7.
IL GIAGUARO NERO
Prima di partire, i membri della spedizione furono invitati all'accampamento di Mauro Carías. La dottoressa Torres si scusò spiegando che doveva occuparsi del rientro a Manaus in elicottero militare dei due giovani mormoni, le cui condizioni di salute erano peggiorate. L'accampamento era composto da vari rimorchi, trasportati con gli elicotteri e disposti in cerchio in una radura, a un miglio da Santa María de la Lluvia. Rispetto alle casupole dal tetto di zinco del villaggio, lì regnava il lusso: c'erano, infatti, un generatore di corrente, un'antenna radio e pannelli per l'energia solare.
Carías aveva postazioni simili in molti punti strategici dell'Amazzonia per controllare i suoi numerosi affari, che andavano dallo sfruttamento del legno a quello delle miniere d'oro, ma non viveva da quelle parti. Si diceva che avesse case principesche a Caracas, Rio de Janeiro e Miami e che in ognuna lo aspettasse una moglie. Per gli spostamenti utilizzava non solo il suo jet e l'aereo da turismo, ma anche i mezzi dell'esercito, messigli a disposizione dai generali suoi amici. A Santa María de la Lluvia non c'era un aeroporto in cui far atterrare il suo jet e quindi veniva buono il bimotore, un'autentica meraviglia in confronto al piccolo aereo di César, un uccello decrepito di latta tutta arrugginita. Kate rimase colpita dal fatto che l'accampamento, sorvegliato da numerosi guardiani, fosse recintato da fili di ferro ad alta tensione.
"Che diavolo nasconderà qui quest'uomo per avere una vigilanza del genere?" commentò con il nipote.
Carías faceva parte dei pochi avventurieri che si erano arricchiti in Amazzonia. Migliaia di garimpeiros, cercatori d'oro e di diamanti, si spingevano a piedi o in canoa nella foresta, alla ricerca di miniere o giacimenti, aprendosi il varco a colpi di machete, per finire divorati da formiche, sanguisughe e zanzare. Molti morivano di malaria, altri di fame o di solitudine; i loro corpi marcivano in tombe anonime o venivano mangiati dagli animali.
Si diceva che la fortuna di Carías fosse iniziata con le galline: le lasciava libere nella foresta e poi con un coltellaccio tagliava loro lo stomaco per estrarne le pepite che le poverette avevano ingurgitato. Ma questa, come tante altre chiacchiere che circolavano sul suo passato, era una frottola, perché in effetti l'oro non si trovava certo seminato come mais per l'Amazzonia. In ogni caso, Carías non aveva mai messo a repentaglio la propria salute come i miseri garimpeiros, visto che aveva i contatti giusti, un certo fiuto per gli affari, e sapeva comandare e farsi rispettare; se una cosa non la otteneva con le buone, se la prendeva con le cattive. Molti pensavano che fosse un criminale, ma nessuno osava dirglielo in faccia, dal momento che non si poteva dimostrare che avesse le mani sporche di sangue. Apparentemente non aveva niente di minaccioso o sospetto, era un uomo simpatico, bello, abbronzato, con mani curate e denti bianchissimi, sempre vestito con eleganti vestiti sportivi. Parlava con una voce melodiosa guardando sempre dritto negli occhi, quasi a dimostrare la propria sincerità a ogni frase.
L'imprenditore accolse i membri della spedizione dell'"International Geographic" in un rimorchio che fungeva da salone, arredato con tutte le comodità delle quali era privo il villaggio. Era in compagnia di due donne giovani e attraenti che servivano i drink e accendevano i sigari, ma che non dicevano mezza parola. Alex pensò che non parlassero inglese. Il loro atteggiamento sfrontato gli ricordò Morgana, la giovane che gli aveva rubato lo zaino a New York. Arrossì al pensiero e tornò a chiedersi come aveva potuto essere così ingenuo da farsi ingannare a quel modo. Erano le uniche donne nell'accampamento, per il resto c'erano solo uomini armati fino ai denti. L'ospite offrì loro un delizioso pranzetto a base di formaggi, carne fredda, frutti di mare, gelati, frutta e altre prelibatezze provenienti da Caracas. Per la prima volta da quando era partito dalla California, Alex mangiò con gusto.
"Sembra che tu conosca molto bene questa regione, Santos. Da quanto tempo ci vivi?" chiese Carías alla guida.
"Da sempre. Non potrei vivere altrove" rispose lui.
"Mi hanno detto che tua moglie si è ammalata qui. Mi dispiace infinitamente... Ma non mi stupisce: sono pochissimi gli stranieri che sopravvivono in questo isolamento e con il clima di queste parti. E la tua bimba, non va a scuola?" e Carías allungò una mano per fare una carezza a Nadia, ma Borobá digrignò i denti.
"Non ho bisogno di andare a scuola. So leggere e scrivere" disse Nadia con enfasi.
"E quindi non ti serve altro, tesorino" sorrise Carías.
"Nadia conosce anche la natura e parla inglese, spagnolo, portoghese oltre che le lingue degli indios" aggiunse il padre.
"Che cosa hai appeso al collo, carina?" chiese Carías in tono affettuoso.
"Mi chiamo Nadia" puntualizzò lei.
"Fammi vedere la tua collana, Nadia" sorrise ancora l'imprenditore, mostrando la dentatura perfetta.
"No, è magica, non me la posso togliere."
"Vuoi venderla? Te la compro io!" scherzò Carías.
"No!" gridò lei, allontanandosi.
César si intromise per chiedere scusa dei modi scontrosi della figlia. Era sorpreso che un uomo così importante perdesse il suo tempo a prendere in giro una ragazzina. Fino a poco prima nessuno si accorgeva di Nadia, ma ultimamente la figlia aveva cominciato a richiamare l'attenzione su di sé e questo non gli piaceva affatto. Carías osservò che, se la ragazzina era sempre vissuta in Amazzonia, non era pronta per la vita in società, e che futuro poteva avere? Sembrava intelligente e con una buona istruzione sarebbe potuta arrivare lontano, aggiunse. Si offrì persino di prenderla con sé e di portarla in città, di mandarla a scuola e fare di lei una vera signorinetta, come era giusto che fosse.
"Non posso separarmi da mia figlia, ma la ringrazio comunque" rispose César.
"Pensaci su, amico. Le farei da padrino..." continuò l'imprenditore.
"So anche parlare con gli animali" lo interruppe Nadia. Le sue parole furono accolte da una risata generale. Gli unici a restare seri furono il padre, Alex e Kate.
"Se sai parlare con gli animali, chissà che tu mi possa fare da interprete con una delle mie mascotte. Venite con me" e, con il solito tono garbato, l'imprenditore invitò tutti a seguirlo.
Carías li condusse in uno spiazzo recintato da rimorchi disposti in cerchio in mezzo ai quali era stata improvvisata una specie di gabbia fatta di pali e filo spinato. Dentro camminava avanti e indietro un grosso felino, con quell'atteggiamento folle tipico delle fiere in cattività. Era un giaguaro nero, uno degli esemplari più belli mai visti da quelle parti, il mantello lucido e due occhi ipnotici color topazio. Quando lo vide, Borobá lanciò uno strillo acuto, saltò giù dalla spalla di Nadia e scappò a tutta velocità, inseguita dalla ragazzina che la chiamava inutilmente. Alex restò sbigottito: non aveva mai visto la scimmietta allontanarsi di sua iniziativa dalla padroncina. I fotografi si diedero subito da fare con la loro attrezzatura per riprendere il felino e la stessa Kate tirò fuori dalla borsa la sua piccola macchina. Il professor Leblanc si tenne a debita distanza.
"I giaguari neri sono gli animali più pericolosi del Sudamerica. Niente li fa indietreggiare, sono creature coraggiose" disse Carías.
"Se lo ammira tanto, perché non lo lascia libero? Questa povera bestia preferirebbe morire piuttosto che vivere in gabbia" affermò César.
"Liberarlo? Ma nemmeno per sogno, amico! Ho un piccolo zoo nella mia casa di Rio de Janeiro. Sono in attesa di una gabbia adeguata per poterlo trasferire là."
Alex, quasi in trance, si diresse verso la gabbia, attratto dalla visione del grande felino. La nonna gli urlò un avvertimento, ma il ragazzo non lo sentì e continuò ad avanzare fino a toccare con le mani il recinto che lo separava dall'animale. Il giaguaro si arrestò, emise un fortissimo ruggito e fissò Alex con i suoi occhi gialli. Era immobile, i muscoli in tensione, il pelo corvino palpitante. Il ragazzo si tolse gli occhiali, che portava da quando aveva sette anni, e li lasciò cadere a terra. Erano talmente vicini, lui e il giaguaro, che poteva distinguere ogni singola macchiolina gialla nelle pupille dell'animale, mentre i loro occhi erano impegnati in una conversazione silenziosa. Tutto il resto non esisteva più: erano soli, uno di fronte all'altro, in una pianura dorata con intorno altissime torri nere, sotto un cielo bianco nel quale nuotavano sei lune trasparenti simili a meduse. Vide il felino spalancare le fauci e mostrare i suoi enormi denti di perla e sentì una voce umana, ma che sembrava giungere dalle profondità di una caverna, pronunciare il suo nome: Alexander. E Alex gli rispose con la sua voce, che ora aveva assunto un suono cavernoso: Giaguaro. L'animale e il ragazzo ripeterono tre volte le parole, Alexander, Giaguaro, Alexander, Giaguaro, Alexander, Giaguaro e poi la sabbia della pianura diventò fosforescente, il cielo si fece scuro e le sei lune cominciarono a girare nelle loro orbite e a spostarsi come lente comete.
Nel frattempo, Carías aveva impartito un ordine e uno dei suoi uomini trascinò una scimmia tirandola per una corda. Alla vista del giaguaro, la scimmia ebbe una reazione simile a quella di Borobá, iniziò a strillare e ad agitarsi all'impazzata, ma non riuscì a liberarsi. Carías la prese per il collo e, prima ancora che qualcuno potesse indovinare le sue intenzioni, aprì la gabbia con un solo movimento preciso e vi buttò dentro l'atterrito animaletto.
I fotografi, colti di sorpresa, quasi dimenticarono di avere in mano la macchina fotografica. Leblanc seguiva affascinato tutti i movimenti della povera scimmia, che si arrampicava sul recinto cercando una via di fuga, e quelli del giaguaro che, acquattato, la seguiva con gli occhi preparandosi a spiccare il salto. Senza pensare a quello che faceva, Alex si mise a correre, calpestando e mandando in frantumi gli occhiali rimasti per terra. Si avventò sulla porta della gabbia, deciso a salvare entrambi gli animali, la scimmia da una morte sicura e il giaguaro dalla sua prigione. Vedendo il nipote aprire la gabbia, anche Kate si precipitò, ma prima che potesse raggiungerlo due uomini di Carías lo avevano già preso per le braccia e lo trattenevano con forza. Era successo tutto tanto rapidamente che Alex non riuscì a ricordare la sequenza dei fatti. Con una zampata il giaguaro atterrò la scimmia e la fece a pezzi con un solo morso delle sue terribili mandibole. Il sangue schizzò in tutte le direzioni. Nello stesso istante, César estrasse la pistola dalla cintura e colpì la fiera in fronte con un tiro preciso. Alex sentì l'impatto, come se il proiettile fosse finito tra i suoi occhi e sarebbe caduto all'indietro se le guardie di Carías non lo avessero trattenuto per le braccia, prendendolo al volo.
"Ma cosa hai fatto, maledetto?" esplose l'imprenditore, sfoderando a sua volta la pistola e girandosi verso César.
Le guardie mollarono Alex, che perse l'equilibrio e cadde al suolo, per occuparsi della guida, ma non osarono toccarlo poiché impugnava ancora la pistola fumante.
"Gli ho ridato la libertà" rispose César con una calma sorprendente.
Carías fece uno sforzo enorme per controllarsi. Capì che non poteva ingaggiare un duello davanti alla giornalista e a Leblanc. "Calma!" ordinò alle guardie.
"Lo ha ucciso! Lo ha ucciso!" ripeteva Leblanc, rosso dall'eccitazione. La morte della scimmia e poi quella del felino gli avevano messo addosso la frenesia, e si comportava come un ubriaco.
"Non si preoccupi, professor Leblanc, posso avere tutti gli animali che voglio. Mi scusino, temo che lo spettacolo non fosse adatto agli animi sensibili" disse Carías.
Kate aiutò il nipote ad alzarsi e poi, per evitare che la situazione degenerasse ulteriormente, prese César per un braccio e lo accompagnò verso l'uscita. La guida si lasciò condurre dalla giornalista e si allontanarono, seguiti da Alex. Appena fuori, incontrarono Nadia con la scimmietta spaventata che le si era abbarbicata alla vita.
Alex cercò di spiegare a Nadia quello che era successo tra lui e il giaguaro prima che Carías buttasse la scimmia nella gabbia, ma aveva la mente molto confusa. Era stata un'esperienza così reale che il ragazzo avrebbe potuto giurare che per qualche minuto si era trovato in un'altra dimensione, in un mondo di sabbie splendenti e con sei lune che si muovevano nel firmamento, un mondo dove lui e il giaguaro si erano fusi in un'unica voce. Sebbene gli mancassero le parole per raccontare all'amica quello che aveva vissuto, gli sembrò che lei capisse senza bisogno di dettagli.
"Il giaguaro ti ha riconosciuto, perché è il tuo animale totemico" gli disse. "Tutti abbiamo lo spirito di un animale che ci accompagna. È come la nostra anima. Non tutti incontrano il proprio animale, solo i grandi guerrieri e gli sciamani, ma tu lo hai scoperto senza andarlo a cercare. Il tuo nome è Giaguaro" disse Nadia.
"Giaguaro?"
"Alexander è il nome che ti hanno dato i tuoi genitori. Giaguaro è il tuo vero nome, ma per farne uso devi possedere la natura del giaguaro."
"E com'è la sua natura? Crudele e sanguinaria?" domandò Alex, pensando alle fauci che avevano sbranato la scimmia nella gabbia di Carías.
"Gli animali non sono crudeli come gli uomini: uccidono solo per difendersi o quando hanno fame."
"Anche tu hai un animale totemico, Nadia?"
"Sì, ma non mi è stato ancora rivelato. Per noi donne incontrare l'animale è meno importante perché noi prendiamo la forza dalla terra. Noi siamo la natura" disse lei.
"Come fai a sapere tutte queste cose?" chiese Alex, che ormai nutriva meno dubbi sulle affermazioni della nuova amica.
"Me le ha insegnate Walimai."
"Lo sciamano è tuo amico?"
"Sì, Giaguaro, ma nessuno sa che parlo con lui, non l'ho detto nemmeno a mio padre."
"Perché?"
"Perché Walimai preferisce la solitudine. L'unica compagnia che tollera è quella dello spirito di sua moglie. A volte si reca in qualche shabono, la grande capanna in cui vive tutta una tribù, per curare una malattia o per partecipare a una cerimonia in onore dei morti, ma non compare mai davanti ai nahab."
"Nahab?"
"I forestieri."
"Ma tu sei forestiera, Nadia."
"Walimai dice che io non appartengo a nessun luogo, che non sono né india né straniera, né donna né spirito."
"Che cosa sei, allora?" domandò Giaguaro.
"Io sono e basta" rispose lei.
César spiegò ai membri della spedizione che avrebbero risalito il fiume sulle lance a motore, spingendosi all'interno del territorio degli indios fino ai piedi delle cascate dell'Alto Orinoco. Lì avrebbero montato il campo e abbattuto una striscia di alberi per improvvisare una piccola pista di atterraggio. Lui sarebbe poi tornato a Santa María de la Lluvia per prendere il piccolo aereo da turismo, utile per collegamenti rapidi con il villaggio. Disse che, per quell'epoca, il nuovo motore sarebbe arrivato e si trattava solo di montarlo. Con l'aereo sarebbero stati in grado di spingersi fino alle zone inespugnabili delle montagne dove, stando agli indios e agli avventurieri, probabilmente la leggendaria Bestia aveva la sua tana.
"Ma come fa una creatura gigantesca a salire e scendere per un terreno che verosimilmente noi stessi non riusciremmo a scalare?" chiese Kate.
"Lo scopriremo" rispose César.
"E come fanno gli indios a muoversi da quelle parti senza un aereo?" insistette lei.
"Conoscono la zona. Gli indios sanno arrampicarsi in cima a un'altissima palma piena di spine. Inoltre, sono capaci di scalare le pareti di roccia delle cascate, che sono lisce come specchi" aggiunse la guida.
Passarono buona parte della mattinata a caricare le imbarcazioni. Il professor Leblanc aveva più bagagli dei fotografi, visto che portava con sé anche una scorta di casse di acqua in bottiglia che usava persino per farsi la barba, timoroso com'era di trovare l'acqua inquinata dal mercurio. César gli aveva ripetuto che si sarebbero accampati in corrispondenza della parte alta del fiume, lontano dalle miniere, ma era stato inutile. Su suggerimento della guida, Leblanc aveva assunto come assistente personale Karakawe, l'indio che la sera prima gli aveva fatto aria con una foglia di banano, affinché gli prestasse i suoi servigi per tutta la traversata. Spiegò che soffriva di mal di schiena e che non poteva sollevare il benché minimo peso.
Dall'inizio dell'avventura, Alexander aveva ricevuto l'incarico di badare alle cose della nonna. Non era che una delle sue mansioni, che, al ritorno, sarebbe stata remunerata con poco denaro, e solo nel caso in cui il ragazzo l'avesse svolta a dovere. Ogni giorno Kate annotava sul suo quaderno le ore di lavoro del nipote per tenere il conto e poi gli faceva mettere una firma. In un momento di sincerità Alex le aveva confessato di aver distrutto completamente la sua camera prima di partire. La nonna non si era scomposta più di tanto, poiché sosteneva che sono poche le cose necessarie a questo mondo: a ogni modo gli aveva offerto uno stipendio con cui eventualmente avrebbe potuto rimediare ai danni. Kate viaggiava con tre cambi di cotone, vodka, tabacco, shampoo, sapone, insetticida, zanzariera, coperta, carta e una scatola di matite, il tutto in una borsa di stoffa. Aveva con sé anche una macchina fotografica automatica, di quelle comuni, che aveva suscitato risate sdegnose da parte dei due fotografi professionisti, Timothy Bruce e Joel González. Lei li aveva lasciati ridere senza dir niente. Alex aveva ancora meno indumenti rispetto alla nonna, una cartina e un paio di libri. Alla cintura erano appesi il coltellino svizzero, il flauto e una bussola. Quando César la vide, gli spiegò che non sarebbe servita a niente nella foresta, dove era impensabile procedere in linea retta.
"Scordati la bussola, ragazzo. L'unica è seguirmi senza perdermi di vista" gli suggerì.
Ma ad Alex piaceva l'idea di saper localizzare il nord ovunque si trovasse. L'orologio, invece, era assolutamente inutile, dato che il tempo in Amazzonia non era come nel resto del pianeta, non si misurava in ore, bensì in albe, maree, stagioni, piogge.
I cinque soldati messi a disposizione dal capitano Ariosto e Matuwe, la guida india assunta da César, erano armati a dovere. Matuwe e Karakawe avevano adottato questi nomi per comunicare con gli stranieri; solo familiari e amici intimi potevano chiamarli con il loro vero nome. Entrambi avevano abbandonato le loro tribù da giovanissimi per frequentare le scuole dei missionari, dove erano stati convertiti al cristianesimo, pur mantenendo comunque contatti con gli indios. Nessuno era in grado di orientarsi nella regione meglio di Matuwe, che non aveva mai dovuto consultare una cartina per sapere dove si trovava. Karakawe era considerato un "cittadino" perché andava spesso a Manaus e a Caracas e anche perché aveva il temperamento diffidente tipico della gente di città.
César aveva con sé l'indispensabile per montare il campo: tende, viveri, utensili da cucina, torce, una radio a pile, attrezzi vari, reti per costruire trappole, machete, coltelli e gingilli di vetro e di plastica da regalare agli indios. All'ultimo momento comparve Nadia con la scimmietta appesa a un fianco, l'amuleto di Walimai al collo e un gilet di cotone come unico bagaglio. Disse che era pronta a imbarcarsi. Aveva avvertito suo padre che non aveva la minima intenzione di restare a Santa María de la Lluvia con le suore dell'ospedale, come era successo in passato, perché Carías era lì in zona e non le piaceva per niente il modo in cui lui la guardava e provava a toccarla. Aveva paura dell'uomo che "aveva il cuore in una valigetta". Il professar Leblanc montò su tutte le furie. Già prima si era lamentato della presenza del nipote di Kate ma, giacché era impensabile rispedirlo negli Stati Uniti, aveva deciso di tollerarlo; ma ora non era assolutamente disposto a permettere che si aggregasse anche la figlia della guida.
"Non è un asilo, è una spedizione scientifica ad alto rischio, gli occhi del mondo sono puntati su Ludovic Leblanc" aggiunse furioso.
Siccome nessuno gli fece caso, si rifiutò di salire a bordo. Senza di lui non potevano partire; solo l'immenso prestigio del suo nome costituiva una garanzia per l'"International Geographic", sostenne. César tentò di convincerlo del fatto che sua figlia era sempre andata con lui e che non sarebbe stata di alcun disturbo, anzi, poteva essere di grande aiuto visto che parlava vari dialetti degli indios. Ma il professore fu irremovibile. Dopo mezz'ora, la temperatura era insopportabile, l'umidità trasudava da tutte le superfici e gli animi erano bollenti come il clima. A quel punto intervenne Kate.
"Anch'io soffro di mal di schiena, professore. Ho bisogno di un'assistente personale. Ho assunto Nadia Santos per il trasporto dei miei quaderni e perché mi sventagli con una foglia di banano" disse.
Tutti scoppiarono a ridere. La ragazzina salì serissima a bordo e si sedette accanto alla giornalista. La scimmia le si sistemò in grembo e da lì cominciò a tirare fuori la lingua e a fare boccacce al professor Leblanc, che nel frattempo si era imbarcato, tutto rosso per l'indignazione.