19.
GIUSTIZIA

Come spesso succedeva sull'altopiano, al tramonto la temperatura si abbassò di colpo. I soldati, abituati al caldo delle Terre Basse, tremavano nelle loro uniformi ancora zuppe per la pioggia caduta nel pomeriggio. Nessuno di loro poteva dormire: per ordine del capitano dovevano stare tutti di guardia intorno all'accampamento. Stavano all'erta, con le armi in pugno. Ora non avevano paura solo degli spiriti maligni della foresta o della comparsa della Bestia, ma anche degli indios, che potevano tornare in qualsiasi momento a vendicare i loro morti. Certo, loro avevano il vantaggio delle armi, ma gli indios conoscevano perfettamente il terreno e possedevano la terrificante capacità di apparire dal nulla, come anime di dannati. Se non fosse stato per i cadaveri ammonticchiati sotto un albero, si poteva credere che non fossero umani, che i proiettili non potessero colpirli. Aspettavano ansiosi il mattino per scappare di lì il prima possibile a bordo dell'elicottero, ma nelle tenebre il tempo passava lentamente e i rumori della foresta mettevano i brividi.

Kate, seduta a gambe incrociate accanto al neonato addormentato, meditava su come aiutare il nipote e su come uscire vivi dall'Occhio del Mondo. Attraverso la tela della tenda filtrava un po' di chiarore del fuoco e la giornalista riuscì a intravedere la sagoma di Nadia avvolta nella giacca del padre.

"Sto per uscire..." sussurrò la ragazza.

"No! Non puoi!" la trattenne la compagna.

"Non mi vedrà nessuno, so diventare invisibile."

Kate la afferrò per un braccio, convinta che delirasse.   

"Nadia, ascoltami... Non sei invisibile. Nessuno lo è, sono solo fantasie. Non puoi uscire di qui."

"Sì, invece, sono capace. Non faccia rumore, signora Cold. Abbia cura del bambino fino al mio ritorno, poi lo restituiremo alla sua tribù" mormorò Nadia. La sicurezza e la tranquillità nella voce della ragazza erano tali che Kate non osò fermarla.

Nadia cercò innanzitutto lo stato mentale dell'invisibilità, come aveva imparato dagli indios, e si ridusse al nulla fino a diventare solo uno spirito trasparente. Poi aprì la chiusura della tenda e strisciò all'esterno, protetta dal buio. Come una donnola silenziosa, passò a pochi metri dal tavolo dove il professor Leblanc e il capitano Ariosto giocavano a carte, passò davanti alle guardie armate che circondavano l'accampamento, passò di fronte all'albero a cui era legato Alex e nessuno la vide. La ragazzina si allontanò dal cerchio di luce tremolante delle lampade e del fuoco e sparì tra gli alberi. Subito dopo, il richiamo di una civetta interruppe il gracidare dei rospi.

Alex, come i soldati, tremava di freddo. Aveva le gambe addormentate e le mani gonfie a causa delle corde strette intorno ai polsi. Gli faceva male la mandibola, la pelle tirava tutta, doveva avere una brutta contusione. Con la lingua toccava il dente rotto e sentiva la gengiva tumefatta in corrispondenza del punto in cui il capitano lo aveva colpito con il calcio della pistola. Cercava di non pensare alle ore di buio che ancora lo attendevano o alla possibilità di essere ucciso. Perché Ariosto lo aveva separato dagli altri? Che cosa aveva in mente? Avrebbe voluto essere il giaguaro nero, possedere la forza, la fierezza, l'agilità del magnifico felino, voleva diventare tutto muscoli, artigli e denti per affrontare Ariosto. Pensò alla bottiglia con l'acqua della vita nella borsa: doveva uscire vivo dall'Occhio del Mondo per portarla alla madre. Il ricordo della sua famiglia era confuso, come l'immagine di una fotografia sfocata, in cui il volto della mamma era solo una pallida macchia.

Cominciava ad assopirsi, vinto dallo sfinimento, quando all'improvviso sentì delle mani che lo toccavano. Si rizzò di soprassalto. Nell'oscurità riuscì a distinguere Borobá che gli annusava il collo, abbracciandolo, gemendo piano al suo orecchio. "Borobá, Borobá" mormorò il ragazzo, commosso al punto che gli vennero le lacrime agli occhi. Era solo una scimmietta grande come uno scoiattolo, ma la sua presenza risvegliò in lui tutta la speranza. Si lasciò accarezzare dall'animaletto, profondamente rinfrancato. Poi si accorse di avere accanto un'altra presenza, una presenza invisibile e silenziosa, nascosta vicino all'albero. Prima credette che fosse Nadia, ma poi si rese conto che si trattava di Walimai. Il piccolo vecchio era chino vicino a lui, ne sentiva l'odore di fumo, ma nonostante tutti gli sforzi non riusciva a vederlo. Lo sciamano gli mise una mano sul petto, quasi a cercare il battito del cuore. Il peso e il calore di quella mano amica trasmisero coraggio al ragazzo che si sentì più tranquillo, smise di tremare e cominciò a ragionare con lucidità. "Il coltello, il coltello" mormorò. Udì il clic metallico dello scatto e subito il filo della lama scivolò sulle corde che lo tenevano stretto. Non si mosse. Era buio e Walimai non aveva mai usato un coltello, poteva tagliargli i polsi, ma il vecchio in pochi minuti aveva reciso tutte le corde e lo prendeva per un braccio per guidarlo nella foresta.

All'accampamento il capitano Ariosto aveva dato per conclusa la partita a carte e la bottiglia di vodka era ormai vuota. Al professor Leblanc non veniva in mente più nulla per distrarlo e le ore che mancavano al sorgere del sole erano ancora parecchie. L'alcol non aveva stordito, come il professore sperava, il militare che aveva davvero uno stomaco d'acciaio. Gli suggerì di utilizzare la radio trasmittente per vedere se riuscivano a mettersi in contatto con la caserma di Santa María de la Lluvia. Per un bel pezzo armeggiarono intorno all'apparecchio, che emetteva sibili assordanti, ma collegarsi all'operatore risultò impossibile. Ariosto era preoccupato; non gli conveniva rimanere assente troppo a lungo dalla caserma, doveva rientrare al più presto per controllare le versioni fornite dai soldati su quanto era accaduto a Tapirawa-teri. Che cosa stavano raccontando i suoi uomini? Doveva scrivere un rapporto ai suoi superiori e affrontare la stampa prima che cominciassero a girare le chiacchiere. La dottoressa Torres se n'era andata farfugliando qualcosa sul virus del morbillo. Se si metteva a parlare, stava fresco. Che stupida!, pensò il capitano.

Ariosto ordinò all'antropologo di tornare nella tenda, fece un giro nell'accampamento per controllare che gli uomini montassero la guardia come stabilito e poi si diresse verso l'albero a cui avevano legato Alex, intenzionato a divertirsi un po' a sue spese. In quel momento l'odore lo colpì come una randellata. L'impatto lo fece cadere lungo disteso all'indietro. Cercò di portare la mano alla fondina, ma non riuscì a muoversi. Sentì un'ondata di nausea, il cuore scoppiargli nel petto, poi più nulla. Era già incosciente. Non riuscì a vedere la Bestia, eretta a tre passi di distanza da lui, che lo investiva direttamente con il fetore mortale delle sue ghiandole.

La puzza asfissiante della Bestia invase tutto l'accampamento, abbattendo per primi i soldati e poi gli occupanti delle tende. In meno di due minuti aveva colpito tutti. Per un paio d'ore, una calma spettrale regnò su Tapirawa-teri e sulla foresta circostante, dove tutti gli animali erano fuggiti spaventati dall'odore. Le due Bestie che avevano attaccato contemporaneamente si ritirarono con la consueta lentezza, ma il loro fetore aleggiò per quasi tutta la notte. Nessuno seppe cosa fosse successo in quelle ore, perché ripresero coscienza solo al mattino seguente. Più tardi videro le orme e giunsero alle conclusioni.

Con Borobá sulle spalle, Alex seguì Walimai tra le ombre, facendosi largo nella vegetazione, fino a quando le luci incerte dell'accampamento non furono scomparse del tutto. Lo sciamano avanzava come se fosse giorno, forse seguendo la sposa-angelo che il ragazzo non riusciva a scorgere. Zigzagarono tra gli alberi per un bel pezzo e infine giunsero dove Nadia li stava aspettando. Lei e lo sciamano avevano comunicato tramite i richiami della civetta durante quasi tutto il pomeriggio e la notte, finché Nadia era riuscita ad abbandonare l'accampamento e a raggiungerlo. Gli amici si abbracciarono mentre Borobá si appendeva alla sua padroncina emettendo gridolini di felicità.

Walimai confermò quello che già sapevano: la tribù teneva d'occhio l'accampamento ma, avendo imparato a temere la magia dei nahab, non osava affrontarli. I guerrieri erano così vicini da avere sentito il pianto del neonato e il richiamo dei morti che non avevano ancora ricevuto un degno funerale. Gli spiriti degli uomini e della donna assassinati erano ancora vincolati ai corpi, disse Walimai; senza una cerimonia appropriata non potevano staccarsene ed essere vendicati. Alex gli spiegò che l'unica speranza degli indigeni era un attacco notturno: durante il giorno, infatti, i nahab avrebbero usato l'uccello del rumore e del vento per setacciare l'Occhio del Mondo alla loro ricerca.

"Se attaccano adesso, alcuni moriranno, ma diversamente tutta la tribù verrà sterminata" disse Alex aggiungendo che lui era pronto a guidarli e a combattere al loro fianco. Del resto, era stato iniziato proprio per questo: anche lui era un guerriero.

"Il capo per la guerra è Tahama. Tu sei il capo per negoziare con i nahab" replicò Walimai.

"È troppo tardi per negoziare. Ariosto è un assassino."

"Avevi detto che ci sono nahab pericolosi, ma che altri sono amici. Dove sono gli amici?" insistette lo stregone.

"Mia nonna e qualche uomo dell'accampamento sono amici. Il capitano Ariosto e i suoi soldati sono nemici. Con loro non si può negoziare."

"Tua nonna e i suoi amici devono trattare con i nahab nemici."

"Ma gli amici non dispongono di armi."

"Non hanno la magia?"

"Qui sull'Occhio del Mondo non gliene resta molta. Ma ci sono altri amici lontani da qui, in altre parti del mondo, che hanno moltissima magia" provò a spiegare Alexander, disperato per i limiti imposti dal linguaggio.

"Allora devi andare a chiamarli" concluse il vecchio.

"Ma come? Se siamo intrappolati quassù!"

Walimai smise di fare domande. Rimase inginocchiato a guardare la notte, in compagnia della sposa, che aveva adottato la sua forma più trasparente e non era visibile ai ragazzi. Alex e Nadia trascorsero quelle ore senza chiudere occhio, rimanendo vicini per cercare di scaldarsi a vicenda, senza parlare perché non c'era molto da dire. Pensavano alla sorte di Kate, César e degli altri membri del loro gruppo; pensavano alla condanna che pendeva sulla testa del Popolo della Nebbia; pensavano ai bradipi centenari e alla città d'oro; pensavano all'acqua della vita e alle uova di cristallo. Che ne sarebbe stato di loro, imprigionati nella foresta?

Una zaffata del terribile odore li colpì all'improvviso: sebbene fosse attenuato dalla distanza lo riconobbero all'istante. Con un salto furono subito in piedi, ma Walimai restò impassibile, quasi lo stesse aspettando.

"Sono le Bestie!" esclamò Nadia.

"Forse sì, forse no" fu il commento dell'imperturbabile sciamano.

La notte non passava più. Subito prima dell'alba il freddo era pungente e i ragazzi, raggomitolati insieme a Borobá, battevano i denti, mentre il vecchio stregone, immobile, aspettava, con lo sguardo perso nell'ombra. Alle prime luci del giorno si svegliarono le scimmie e gli uccelli e Walimai diede il segnale di partire. Lo seguirono tra gli alberi per un lungo tratto e, quando i raggi del sole già penetravano attraverso il fogliame, i tre giunsero di fronte all'accampamento. Il fuoco e le lampade erano spenti, non c'erano segni di vita e l'aria era ancora impregnata dal fetore, come se centinaia di moffette avessero attaccato contemporaneamente. Tappandosi naso e bocca con una mano, entrarono nel perimetro di quello che fino a pochi giorni prima era stato il tranquillo villaggio di Tapirawa-teri. Le tende, il tavolo, la cucina, tutto era sparpagliato a terra. Resti di cibo erano sparsi per ogni dove, ma nessun animale frugava tra le masserizie e la spazzatura per la puzza spaventosa lasciata dalle Bestie. Persino Borobá si tenne lontana, strillando e saltando a vari metri di distanza. Walimai dimostrò nei confronti dell'odore la stessa indifferenza dimostrata la notte prima davanti al freddo. Ai ragazzi non restò che seguirlo.

Non c'era anima viva, nessuna traccia dei membri della spedizione, né dei soldati, né del capitano Ariosto. Anche i corpi dei tre indios assassinati erano spariti. Restavano le armi, l'attrezzatura e persino la macchina fotografica di Timothy Bruce; videro anche un'enorme macchia di sangue che aveva annerito la terra accanto all'albero a cui era stato legato Alex. Dopo una rapida ispezione, che sembrò soddisfare il vecchio Walimai, se ne andarono. I due ragazzi lasciarono quel luogo senza fare domande, talmente nauseati dall'odore che a stento si tenevano in piedi. A mano a mano che si allontanavano di lì e i loro polmoni si riempivano dell'aria frizzante del mattino, riguadagnarono un po' di coraggio, ma avevano male alle tempie e la nausea. Borobá li raggiunse dopo pochi passi e il gruppetto si addentrò nella foresta.

Diversi giorni prima, vedendo gli uccelli del rumore e del vento volare in cielo, gli abitanti di Tapirawa-teri erano fuggiti dal villaggio, abbandonando le loro povere cose e gli animali domestici, che ostacolavano la possibilità di rendersi invisibili. Riparati dalla vegetazione, si erano spostati fino a un luogo sicuro per stabilirsi temporaneamente tra le fronde degli alberi. Le squadre di soldati spedite da Ariosto erano passate spesso lì vicino senza scorgerli, e invece tutti i movimenti degli stranieri erano stati osservati dai guerrieri di Tahama, ben protetti dalla natura.

Iyomi e Tahama avevano discusso a lungo sui nahab e sull'opportunità di avvicinarli, come avevano consigliato Giaguaro e Aquila. Iyomi era dell'idea che la sua gente non poteva restare per sempre nascosta sugli alberi come le scimmie e che, inevitabilmente, era giunto il momento di entrare in contatto con i nahab, di accettare i regali e di farsi vaccinare. Tahama, invece, sosteneva che fosse meglio morire combattendo; ma Iyomi era il capo dei capi e alla fine la sua opinione era prevalsa. Aveva quindi deciso che sarebbe stata lei la prima ad avvicinarsi: per questo era arrivata sola all'accampamento, indossando la superba corona di piume gialle per dimostrare agli stranieri chi fosse la massima autorità. La presenza di Giaguaro e Aquila, di ritorno dalla montagna sacra, l'aveva tranquillizzata. Erano amici e potevano tradurre, e quella povera gente con i vestiti puzzolenti non si sarebbe dunque sentita troppo spersa di fronte a lei. I nahab l'avevano ricevuta bene, erano senza dubbio rimasti impressionati dal portamento maestoso e dalle rughe, che testimoniavano la sua età veneranda e la profonda conoscenza acquisita. Sebbene le avessero offerto del cibo, la vecchia si era vista costretta a intimar loro di andarsene dall'Occhio del Mondo, perché stavano disturbando; questa era stata la sua ultima parola, non era disposta a trattare. Se n'era andata con grande solennità, tenendo in mano la sua scodella di carne e mais, certa di avere intimidito i nahab con la forza della sua maestosità.

Visto il successo della visita di Iyomi, il resto della tribù si era fatto coraggio e aveva seguito il suo esempio. E così erano ritornati tutti al villaggio, ora occupato dagli stranieri che, evidentemente, non conoscevano le norme più elementari della prudenza e della cortesia: non si visita uno shabono senza essere invitati. Gli indios avevano visto i grandi uccelli luccicanti, le tende e quei bizzarri nahab, sui quali avevano sentito storie spaventose. Quegli stranieri dai modi volgari meritavano una bella bastonata sulla testa, ma l'ordine di Iyomi era di armarsi di santa pazienza. Avevano accettato il cibo e i regali per non offenderli e, come era giusto, erano andati a caccia e a raccogliere miele e frutta per restituire il favore.

Il giorno successivo, quando Iyomi si era assicurata che Giaguaro e Aquila fossero sempre lì, aveva autorizzato la tribù a presentarsi nuovamente davanti ai nahab e a farsi vaccinare. Né lei né gli altri riuscivano a spiegarsi ciò che era accaduto successivamente. Non avevano capito perché i due ragazzi stranieri, che prima avevano tanto insistito sulla necessità del vaccino, all'improvviso si erano opposti, facendo di tutto per impedirlo. Avevano sentito un rumore sconosciuto, simile a tuoni rapidi e inattesi. Avevano visto il Rahakanariwa uscire dalla prigione delle boccette rotte e attaccare, non visto, gli indios, che erano caduti morti senza essere stati colpiti né da una freccia né da un bastone. Durante quella battaglia violenta, si erano dati alla fuga, spaventati e confusi. Ormai non sapevano più quali erano i loro amici e quali i nemici.

Poi era arrivato Walimai a fornire delle spiegazioni. Aveva detto che i ragazzi Aquila e Giaguaro erano amici e dovevano essere aiutati, ma che tutti gli altri potevano essere nemici. Aveva detto che il Rahakanariwa era libero ed era in grado di assumere qualsiasi forma: ci volevano scongiuri potentissimi per rispedirlo nel regno degli spiriti: dovevano appellarsi agli dèi. E allora avevano chiamato i due bradipi giganteschi, che non erano ancora tornati al tepui sacro e si aggiravano per l'Occhio del Mondo, e nella notte li avevano condotti fino al villaggio in rovina. Diversamente, le Bestie non si sarebbero mai avvicinate alla dimora degli indios di propria iniziativa, non lo avevano mai fatto in migliaia di anni. Walimai dovette spiegare alle enormi creature che quello non era più il villaggio del Popolo della Nebbia, perché era stato profanato dalla presenza dei nahab e delle uccisioni commesse sul suo suolo. Era necessario ricostruire Tapirawa-teri in un altro posto dell'Occhio del Mondo, lontano di lì, in un luogo in cui le anime degli umani e degli spiriti degli antenati si potessero sentire a proprio agio, dove la malvagità non contaminasse la purezza della terra. Le Bestie si erano assunte il compito di attaccare l'accampamento dei nahab, mettendo fuori gioco amici e nemici, indifferentemente.

I guerrieri di Tahama avevano dovuto attendere parecchio prima che l'odore si fosse in parte dileguato. Poi si erano avvicinati. Avevano raccolto innanzitutto i corpi dei loro compagni e li avevano portati via per poi prepararli a un'adeguata cerimonia funebre, e poi erano tornati a prendere gli altri, compreso il cadavere del capitano Ariosto, sbudellato dagli spaventosi artigli di uno degli dèi.

I nahab si stavano svegliando, uno a uno. Si ritrovarono in una radura, stesi al suolo e talmente rintronati da non ricordare nemmeno il proprio nome. Ancor meno avevano memoria di come fossero arrivati fino a là. Kate fu la prima a reagire. Non aveva la più pallida idea di dove si trovasse né di cosa ne era dell'accampamento, dell'elicottero, del capitano e soprattutto di suo nipote. Si ricordò del neonato e lo cercò da tutte le parti, senza trovarlo. Scrollò gli altri che a poco a poco iniziarono a riaversi. Tutti avevano un terribile mal di testa, dolore alle articolazioni, nausea, tossivano e piangevano, si sentivano come se fossero stati bastonati, ma nessuno presentava tracce di violenza.

L'ultimo ad aprire gli occhi fu il professor Leblanc, a cui le conseguenze della terribile esperienza non consentivano di reggersi in piedi. Kate pensò che una tazza di caffè e un bel sorso di vodka gli avrebbero fatto bene, ma non avevano niente da mandare giù. La puzza delle Bestie impestava ancora i vestiti, i capelli e la pelle; dovettero trascinarsi fino a un ruscello e restare ammollo nell'acqua per parecchio tempo. I cinque soldati si sentivano persi senza armi né capitano così che, quando César assunse il comando, non opposero la minima resistenza. Timothy Bruce, oltremodo seccato per essere stato così vicino alla Bestia e non averla potuta immortalare, voleva tornare all'accampamento a cercare le macchine fotografiche, ma non sapeva da che parte dirigersi e nessuno sembrava disposto ad accompagnarlo. Il flemmatico inglese, che insieme a Kate era passato indenne per guerre, cataclismi e numerose avventure, raramente perdeva la sua aria annoiata, ma gli ultimi avvenimenti erano riusciti a metterlo di pessimo umore. Kate e César pensavano solo rispettivamente al nipote e alla figlia. Dove erano i ragazzi?

La guida ispezionò il terreno con grande attenzione e trovò rami spezzati, piume, semi e altre tracce del Popolo della Nebbia. Concluse che gli indios li avevano trascinati fino a lì, salvando loro la vita, dato che altrimenti sarebbero morti asfissiati o sventrati dalla Bestia. Se davvero era andata così, si domandò perché gli indios non ne avevano approfittato per ucciderli, vendicando in questo modo i compagni morti. Se fosse stato in grado di pensare, il professor Leblanc avrebbe certamente dovuto rivedere ancora una volta la sua teoria sulla ferocia di quelle tribù, ma il povero antropologo gemeva a terra, mezzo morto per la nausea e l'emicrania.

Tutti erano convinti che il Popolo della Nebbia sarebbe ritornato, e puntualmente, come previsto, all'improvviso la tribù al completo apparve dalla boscaglia. L'incredibile capacità di muoversi nel silenzio più assoluto e materializzarsi nel giro di qualche secondo servì loro per circondare i forestieri prima che questi se ne accorgessero. I soldati colpevoli della morte degli indios tremavano come foglie. Tahama si avvicinò e li fissò negli occhi, ma non li toccò, forse pensando che quei vermi non meritavano nemmeno una sonora bastonata da un guerriero nobile come lui.

Iyomi fece un passo avanti e cominciò un lungo discorso nella sua lingua, incomprensibile a tutti, e poi afferrò Kate per la camicia e si mise a gridare a due centimetri dalla sua faccia. L'unica cosa che venne in mente alla giornalista fu quella di prendere per le spalle l'anziana dalla corona di piume gialle e restituirle gli strilli in inglese. Le due nonnette andarono avanti per un bel po' a scambiarsi improperi inintelligibili fino a che Iyomi, stanca, si girò e andò a sedersi sotto un albero. Anche gli altri indios si sedettero a chiacchierare a gruppi, a mangiare frutta, noci e funghi che raccoglievano tra le radici e si passavano di mano in mano, mentre Tahama e altri guerrieri stavano all'erta, senza comunque aggredire nessuno. Kate riconobbe il neonato del quale si era presa cura, ora in braccio a una giovane donna, e fu felice di vedere che il piccolino era sopravvissuto al mortifero lezzo della Bestia ed era tornato tra la sua gente.

A metà pomeriggio arrivarono Walimai e i due ragazzi. Kate e César corsero loro incontro per abbracciarli e tirarono un grosso respiro di sollievo, dato che avevano temuto di non rivederli mai più. Grazie alla presenza di Nadia, che si mise a tradurre, la comunicazione diventò molto più semplice e furono chiariti alcuni punti fondamentali. Gli stranieri capirono che gli indios non avevano messo in relazione la morte dei compagni con le armi da fuoco dei soldati, visto che non le conoscevano ancora. Il Popolo della Nebbia adesso voleva solo ricostruire il villaggio altrove, mangiare le ceneri dei defunti e recuperare la pace di sempre. Volevano rimandare il Rahakanariwa tra gli spiriti maligni e scacciare i nahab dall'Occhio del Mondo.

Il professor Leblanc, che si era leggermente ripreso, ma era ancora stordito, prese la parola. Aveva perso il suo cappello australiano, era sporco e puzzolente come tutti gli altri, con i vestiti impregnati dell'odore delle Bestie. Nadia tradusse, adattando le frasi, affinché gli indios non credessero che tutti i nahab fossero arroganti come quell'ometto.

"State tranquilli. Vi prometto che mi incaricherò personalmente di proteggere il Popolo della Nebbia. Quando Ludovic Leblanc parla, il mondo ascolta" assicurò il professore.

Aggiunse che avrebbe dato alle stampe le sue impressioni su quanto aveva visto, non solamente in un articolo per l'"International Geographic", ma addirittura in un libro. Grazie a lui, proseguì, l'Occhio del Mondo sarebbe stato dichiarato una riserva indigena e protetto da qualunque tipo di sfruttamento. Si sarebbero resi conto chi era Ludovic Leblanc!

Il Popolo della Nebbia non capì una sola parola di tutto lo sproloquio, ma Nadia riassunse dicendo che si trattava di un nahab amico. Kate aggiunse che lei e Timothy Bruce avrebbero collaborato al progetto di Leblanc e anche loro due vennero quindi inseriti nel novero dei nahab amici. Alla fine, quando furono terminate le complesse trattative atte a stabilire chi fosse amico e chi no, gli indigeni accettarono di condurli all'uccello del rumore e del vento il giorno seguente. Speravano che nel frattempo il fetore delle Bestie avesse abbandonato Tapirawa-teri.

Iyomi, sempre pragmatica, ordinò ai guerrieri di andare a caccia e alle donne di preparare il fuoco e le amache per la notte.

"Ti rifaccio la domanda dell'altro giorno, Alexander: cosa sai della Bestia?" chiese Kate al nipote.

"Non è solo una, Kate, sono diverse. Sembrano bradipi giganteschi, animali antichissimi, che risalgono forse all'età della pietra o a prima ancora."

"Le hai viste?"

"Sì, altrimenti non potrei descrivertele, no? Ne ho viste undici, ma penso ce ne siano anche un paio da queste parti. Credo che abbiano un metabolismo lentissimo, vivono molti anni, probabilmente secoli. Imparano, hanno buona memoria e, non ci crederai, ma parlano" continuò Alex.

"Mi stai prendendo in giro!" esclamò la nonna.

"È tutto vero! Non che siano grandi oratori, ma si esprimono nella stessa lingua del Popolo della Nebbia."

Alexander le raccontò che i bradipi memorizzavano la storia degli indios in cambio della protezione fornita dalla tribù.

"Una volta mi hai detto che gli indios non avevano bisogno della scrittura perché hanno buona memoria. Le Bestie sono la memoria vivente della tribù" aggiunse il ragazzo.

"Dove le hai viste, Alexander?"

"Non posso rivelartelo, è un segreto."

"Immagino che vivano nello stesso posto in cui hai trovato l'acqua della vita..." buttò lì la nonna.

"Forse sì, forse no" rispose il nipote ironico.

"Devo vedere queste Bestie e fotografarle, Alexander."

"A che scopo? Per un articolo su una rivista? Sarebbe la fine per quelle povere creature, Kate, verrebbero qui per catturarle e chiuderle nei giardini zoologici o per studiarle nei laboratori."

"Ma io devo scrivere qualcosa, sono stata pagata per questo..."

"Scrivi che la Bestia è una leggenda, pura superstizione. Ti assicuro che nessuno le rivedrà per molto, moltissimo tempo. Si dimenticheranno di loro. È più interessante scrivere del Popolo della Nebbia: questo popolo non è cambiato in migliaia di anni e rischia di scomparire da un momento all'altro. Racconta che volevano sterminarli con il virus del morbillo, come hanno già fatto con altre tribù. Puoi renderli famosi e salvarli, Kate. Puoi diventare la loro protettrice e con un pizzico di astuzia puoi fare di Leblanc un alleato. La tua penna può portare un po' di giustizia da queste parti, puoi denunciare le malefatte di Carías e Ariosto, mettere in dubbio il ruolo dei militari e trascinare in tribunale la dottoressa Torres. Devi fare qualcosa, altrimenti nuove canaglie verranno a commettere altri crimini con l'impunità di sempre."

"Vedo che sei cresciuto molto in queste settimane, Alexander" ammise Kate ammirata.

"Puoi chiamarmi Giaguaro, nonna?"

"Giaguaro? Come Jaguar, la marca di automobili?"

"Sì."

"Per me... posso chiamarti come ti pare, basta che tu non mi chiami nonna" replicò lei.

"Va bene, Kate."

"Va bene, Giaguaro."

Quella sera i nahab divisero una cena frugale con gli indios a base di scimmia arrosto. Da quando gli uccelli del rumore e del vento erano arrivati a Tapirawa-teri, la tribù aveva perso l'orto, le banane e la manioca e, non potendo accendere il fuoco per non attirare i nemici, avevano patito la fame. Mentre Kate cercava di parlare con Iyomi e le altre donne, il professor Leblanc, affascinato, interrogava Tahama sui loro costumi e l'arte della guerra. Nadia, l'interprete, si accorse che Tahama aveva un senso dell'umorismo piuttosto malizioso e che stava raccontando al professore una serie di fantasie. Tra l'altro, gli disse di essere il terzo marito di Iyomi e di non aver mai avuto figli, mandando così all'aria la teoria di Leblanc sulla superiorità del maschio alfa. In un futuro decisamente prossimo i racconti di Tahama sarebbero stati la base per il nuovo libro del famoso professor Ludovic Leblanc.

Il giorno successivo il Popolo della Nebbia, capeggiato da Iyomi e Walimai e scortato da Tahama e dai suoi guerrieri, condusse i nahab a Tapirawa-teri. A cento metri dal villaggio videro il corpo del capitano Ariosto, che gli indios avevano collocato tra due grossi rami, perché venisse mangiato dagli animali, trattamento riservato solo a quegli esseri che non meritano una cerimonia funebre. Era talmente dilaniato dagli artigli della Bestia che i soldati, vinti dalla ripugnanza, non ebbero il coraggio di staccarlo e riportarlo a Santa María de la Lluvia. Decisero che sarebbero tornati in un secondo tempo a recuperare le ossa per dar loro cristiana sepoltura.

"La Bestia ha fatto giustizia" mormorò Kate.

César ordinò a Timothy Bruce e ad Alexander di requisire le armi dei soldati che erano disseminate per tutto l'accampamento, per evitare un altro acceso di violenza nell'eventualità che qualcuno si innervosisse. Era poco probabile che ciò accadesse, visto che erano ancora tutti mansueti e rintronati per la puzza delle Bestie, che continuava ad aleggiare. César fece caricare a bordo dell'elicottero tutto eccetto le tende che furono sotterrate, visto che sarebbe stato impossibile eliminare il cattivo odore che le impregnava. Timothy Bruce riuscì a ritrovare le sue macchine fotografiche e tutti i rullini, anche se, purtroppo, quelli requisiti dal capitano Ariosto erano inutilizzabili perché il militare li aveva esposti alla luce. Alex invece ritrovò la sua borsa e all'interno, perfettamente preservata, la bottiglia con l'acqua della vita.

I membri della spedizione si prepararono per tornare a Santa María de la Lluvia. Non disponevano di un pilota, in quanto l'unico rimasto vivo era tornato alla base con il primo elicottero e l'altro era stato guidato dal capitano Ariosto. César non aveva mai pilotato un simile apparecchio, ma immaginava che, se riusciva a guidare quel catorcio del suo aereo, non avrebbe avuto grandi difficoltà. Era giunto il momento di prendere congedo dal Popolo della Nebbia. Lo fecero scambiandosi regali, come usavano gli indios. Gli uni offrirono cinture, machete e utensili da cucina, gli altri si tolsero piume, semi, orchidee e collane di denti. Alex diede a Tahama la bussola che il guerriero si appese al collo, e a sua volta ricevette in cambio un fascio di frecce avvelenate con il curaro e una cerbottana lunga tre metri che quasi non entrava nell'abitacolo. Per la seconda volta, Iyomi afferrò Kate per la camicia per rivolgerle un discorso a tutto volume, e la giornalista le rispose con analoga passione in inglese. All'ultimo momento, quando i nahab stavano per salire sull'uccello del rumore e del vento, Walimai consegnò a Nadia una piccola cesta.