9.
IL POPOLO DELLA NEBBIA

Quella notte appesero le amache agli alberi e César assegnò turni di due ore ciascuno per stare di guardia e tenere acceso il fuoco. Dalla morte del soldato ucciso dalla freccia e dall'incidente di Joel González, restavano, per coprire le otto ore di buio, dieci adulti e due ragazzi, dato che Leblanc non contava. Il professore si considerava capo della spedizione e in quanto tale doveva essere "sempre riposato"; se avesse saltato qualche ora di sonno, non avrebbe avuto la lucidità necessaria per prendere tutte le decisioni, spiegò. Gli altri ne furono felici, visto che davvero nessuno avrebbe voluto montare la guardia in compagnia di uno che andava in confusione davanti a uno scoiattolo. Il primo turno, certamente il più facile perché erano tutti svegli e non faceva ancora molto freddo, fu assegnato alla dottoressa Torres, a un caboclo e a Timothy Bruce, che non riusciva a consolarsi per quello che era successo al collega. Timothy e Joel avevano lavorato insieme per lunghi anni e si volevano bene come fratelli. Il secondo turno sarebbe stato di un altro soldato, Alex e Kate; il terzo, di Matuwe, César e sua figlia Nadia. Gli altri due soldati e Karakawe avrebbero coperto quello dell'alba.

Per tutti fu difficile prendere sonno perché i lamenti del povero Joel si aggiungevano all'odore strano e persistente che sembrava impregnare tutta la foresta. Avevano sentito parlare del fetore, come si diceva, tipico della Bestia. César spiegò che probabilmente si erano accampati non lontano da una famiglia di iraras, una specie di donnola dal musetto molto dolce, ma dall'odore simile a quello delle moffette. L'ipotesi della guida non tranquillizzò comunque nessuno.

"Mi gira la testa e ho la nausea" disse Alex, pallido.

"Se l'odore non ti ammazza, ti renderà più forte" affermò Kate, l'unica a restare impassibile a quel tanfo.

"Ma è spaventoso!"

"Diciamo che è particolare. La percezione sensoriale cambia da persona a persona, Alexander. Quello che a te fa schifo, può piacere a un altro. Chissà, magari la Bestia emette questo odore come canto d'amore per richiamare la sua compagna" sorrise la nonna.

"Bleah! Sa di topo morto mischiato a pipì di elefante, cibo marcio e..."

"Insomma, la stessa puzza dei tuoi calzini" tagliò corto Kate.

La sensazione di essere osservati da centinaia di sguardi provenienti dalla boscaglia non aveva abbandonato nessuno. Tutti si sentivano esposti, illuminati com'erano dalla luce tremolante del fuoco e dalle lampade a petrolio. La prima parte della notte trascorse senza grandi sorprese, poi venne il turno di Alex, Kate e di uno dei soldati. Il ragazzo passò la prima ora a guardare la notte e il riflesso dell'acqua, vegliando sul sonno dei compagni. Pensava a come era cambiato in così pochi giorni. Adesso poteva restare a lungo fermo e in silenzio, immerso nei suoi pensieri, senza che gli venissero in mente i videogame, la bici o la televisione. Scoprì che era capace di raggiungere il luogo intimo della quiete e del silenzio che doveva conquistare quando scalava le montagne. La prima cosa che suo padre gli aveva insegnato sull'alpinismo era che, se uno si faceva prendere dalla tensione, dall'ansia o dalla paura, sprecava la metà delle forze. Ci voleva tranquillità per vincere la montagna. Durante le scalate aveva imparato a controllarsi, ma fino a ora questa lezione gli era servita a ben poco in altri frangenti. Si rese conto che erano molte le cose su cui meditare, ma l'immagine più ricorrente era sempre quella di sua madre. Se fosse morta... E tutte le volte si fermava. Aveva deciso di non prendere in considerazione quell'ipotesi, perché sarebbe stato come evocare la disgrazia. Si concentrava invece su come trasmetterle energia positiva, questo era il suo modo di aiutarla.

Un rumore improvviso interruppe i suoi pensieri. Udì nitidamente dei passi da gigante che calpestavano gli arbusti lì vicino. Sentì uno spasmo nel petto, come se stesse soffocando. Per la prima volta da quando aveva perso gli occhiali all'accampamento di Carías ne sentì la mancanza, perché la sua vista di notte era ancora più debole. Tenendo la pistola con entrambe le mani per dominare il tremito, esattamente come aveva visto fare nei film, rimase in attesa senza sapere cosa fare. Quando avvertì un movimento nelle fronde vicine, come se ci fosse un contingente di nemici acquattato, Alex lanciò un grido terribile che risuonò come la sirena in un naufragio svegliando tutti. In un istante la nonna gli era accanto, la carabina imbracciata. I due si trovarono faccia a faccia con la grossa testa di un animale che non riuscirono subito a identificare. Era un maiale selvatico, un enorme cinghiale. Restarono immobili, pietrificati dallo spavento e questo li salvò: perché l'animale, come Alex, non vedeva bene al buio. Per fortuna, la brezza soffiava nella direzione contraria e quindi il cinghiale non sentiva il loro odore. César fu il primo a scendere con cautela dall'amaca per valutare la situazione, nonostante la pessima visibilità.

"Nessuno si muova..." ordinò in un bisbiglio per non attirare l'animale.

La sua carne saporita sarebbe bastata per diversi giorni, ma c'era troppo poca luce per usare un'arma da fuoco e d'altra parte nessuno aveva il coraggio di impugnare un machete e di scagliarsi contro il pericoloso bestione. Il maiale passeggiò tranquillo tra le amache, annusò le provviste che erano state appese per metterle al riparo da topi e formiche e infine si affacciò alla tenda del professor Leblanc, che per lo spavento quasi ebbe un infarto. L'unica alternativa era aspettare che l'ingombrante ospite si fosse stufato di girare per l'accampamento: a quel punto, infatti, si allontanò, passando così vicino ad Alex che il ragazzo avrebbe potuto allungare una mano e toccarne l'ispido mantello. Quando la tensione si allentò, cominciarono a scherzare e Alex si vergognò per aver gridato come un isterico, anche se César lo rassicurò dicendogli che si era comportato correttamente. La guida fece un ripasso delle istruzioni da seguire in caso di all'erta: innanzitutto abbassarsi e gridare, poi sparare. Non aveva ancora finito di parlare che si udì un colpo di arma da fuoco: era il professor Leblanc che sparava in aria dieci minuti dopo che il pericolo era cessato. Decisamente il professore aveva il grilletto facile, fece notare ironicamente Kate.

Il terzo turno, il momento più freddo e buio di tutta la notte, toccava a César, a Nadia e a un soldato. La guida era incerta se svegliare la ragazzina, che dormiva profondamente abbracciata a Borobá, ma immaginò la reazione di lei se non lo avesse fatto. Nadia si svegliò con due sorsate di caffè ben zuccherato e si coprì come meglio poté mettendosi indosso un paio di magliette, il suo gilet e la giacca del padre. Alex era riuscito a dormire solo un paio d'ore ed era stanchissimo ma, quando alla luce tenue del fuoco scorse Nadia che si preparava al turno di guardia, si alzò per farle compagnia.

"Sono al sicuro, non preoccuparti. Ho il talismano che mi protegge" sussurrò lei per tranquillizzarlo.

"Torna alla tua amaca" gli ordinò César. "Tutti abbiamo bisogno di dormire, è per questo che si fanno i turni."

Alex ubbidì controvoglia, deciso a restare sveglio, ma di lì a pochi minuti fu vinto dal sonno. Non seppe calcolare quanto aveva dormito, ma dovevano essere state all'incirca di due ore perché, quando si svegliò di soprassalto per il rumore che lo circondava, il turno di Nadia era appena terminato. Stava albeggiando, c'era una bruma lattiginosa e faceva molto freddo, ma tutti erano già in piedi. Nell'aria stagnava un odore così denso che lo si poteva tagliare con il coltello.

"Che cosa è successo?" chiese rotolando giù dall'amaca, ancora stordito dal sonno.

"Nessuno esca dall'accampamento per nessuna ragione! Buttate più legna al fuoco!" ordinò César. Si era legato un fazzoletto su naso e bocca, aveva un fucile in una mano e una lanterna nell'altra, e stava esaminando la tremula nebbia grigia che calava sulla foresta allo spuntar del sole.

Kate, Nadia e Alex si affrettarono ad alimentare il fuoco con nuova legna e il chiarore aumentò. Karakawe aveva dato l'allarme: uno dei due caboclo con i quali era di turno era sparito. César sparò un paio di colpi in aria e urlò il suo nome, ma non ottenendo alcuna risposta decise di andare a fare un giro nelle vicinanze insieme a Timothy Bruce e a due soldati, lasciando gli altri armati di pistola, intorno al fuoco. Tutti seguirono l'esempio della guida e si misero un bavaglio per potere respirare.

Passarono alcuni minuti che sembrarono un'eternità senza che nessuno dicesse una parola. Di solito a quell'ora le scimmie si svegliavano sulle fronde degli alberi e i loro strilli, simili ai latrati dei cani, annunciavano il giorno, ma quella mattina regnava un silenzio da far rizzare i capelli. Gli animali e persino gli uccelli erano scappati. All'improvviso risuonò uno sparo, seguito dalla voce di César e successivamente dalle esclamazioni degli altri uomini. Un minuto dopo arrivò Timothy Bruce senza fiato: avevano trovato il caboclo.

Era disteso bocconi tra alcune felci. Ma la testa era rivolta verso l'alto, come se una mano fortissima l'avesse girata di novanta gradi verso la schiena, spezzandogli l'osso del collo. Aveva gli occhi aperti e un'espressione di assoluto terrore gli deformava il viso. Voltandolo, videro che il torso e il ventre erano pieni di profonde ferite. Il corpo era coperto da centinaia di stranissimi insetti, zecche e piccoli scarafaggi. La dottoressa Torres confermò quanto era sotto gli occhi di tutti: era morto. Timothy Bruce corse a prendere la macchina fotografica per poter dare testimonianza dell'accaduto, mentre César raccolse alcuni insetti e li mise in un sacchetto di plastica per portarli a Santa María de la Lluvia da padre Valdomero, esperto entomologo che collezionava le specie della regione. In quel punto la puzza era molto più forte e dovettero fare un enorme sforzo di volontà per non scappare a gambe levate.

César ordinò a uno dei soldati di tornare da Joel, che era rimasto solo all'accampamento, e a Karakawe e a un altro soldato di ispezionare i dintorni. Matuwe, la guida indigena, osservava profondamente turbato il cadavere; era diventato grigio, come se fosse al cospetto di un fantasma. Nadia abbracciò il padre e nascose il viso nel suo petto per non vedere il terribile spettacolo.

"La Bestia!" esclamò Matuwe.

"Ma quale Bestia, amico, questa è opera degli indios" ribatté il professor Leblanc, pallido per lo spavento, con un fazzoletto imbevuto di acqua di colonia in una mano tremebonda e una pistola nell'altra.

In quell'istante Leblanc fece qualche passo indietro, inciampò e cadde seduto nel fango. Lanciò un'imprecazione e cercò di rialzarsi, ma a ogni movimento scivolava sempre di più, rotolando in una materia scura, molle e grumosa. Dall'odore raccapricciante capirono che non era fango, bensì un'enorme pozza di escrementi: il famoso antropologo finì per essere letteralmente coperto di cacca, dalla testa ai piedi. César e Timothy Bruce gli tesero un ramo per tirarlo e aiutarlo a uscire di lì, poi lo accompagnarono al fiume, tenendosi a rispettosa distanza per non toccarlo. A Leblanc non restò che immergersi per un bel pezzo, tremando per l'umiliazione, il freddo, la paura e la rabbia. Karakawe, il suo aiutante personale, si rifiutò fermamente di insaponarlo e di lavargli gli indumenti e, nonostante le tragiche circostanze, tutti dovettero trattenersi per non scoppiare a ridere. Ognuno pensava alla stessa cosa: l'essere che aveva prodotto quella quantità di escrementi doveva avere le dimensioni di un elefante.

"Sono quasi certa che la creatura in questione ha una dieta mista: verdura, frutta e un po' di carne cruda" disse la dottoressa, che si era messa un fazzoletto sul naso e sulla bocca per analizzare parte di quella materia con la lente d'ingrandimento.

Intanto Kate, imitata dal nipote, si era messa gattoni a esaminare il suolo e la vegetazione.

"Guarda, nonna, ci sono rami rotti e alcuni arbusti sembrano calpestati da zampe grandissime. Ho trovato dei peli neri e duri..." disse il ragazzo.

"Può essere stato il cinghiale" osservò Kate.

"Guarda quanti insetti, identici a quelli che sono sul cadavere! Non li avevo mai visti prima."

Appena fu giorno, César e Karakawe avvolsero il corpo dello sfortunato soldato in un'amaca e lo appesero a un albero, il più in alto possibile. Il professore, nervoso al punto che gli era venuto un tic all'occhio destro e il tremito alle ginocchia, si preparò a prendere una decisione. Disse che tutti stavano correndo il rischio di morire e lui, Ludovic Leblanc, in quanto responsabile del gruppo, doveva impartire ordini. L'uccisione del primo soldato confermava la sua teoria secondo la quale gli indios sono assassini per natura, subdoli e traditori. Anche la morte del secondo, avvenuta in circostanze così particolari, poteva venire attribuita agli indios, ma, ammise, in questo caso non si poteva nemmeno scartare l'ipotesi della Bestia. L'unica era piazzare le sue trappole, sperando di catturarla prima che venisse ucciso qualcun altro e poi tornare subito a Santa María de la Lluvia, dove avrebbero trovato degli elicotteri. Tutti si resero conto che la caduta nel cumulo di escrementi doveva avergli insegnato qualcosa.

"Il capitano Ariosto non oserà negare il proprio aiuto a Ludovic Leblanc" disse il professore. A mano a mano che procedevano nel territorio sconosciuto, e che la Bestia dava segni di vita, la tendenza dell'antropologo a parlare di sé in terza persona aumentava.

Diversi membri del gruppo si dissero d'accordo. Nonostante tutto Kate era decisa a proseguire e pretese che Timothy Bruce rimanesse con lei, visto che non sarebbe servito a nulla trovare la strana creatura senza poterla fotografare per dimostrarlo. Il professore suggerì di separarsi e di permettere a chi lo voleva di tornare al villaggio utilizzando una delle lance. I soldati e Matuwe, la guida indigena, erano terrorizzati e volevano andarsene il prima possibile. La dottoressa Torres, invece, disse che era arrivata fino a lì per vaccinare gli indios, che probabilmente non avrebbe avuto un'altra occasione nel prossimo futuro e che pertanto non pensava di cambiare idea al primo ostacolo.

"Sei una donna molto coraggiosa, Omayra" osservò César, ammirato. "Io rimarrò. Sono la guida, non vi posso abbandonare qui" aggiunse.

Alex e Nadia si scambiarono un'occhiata d'intesa: avevano notato che César seguiva sempre con lo sguardo la dottoressa e non perdeva mai occasione per starle vicino. Prima che parlasse, entrambi avevano già indovinato che, se lei si fosse fermata, lui avrebbe fatto lo stesso.

"E noi come torniamo senza di lei?" volle sapere Leblanc, piuttosto inquieto.

"Vi può accompagnare Karakawe" disse César.

"Io resto" lo smentì l'indio, laconico come sempre.

"Anch'io, non lascio certo sola mia nonna" affermò Alex.

"Non ho bisogno di te e non voglio mocciosi tra i piedi, Alexander" grugnì Kate, ma tutti scorsero nei suoi occhi da uccello rapace il lampo di orgoglio suscitato dalla decisione del nipote.

"Vado a chiamare rinforzi" disse Leblanc.

"Ma lei non è il responsabile della spedizione?" domandò gelida Kate.

"Sono più utile là che qua..." farfugliò l'antropologo.

"Faccia pure come crede, ma guardi che se lei se ne va, mi incarico personalmente di rendere pubblica la sua defezione all''International Geographic', così il mondo intero saprà quanto è coraggioso il professor Leblanc" lo minacciò lei.

Alla fine fu deciso che uno dei soldati e Matuwe avrebbero riportato Joel a Santa María de la Lluvia. Il viaggio di ritorno sarebbe stato più breve perché avevano la corrente a favore. Gli altri, compreso il professor Leblanc, che non osò sfidare Kate, sarebbero rimasti all'accampamento in attesa di rinforzi. A metà mattina era tutto pronto, i compagni si separarono e la lancia con a bordo il ferito prese la via del ritorno.

Passarono il resto della giornata e buona parte di quella successiva a preparare una trappola per la Bestia secondo le istruzioni del professor Leblanc. Era di una semplicità disarmante: una grande fossa coperta da una rete mimetizzata da foglie e rami. Passandoci sopra, sarebbe caduta nel buco trascinandosi dietro la rete. In fondo alla buca piazzarono un allarme a pile che avrebbe suonato per avvisare subito i membri della spedizione. Secondo il piano, avrebbero dovuto avvicinarsi prima che la creatura intrappolata potesse liberarsi dalla rete e uscire dalla fossa, per spararle un potente anestetico in grado di stordire un rinoceronte.

La cosa più faticosa fu scavare una fossa profonda quanto la presunta altezza della Bestia. A turno scavarono tutti, tranne Nadia, che era contraria all'idea di fare del male a un animale, e Leblanc, per via del mal di schiena. Il terreno era molto diverso da come se l'era immaginato il professore in fase di progettazione, comodamente seduto alla scrivania di casa sua, a migliaia di chilometri di distanza. Sotto una sottile crosta di humus, c'era un groviglio di radici, poi uno strato di argilla scivolosa come il sapone e più si scavava più la fossa si riempiva di acqua rossastra in cui nuotava ogni sorta di animaletti. Alla fine, gli ostacoli li fecero desistere. Alex suggerì di utilizzare le reti appendendole agli alberi mediante un sistema di corde e di mettere dei pezzi di carne sotto; quando la preda si fosse avvicinata all'esca per mangiare, l'allarme avrebbe suonato e le reti sarebbero cadute dall'alto. Tutti, tranne Leblanc, considerarono che in teoria poteva funzionare, ma erano troppo stanchi per mettersi al lavoro e decisero di rimandare il tutto al mattino seguente.

"Spero che la tua idea non funzioni, Giaguaro" disse Nadia.

"La Bestia è pericolosa" rispose il ragazzo.

"Cosa faranno se la prendono? La uccideranno? La taglieranno a pezzi per studiarla? La metteranno in una gabbia per il resto della sua vita?"

"Tu cosa proponi, Nadia?"

"Di parlare con lei e di chiederle cosa vuole."

"Che idea geniale! Potremmo invitarla a bere un tè..." la prese in giro Alex.

"Tutti gli animali parlano" affermò Nadia.

"È quello che sostiene mia sorella Nicole, ma lei ha nove anni."

"Vedo che sa più cose di te che ne hai quindici" replicò lei.

Si trovavano in un luogo bellissimo. La vegetazione folta e aggrovigliata della riva aveva lasciato spazio a un bosco maestoso. I tronchi degli alberi, alti e dritti, sembravano pilastri di una magnifica cattedrale verde. Orchidee e altri fiori spiccavano in mezzo ai rami e il suolo era coperto da brillanti felci. La fauna era così varia che non regnava mai il silenzio: dalla mattina a notte inoltrata si udiva il canto dei tucani e dei pappagalli; e poi iniziava il baccano dei rospi e delle scimmie. Ma quel paradiso terrestre nascondeva mille pericoli: le distanze erano enormi, la solitudine assoluta e non era possibile orientarsi senza conoscere il terreno. Secondo il professor Leblanc, e questa volta anche César era d'accordo, in quella regione ci si poteva spostare solo con l'aiuto degli indios. Dovevano attirare la loro attenzione. La dottoressa Torres era la più interessata all'operazione, visto che doveva realizzare il suo progetto di vaccinarli e di organizzare un sistema di controllo sanitario.

"Temo che gli indios non si presenteranno spontaneamente per farsi fare una puntura al braccio, Omayra. Non hanno mai visto un ago in vita loro" sorrise César. Tra i due c'era una forte simpatia e ormai avevano un rapporto confidenziale.

"Diremo loro che si tratta di una potente magia dei bianchi" disse lei facendogli l'occhiolino.

"Che è la pura verità" concluse César con un cenno di approvazione.

Secondo la guida, nei dintorni c'erano diverse tribù che avevano già avuto qualche contatto, seppur breve, con gli stranieri. Dal suo piccolo aereo aveva intravisto qualche shabono ma, data l'assenza di un luogo in cui atterrare, si era limitato a segnarseli sulla cartina. Le capanne comuni che aveva visto erano piuttosto piccole, il che voleva dire che ogni tribù era composta da pochissime famiglie. Stando al professor Leblanc, che si reputava grande esperto in materia, il numero minimo di abitanti per shabono si aggirava sulle cinquanta persone – altrimenti non sarebbero state in grado di difendersi da attacchi nemici – e raramente superava le duecentocinquanta unità. César sospettava anche che ci fossero tribù isolate, mai viste prima, come sperava anche la dottoressa Torres, e l'unico modo per raggiungerle sarebbe stato l'aereo. Avrebbero dovuto salire verso la foresta dall'altopiano, fino alla regione incantata delle cascate, dove non si era mai spinto nessuno prima dell'invenzione di aerei ed elicotteri.

Allo scopo di attirare gli indios, la guida assicurò una corda tra due alberi e vi appese alcuni regali: collane di perline, panni colorati, specchi e gingilli di plastica. Conservò i machete, i coltelli e gli utensili d'acciaio per un momento successivo, quando fossero cominciate le trattative vere e proprie e lo scambio dei doni.

Quel pomeriggio César cercò di stabilire un contatto radio con il capitano Ariosto e con Carías a Santa María de la Lluvia, ma l'apparecchio non funzionava. Il professor Leblanc passeggiava per l'accampamento, furibondo per l'ennesimo intoppo, mentre gli altri si davano il cambio nel tentativo di trasmettere o ricevere un messaggio. Nadia si appartò con Alex per raccontargli che la notte precedente, prima che venisse ucciso il soldato durante il turno di Karakawe, aveva visto l'indio manipolare la radio. Disse che era andata a coricarsi al termine del proprio turno, ma che non si era addormentata subito e che dall'amaca aveva visto Karakawe vicino all'apparecchio.

"Lo hai visto bene, Nadia?"

"No, perché era buio, ma in quel momento le uniche persone in piedi erano i due soldati e lui. Sono quasi certa che non fosse uno dei soldati" affermò la ragazzina. "Credo che Karakawe sia la persona di cui parlava Carías. Impedirci di chiedere aiuto in caso di necessità forse fa parte del piano."

"Dobbiamo avvisare tuo padre" decise Alex.

César non dimostrò particolare interesse e si limitò ad avvertirli che prima di accusare qualcuno bisognava essere sicuri. Potevano essere molti i motivi per cui una radio così vecchia non funzionava. Oltretutto, che ragioni avrebbe avuto Karakawe per metterla fuori uso? Nemmeno lui avrebbe tratto vantaggio dall'isolamento radio. Li tranquillizzò dicendo che i rinforzi sarebbero arrivati entro tre o quattro giorni.

"Non ci siamo persi, siamo solo isolati" concluse César.

"E la Bestia, papà?" chiese Nadia inquieta.

"Non sappiamo nemmeno se esiste, figlia mia. Gli indios, in compenso, esistono di sicuro. Prima o poi si avvicineranno e speriamo che lo facciano in maniera pacifica. In ogni modo, siamo armati come si deve."

"Il soldato morto aveva un fucile, ma non gli è servito a niente" ribatté Alex.

"Si vede che si era distratto. D'ora in poi, dobbiamo stare ancora più attenti. Purtroppo siamo rimasti solo in sette adulti per montare di guardia."

"Io conto come un adulto" assicurò Alex.

"Va bene, ma Nadia no. Potrà solo farmi compagnia durante il mio turno" stabilì César.

Quel giorno Nadia scoprì un albero di urucu pod vicino all'accampamento, ne colse diversi frutti, simili a mandorle pelose, li aprì e ne estrasse alcuni semini rossi. Schiacciandoli con le dita e impastandoli con un po' di saliva, formò una pasta rossa dalla consistenza simile al sapone, quella che, mischiata ad altre tinture vegetali, gli indios utilizzavano per decorarsi il corpo. Nadia e Alex si pitturarono la faccia con righe, cerchi e puntini, poi si misero delle piume e dei semi sulle braccia. Quando li videro, Timothy, Bruce e Kate vollero scattare alcune foto e la dottoressa Torres ornò i riccioli della ragazzina con minuscole orchidee. César invece non fece loro festa: lo spettacolo di sua figlia agghindata come un'indigena sembrò riempirlo di tristezza.

La luce andava diminuendo e quindi da qualche parte il sole stava per tramontare, lasciando il posto alla notte; da sotto la cupola verde degli alberi riuscivano a scorgerlo di rado, ne percepivano solo il bagliore, filtrato dal ricamo naturale. Solo a volte, dove era caduto un albero, si vedeva nettamente l'occhio azzurro del cielo. A quell'ora, le ombre della vegetazione cominciavano a cingerli d'assedio e in poco tempo il bosco sarebbe diventato nero e opprimente. Nadia pregò Alex di suonare il flauto per distrarli e di colpo la foresta fu invasa da una musica delicata e cristallina. La scimmietta Borobá accompagnava la melodia muovendo la testa al ritmo delle note. César e la dottoressa Torres, in ginocchio accanto al fuoco, stavano arrostendo il pesce per la cena. Kate, Timothy Bruce e uno dei soldati erano impegnati a fissare le tende e a mettere le provviste al sicuro da scimmie e formiche. Karakawe e l'altro soldato, armati e vigili, montavano la guardia. Il professor Leblanc affidava ciò che gli passava per la mente a un registratore portatile, che teneva sempre a portata di mano nell'eventualità in cui fosse stato illuminato da un pensiero trascendentale che il mondo intero non poteva permettersi di perdere, circostanza che si verificava con tale frequenza che i ragazzi, stufi, aspettavano il momento giusto per sottrargli le pile. Alex stava suonando da un quarto d'ora, quando l'attenzione di Borobá cambiò all'improvviso obiettivo e la scimmietta cominciò a zampettare tutta agitata, tirando la sua padroncina per i vestiti. Lì per lì Nadia fece finta di niente, ma la bestiola non la lasciò in pace finché non si fu alzata in piedi. Dopo aver osservato attraverso il fitto della boscaglia, chiamò Alex con un gesto, e lo condusse oltre il cerchio di luce del fuoco, stando attenta a non farsi notare dagli altri.

"Sssh" disse, portandosi un dito alle labbra.

Restava ancora un barlume di chiarore diurno, ma già i colori non si distinguevano più, il mondo era grigio o nero. Dal giorno della partenza da Santa María de la Lluvia, Alex si era costantemente sentito spiato, ma proprio quella sera la sgradevole sensazione lo aveva abbandonato. Si sentiva tranquillo e al sicuro, come non gli capitava da molti giorni. Era anche diminuito l'odore penetrante che aveva accompagnato l'uccisione del soldato alcune notti prima. I due ragazzi e Borobá procedettero per alcuni metri nella fitta vegetazione e si fermarono ad aspettare, più curiosi che allarmati. Senza esserselo detto, immaginavano entrambi che, se lì intorno ci fossero stati degli indios intenzionati ad aggredirli, lo avrebbero già fatto. I membri della spedizione, perfettamente illuminati dal fuoco dell'accampamento, costituivano infatti un facile bersaglio per le frecce e i dardi avvelenati.

Attesero in silenzio, con l'impressione di sprofondare in una nebbia di bambagia, come se con il calar della notte le normali proporzioni della realtà sfumassero. A poco a poco, Alex cominciò allora a intravedere gli esseri che li circondavano, uno a uno. Erano nudi, decorati con righe e macchioline, le braccia ricoperte di piume e strisce di cuoio, silenziosi, leggeri, immobili. Nonostante fossero lì accanto, era difficile vederli; si mimetizzavano nella natura con una perfezione assoluta che li rendeva invisibili, fatui come fantasmi. Quando fu in grado di metterli a fuoco, Alex stimò che fossero una ventina, tutti uomini e con le loro primitive armi in mano.

"Aía" sussurrò Nadia con grande tranquillità.

Nessuno rispose, ma un movimento quasi impercettibile tra le foglie avvertì che gli indios si facevano più vicini. Nella penombra e senza occhiali, Alex non era certo di quanto vedeva, ma il cuore prese a battergli all'impazzata e sentì il sangue affluirgli alle tempie. Lo avvolse quella sensazione allucinante di vivere un sogno, già provato in presenza del giaguaro nero nell'accampamento di Carías. La tensione era la stessa, come se gli eventi si stessero svolgendo in una bolla di vetro che poteva andare in frantumi da un momento all'altro. Il pericolo era nell'aria, esattamente come era avvenuto con il giaguaro, ma il ragazzo non aveva paura. Non si sentiva minacciato da quelle creature trasparenti che fluttuavano tra gli alberi. L'idea di mettere mano al coltello o di chiamare aiuto non lo sfiorò nemmeno. In compenso gli tornò in mente, come in un lampo, la scena di un film che aveva visto anni prima: l'incontro fra un bambino e un extraterrestre. La sensazione era simile. Con stupore si rese conto che non avrebbe rinunciato a quell'esperienza per nulla mondo.

"Aía" ripeté Nadia.

"Aía" mormorò anche lui.

Nessuna risposta.

I ragazzi aspettarono, sempre tenendosi per mano, fermi come statue; anche Borobá restò immobile, in attesa, come consapevole di assistere a un evento importante. Passarono minuti interminabili e all'improvviso la notte si decise a scendere, avvolgendoli completamente. Alla fine si resero conto di essere soli; gli indios se ne erano andati con la stessa levità con la quale erano comparsi dal nulla.

"Chi erano?" chiese Alex, una volta all'accampamento.

"Dovevano essere il Popolo della Nebbia, gli invisibili, gli abitanti più remoti e misteriosi di tutta l'Amazzonia. Si sa che esistono, ma nessuno ha mai davvero parlato con loro."

"Cosa vogliono da noi?" domandò ancora Alex.

"Vedere come siamo, forse..." azzardò la ragazzina.

"Anche a me piacerebbe vedere loro" disse lui.

"Non diciamo a nessuno che li abbiamo incontrati, Giaguaro."

"È strano che non ci abbiano attaccato e che non siano stati attratti dai regali appesi da tuo papà" considerò il ragazzo.

"Credi che siano stati loro ad ammazzare il soldato sulla lancia?" chiese Nadia.         

"Non so, ma se sono loro, perché oggi non ci hanno attaccati?"

Quella notte, Alex fece il suo turno di guardia con la nonna, senza alcun timore perché non si sentiva l'odore della Bestia e gli indios non lo preoccupavano minimamente. Dopo lo strano incontro, era convinto che le pistole sarebbero servite a poco o niente in caso di attacco. Come mirare su quelle creature pressoché invisibili? Gli indios si dissolvevano nella notte come ombre, muti come fantasmi, e avrebbero potuto cogliere di sorpresa i membri della spedizione e ucciderli tutti in un istante, senza lasciare loro il tempo di accorgersene. Tuttavia, in cuor suo aveva la certezza che non fossero quelle le intenzioni del Popolo della Nebbia.