Mokarita secondo le più antiche tradizioni. Nonostante il pericolo di essere notati dall'alto, gli indios accesero un grande fuoco per cremare la salma, e mentre le spoglie bruciavano, gli abitanti del villaggio espressero il loro dolore per la morte del capo. Walimai preparò una pozione magica, la potentissima ayahuasca, per aiutare gli uomini della tribù a sondare le profondità del loro cuore. Anche i giovani stranieri furono invitati a berne, perché dovevano compiere una missione eroica più importante della loro stessa vita, ed era necessario non solo ricevere il sostegno degli dèi, ma anche conoscere le proprie forze. Non osarono sottrarsi, anche se il sapore delle pozione era disgustoso e dovettero fare un grande sforzo per inghiottirla e trattenerla nello stomaco. Non ne sentirono gli effetti se non molto dopo, quando improvvisamente il terreno gli si sciolse sotto i piedi, il cielo si riempì di figure geometriche e colori brillanti, i loro corpi cominciarono a girare e a dissolversi e il panico si impadronì completamente di loro. Quando credevano ormai di essere vicini a morire, si sentirono proiettati a velocità vertiginosa attraverso infinite camere di luce e allora le porte del regno degli dèi totemici si spalancarono, ordinando loro di entrare.
Alex sentì che le mani e i piedi gli si allungavano e che un forte calore lo invadeva. Si guardò le mani ma vide due zampe fornite di artigli. Aprì la bocca per chiedere aiuto e un ruggito terribile gli uscì dalle viscere. Si stava trasformando in un grosso felino dal lucido manto nero: il magnifico giaguaro maschio che aveva visto nell'accampamento di Carías. L'animale non era dentro di lui, né lui era dentro l'animale, erano fusi in un unico essere, che era ragazzo e fiera allo stesso tempo. Alex fece alcuni passi, allungandosi e mettendo alla prova i suoi muscoli, e sentì di possedere l'agilità, la velocità e la forza del giaguaro. Corse a grandi balzi per la foresta, animato da un'energia soprannaturale. Con un salto si arrampicò su un albero e da lassù osservò il paesaggio con i suoi occhi d'oro, muovendo lentamente la coda nera nell'aria. Si sentì potente, temuto, solitario, invincibile, il re della foresta sudamericana. Non c'era animale più forte di lui.
Nadia volò in alto nel cielo e per qualche istante svanì la paura per l'altezza che non riusciva mai a vincere. Le sue poderose ali di aquila femmina si muovevano appena; l'aria fredda la sosteneva e poteva modificare la direzione o la velocità con un movimento minimo. Volava a un'incredibile quota, tranquilla, indifferente, libera, osservando senza curiosità la terra sottostante. Dall'alto vedeva la foresta e le cime piatte dei tepui, molti dei quali erano coperti di nubi come se fossero coronati di schiuma, e scorgeva anche la sottile colonna di fumo del falò sul quale bruciavano i resti di Mokarita. Sospesa nel vento, l'aquila era invincibile nell'aria tanto quanto il giaguaro lo era sulla terra: nulla poteva raggiungerla. La ragazza-Aquila fece numerose piroette acrobatiche sorvolando l'Occhio del Mondo e guardando dall'alto la vita degli indios. Le piume sulla testa le si rizzavano come centinaia di antenne, captando il calore del sole, l'immensità del vento, l'emozione meravigliosa dell'altezza. Capì di essere la protettrice di quegli indios, la madre-aquila del Popolo della Nebbia. Volò sul villaggio di Tapirawa-teri e l'ombra delle sue magnifiche ali coprì come un mantello i tetti quasi invisibili delle piccole capanne nascoste nella foresta. Infine, l'enorme volatile si diresse verso la cima di un tepui, la montagna più alta, e nel suo nido, esposto a tutti i venti, vide brillare tre uova di cristallo.
Il mattino del giorno successivo, quando i ragazzi fecero ritorno dal mondo degli animali totemici, si raccontarono quello che avevano vissuto.
"Cosa significano le tre uova?" chiese Alex.
"Non lo so, ma sono molto importanti. Non sono mie, Giaguaro, ma devo entrarne in possesso per salvare il Popolo della Nebbia."
"Non capisco. Che cosa c'entrano le uova con gli indios?"
"Credo che c'entrino, eccome..." replicò Nadia, confusa quanto lui.
Quando la brace della pira funeraria si fu raffreddata, Iyomi, la sposa di Mokarita, separò le ossa bruciate, le macinò con una pietra fino a fame una polvere e poi la mischiò con acqua e banane per preparare una zuppa. La zucca contenente il liquido grigio passò di mano in mano e tutti, compresi i bambini, ne bevvero un sorso. Poi sotterrarono la zucca e il nome del capo venne dimenticato affinché nessuno lo pronunciasse mai più. La memoria dell'uomo e i frammenti del suo coraggio e della sua saggezza rimasti nelle ceneri furono così trasmessi a discendenti e amici. Qualcosa di lui sarebbe sempre continuato a vivere negli altri. Anche Nadia e Alex bevvero la zuppa di ossa e fu una sorta di battesimo: ora facevano parte della tribù. Portandosela alla bocca, il ragazzo ricordò di avere letto di una malattia provocata dal "mangiare il cervello degli antenati". Chiuse gli occhi e bevve con rispetto.
Una volta conclusa la cerimonia funebre, Walimai ordinò alla tribù di eleggere il nuovo capo. Secondo la tradizione, solo gli uomini potevano aspirare alla carica, ma Walimai spiegò che questa volta bisognava scegliere con estrema prudenza, perché vivevano in tempi molto strani ed era necessario avere un capo in grado di comprendere i misteri degli altri mondi, di comunicare con gli dèi e di tenere a bada il Rahakanariwa. Disse che erano i tempi delle sei lune nel firmamento, tempi in cui gli dèi erano stati costretti ad abbandonare le loro dimore. Quando vennero menzionate le divinità, gli indios si portarono le mani alla testa e cominciarono a dondolarsi avanti e indietro, mormorando una litania che ad Alex e Nadia ricordò una preghiera.
"Tutti gli abitanti di Tapirawa-teri, anche i bambini, devono partecipare all'elezione del nuovo capo" furono le parole di Walimai.
La tribù passò tutta la giornata a proporre candidati e a discutere. Verso sera Nadia e Alex si addormentarono, sfiniti, affamati e annoiati. Il ragazzo americano aveva cercato di spiegare il metodo elettivo tramite il voto, come in democrazia, ma gli indios non sapevano contare e il concetto stesso di votazione era per loro incomprensibile tanto quanto i vaccini. Eleggevano per "visioni".
I ragazzi furono svegliati in piena notte da Walimai, con la notizia che la visione più forte era stata Iyomi e così la vedova di Mokarita ora era il capo di Tapirawa-teri. A memoria d'uomo, era la prima volta che una donna ricopriva quella carica.
Il primo ordine impartito dall'anziana Iyomi, dopo che si fu messa la corona di piume gialle indossata per tanti anni dal marito, fu di preparare il pranzo. Venne immediatamente ubbidita, perché il Popolo della Nebbia da due giorni non aveva mangiato nulla salvo il sorso di zuppa di ossa. Tahama e altri cacciatori si diressero con le armi nella foresta e qualche ora dopo tornarono con un formichiere e un cervo, che squartarono e arrostirono sulla brace. Nel frattempo le donne avevano preparato il pane di manioca e il lesso di banana. Quando tutti furono sazi, Iyomi invitò la sua gente e sedersi in cerchio e parlò solennemente per la seconda volta:
"Intendo nominare altri capi. Un capo per la guerra e la caccia: Tahama. Un capo per ammansire il Rahakanariwa: la ragazzina color del miele chiamata Aquila. Un capo per negoziare con i nahab e i loro uccelli del rumore e del vento: lo straniero detto Giaguaro. Un capo che visiti gli dèi: Walimai. Un capo dei capi: Iyomi".
In questo modo, la saggia donna divise il potere e preparò il Popolo della Nebbia ad affrontare i tempi terribili ai quali andavano incontro. E così Nadia e Alex si trovarono investiti di un compito per cui nessuno dei due si sentiva all'altezza.
Subito dopo Iyomi espresse la sua terza volontà. Disse che la ragazza-Aquila doveva mantenere la sua "anima bianca" per affrontare il Rahakanariwa, l'unica maniera per evitare che venisse divorata dall'uccello cannibale, mentre il giovane straniero, Giaguaro, doveva diventare uomo e ricevere le armi di guerriero. Tutti i maschi, prima di impugnare le armi o di pensare al matrimonio, dovevano morire in quanto bambini e rinascere uomini. Non avevano tempo per svolgere la cerimonia tradizionale, che durava tre giorni e che normalmente era riservata a tutti i ragazzi della tribù che avevano raggiunto la pubertà. Nel caso di Giaguaro dovevano improvvisare un rito più breve, disse Iyomi, perché il ragazzo avrebbe accompagnato Aquila nel viaggio sulla montagna degli dèi. Il Popolo della Nebbia era in pericolo, solo i due forestieri potevano salvarlo e dovevano partire al più presto.
A Walimai e a Tahama fu affidata l'organizzazione del rito di iniziazione di Alex, al quale partecipavano solo gli uomini adulti. In seguito il ragazzo raccontò a Nadia che, se avesse saputo prima in cosa consisteva la cerimonia, forse l'esperienza sarebbe stata meno terrificante. Con la supervisione di Iyomi, le donne gli rasarono la chierica con una pietra affilata, metodo abbastanza doloroso perché nel punto in cui lo avevano colpito alla testa durante il rapimento il taglio non si era ancora cicatrizzato. Quando gli sfregarono sopra la pietra, la ferita infatti si riaprì, ma con l'applicazione di un po' di fango smise di sanguinare quasi subito. Poi lo dipinsero tutto di nero con una pasta di cera e carbone. Subito dopo dovette salutare l'amica e Iyomi, che se ne andarono con i bambini, dato che le donne non potevano assistere alla cerimonia. Non sarebbero tornate al villaggio prima di notte, quando i guerrieri avrebbero condotto via il ragazzo per la prova finale dell'iniziazione.
Tahama e i suoi uomini dissotterrarono dalla melma del fiume gli strumenti musicali sacri, che venivano usati solo nelle cerimonie maschili. Si trattava di grossi tubi lunghi un metro e mezzo che, soffiandovi, producevano un suono rauco e grave, come sbuffi di toro. Le donne e i ragazzi che non erano ancora iniziati non li potevano nemmeno vedere, perché rischiavano di ammalarsi e morire per magia. Nella tribù, quegli strumenti rappresentavano il potere virile, il legame tra padri e figli maschi. Senza quelle trombe, tutto il potere sarebbe stato delle donne, che avevano la facoltà divina di partorire i figli o, come dicevano loro, di "fare gente".
Il rito cominciò la mattina e sarebbe durato tutto il giorno e la notte. Gli indios fecero mangiare ad Alex delle more aspre, lo lasciarono raggomitolato al suolo in posizione fetale, poi, diretti da Walimai, dipinti e decorati con i colori degli spiriti malvagi, si distribuirono intorno a lui in un cerchio stretto battendo i piedi e fumando sigari di foglie. Tra il sapore delle more, la paura e il fumo, il ragazzo cominciò a sentirsi male.
I guerrieri ballarono e cantarono intorno a lui per un bel pezzo, soffiando nelle trombe sacre, le cui estremità toccavano il suolo. Il suono gli rimbombava nel cervello confuso. Per molto tempo rimase in ascolto dei canti sulla storia del Padre Sole, che dimorava oltre il sole di tutti i giorni ed era il fuoco invisibile da dove proveniva la Creazione; ascoltò la storia della goccia di sangue staccatasi dalla Luna per dare vita al primo uomo; cantarono del Fiume di Latte, che conteneva tutti i semi della vita, ma anche putrefazione e morte e che portava al regno dove gli sciamani come Walimai incontravano gli spiriti e gli altri esseri soprannaturali per ricevere saggezza e potere curativo. Raccontarono che tutto quello che esiste viene sognato dalla Madre Terra, che ogni stella sogna i suoi abitanti e che tutto ciò che accade nell'universo è illusione, nient'altro che un sogno tra i sogni. Benché stordito, Alexander sentì che quelle parole si riferivano a concetti di cui già aveva avuto un presagio e quindi smise di ragionare e si abbandonò alla strana esperienza di "pensare con il cuore".
Le ore passarono e il ragazzo perse progressivamente il senso del tempo, dello spazio e della realtà, sprofondando in uno stato di terrore e deliquio. A un tratto si accorse che lo stavano sollevando per farlo camminare; solo allora si rese conto che era notte fonda. In processione si diressero verso il fiume, sempre suonando i loro strumenti e brandendo le armi e, una volta arrivati, lo immersero ripetutamente nell'acqua tanto che Alex temette di annegare. Lo strofinarono con foglie abrasive per togliergli la pittura nera e poi gli misero del pepe sulla pelle infiammata. Gridando in modo assordante, lo colpirono con delle bacchette alle gambe, alle braccia, al petto e al ventre, ma senza intenzione di fargli male; ogni tanto lo minacciavano con le lance, toccandolo con le punte, ma senza ferirlo. Provavano in tutti i modi a spaventarlo e ci riuscirono, perché il ragazzo non era in grado di capire cosa stesse succedendo e temeva che all'improvviso ai suoi assalitori scappasse la mano e lo uccidessero per davvero. Cercava di difendersi dalle sberle e dagli spintoni dei guerrieri di Tapirawa-teri, ma l'istinto gli suggerì che non valeva la pena di tentare la fuga, sarebbe stato inutile, non sapendo dove scappare in quel posto sconosciuto e ostile. Fu una decisione saggia, perché altrimenti avrebbe dimostrato la sua codardia, il peggior difetto per un guerriero.
Quando Alex fu sul punto di perdere il controllo e di abbandonarsi all'isteria, ricordò il suo animale totemico. Non fece fatica a entrare nel corpo del giaguaro nero, la trasformazione fu rapida e semplice: il ruggito che gli uscì dalla bocca fu lo stesso della volta precedente e così le zampe con gli artigli: il salto sopra le teste dei nemici fu un atto naturale. Gli indios festeggiarono l'arrivo del Giaguaro con un baccano assordante e immediatamente, con una processione solenne, lo condussero all'albero sacro, dove lo attendeva Tahama per la prova finale.
Si stava facendo giorno nella foresta. Le formiche rosse erano chiuse in una specie di tubo di paglia intrecciata, simile a quello usato per spremere l'acido prussico dalla manioca, che Tahama teneva mediante due bastoncini per evitare il contatto con gli insetti. Alex, già sfinito da quella lunga notte spaventosa, non capì subito cosa ci si aspettava da lui. Allora fece un respiro profondo, si riempì i polmoni di aria fresca, chiamò in aiuto il coraggio del padre, grande scalatore di montagne, la perseveranza della madre, che non si dava mai per vinta, e la forza del suo animale totemico e infilò il braccio sinistro fino al gomito nel tubo.
Le formiche rosse passeggiarono un po' sulla sua pelle prima di morderlo. Quando lo fecero, gli sembrò che il braccio venisse bruciato con dell'acido fino all'osso. Il dolore terrificante lo sconvolse per qualche istante, ma con un immane sforzo di volontà non ritirò il braccio. Ricordò cosa gli aveva detto Nadia quando cercava di insegnargli a convivere con le zanzare: non difenderti, ignorale. Era impossibile ignorare le formiche rosse, ma dopo alcuni minuti di disperazione assoluta, nei quali fu sul punto di scappare e buttarsi nel fiume, si accorse che riusciva a controllare l'istinto di fuga, a trattenere l'urlo nel petto, a consegnarsi al dolore senza opporre resistenza, consentendogli anzi di penetrare fino all'ultima fibra del suo corpo e della sua coscienza. Il bruciore spaventoso lo trapassò come una spada, gli uscì dalla schiena e, come per miracolo, Alex riuscì a sopportarlo. Non sarebbe mai stato in grado di spiegare l'impressione di potenza che lo aveva invaso durante quel supplizio. Si era sentito forte e invincibile come quando aveva assunto le forme del giaguaro nero, dopo la pozione magica di Walimai. Questa fu la ricompensa per essere sopravvissuto alla prova. Capì che si era lasciato l'infanzia dietro le spalle e che a partire da quella notte avrebbe saputo cavarsela da solo.
"Benvenuto tra gli uomini" disse Tahama, togliendo la manichetta dal braccio di Alex.
I guerrieri riportarono il giovane semincosciente al villaggio.