13.
LA MONTAGNA SACRA

Fradicio di sudore, dolorante e con la febbre altissima, Alexander, Giaguaro, percorse un lungo corridoio verde, passò una porta di metallo e vide sua madre; Lisa era adagiata tra i cuscini di una poltrona, coperta da un lenzuolo, in una stanza in cui la luce era bianca, come il chiarore della luna. Portava un berretto di lana azzurra sulla testa calva e aveva gli auricolari nelle orecchie, era molto pallida ed emaciata, con ombre scure intorno agli occhi. Una sottile flebo collegata a una vena sotto la clavicola le iniettava goccia a goccia un liquido giallo da un sacchetto di plastica. Ognuna di esse andava direttamente al cuore di sua madre, come il fuoco delle formiche rosse.

A migliaia di chilometri di distanza, in un ospedale del Texas, Lisa si stava sottoponendo alla chemioterapia. Cercava di non pensare alla droga che, come un veleno, entrava nelle sue vene per combattere il veleno ancora peggiore della malattia. Per distrarsi, si concentrava sulle note del concerto per flauto che stava ascoltando, lo stesso che aveva sentito tante volte provare dal figlio. E nel momento in cui Alex, in delirio, sperduto in mezzo alla foresta, stava sognando la mamma, Lisa vide il figlio con estrema nitidezza. Le apparve in piedi sulla soglia della sua stanza, più alto e robusto, più maturo e più bello di come lo ricordava. Lisa lo aveva chiamato talmente tante volte con il pensiero che non si stupì del suo arrivo. Non si chiese come e perché fosse venuto, e si abbandonò semplicemente alla felicità di averlo accanto. "Alexander.. Alexander..." mormorò. Allungò le mani e lui si avvicinò fino a toccarla, si inginocchiò vicino alla poltrona e le appoggiò la testa in grembo. Mentre Lisa ripeteva il nome del figlio e gli accarezzava la nuca, negli auricolari, tra le note diafane del flauto, udì la voce del ragazzo che la pregava di lottare, di non arrendersi, e continuava a ripetere "ti voglio bene, mamma".

L'incontro fra madre e figlio poteva essere durato un istante o diverse ore, nessuno dei due l'avrebbe mai saputo con certezza. Quando si separarono, tornarono entrambi rafforzati nel loro mondo materiale. Poco dopo John entrò nella camera della moglie e notò con stupore che stava sorridendo e aveva le guance colorite.

"Come ti senti, Lisa?" le chiese affettuosamente.

"Sono contenta, John, perché è venuto a trovarmi Alex" rispose.

"Lisa, ma cosa dici... Alexander è in Amazzonia con mia madre, non ricordi?" mormorò il marito, spaventato per gli effetti che la terapia poteva avere sulla moglie.

"Sì che me lo ricordo, ma ciò non toglie che fosse qui fino a poco fa."

"Non può essere..." la contraddisse il marito.

"È cresciuto, è più alto e più forte, ma ha il braccio sinistro tutto gonfio..." gli raccontò lei, chiudendo gli occhi per riposare.

Nel centro del continente sudamericano, nell'Occhio del Mondo, Alexander si svegliò con la febbre. Impiegò alcuni minuti per riconoscere la ragazzina abbronzata china su di lui che gli dava da bere.

"Ora sei un uomo, Giaguaro" disse Nadia sorridendo, tranquillizzata nel vederlo di ritorno tra i vivi.

Walimai preparò un impasto di piante medicinali e lo applicò al braccio di Alex, e in poche ore la febbre e il gonfiore diminuirono. Lo sciamano gli spiegò che, se nella foresta ci sono veleni che uccidono senza lasciare alcuna traccia, ci sono anche tantissimi rimedi naturali. Il ragazzo descrisse allo stregone la malattia della madre e gli chiese se conosceva qualche pianta che potesse darle sollievo.

"C'è una pianta sacra che deve essere mescolata con l'acqua della vita" rispose lo sciamano.

"Posso avere l'acqua e la pianta?"

"Forse sì, forse no. Bisogna superare molti ostacoli."

"Farò tutto il necessario!" esclamò Alex.

Il giorno dopo il giovane era tutto ammaccato e su ogni morsicatura di formica si era formata una bolla rossa, ma era in piedi e aveva fame. Quando raccontò a Nadia cosa era successo nelle ore precedenti, lei gli disse che le bambine della tribù non avevano bisogno di sottoporsi a un rito iniziatico perché le donne sanno che quando il loro corpo inizia a sanguinare l'infanzia è finita.

Quel giorno Tahama e i suoi compagni non avevano avuto fortuna nella caccia e la tribù poteva contare solo sul mais e su alcuni pesci. Alex decise che, se era riuscito a mangiare l'anaconda arrostito, poteva pure assaggiare un pesce pieno di squame e di lische. Con stupore scoprì che gli piaceva molto. E pensare che mi sono privato di questo piatto prelibato per più di quindici anni!, sospirò al secondo boccone. Nadia gli suggerì di mangiare abbondantemente, visto che il giorno dopo sarebbero partiti con Walimai per un viaggio nel mondo degli spiriti, dove forse non avrebbero trovato cibo per il corpo.

"Walimai dice che andremo sulla montagna sacra, dove vivono gli dèi" disse Nadia.

"Che cosa andiamo a fare lassù?"

"Cercheremo le tre uova di cristallo della mia visione. Walimai crede che le uova salveranno il Popolo della Nebbia."

Si misero in marcia all'alba, non appena comparve il primo raggio di luce nel cielo. Walimai camminava davanti, accompagnato dalla sua bella sposa-angelo che a volte lo prendeva per mano e a volte volava come una farfalla sulla sua testa, sempre silenziosa e sorridente. Alexander ostentava con orgoglio arco e frecce, le nuove armi che Tahama gli aveva consegnato al termine del rito d'iniziazione. Nadia portava una zucca contenente zuppa di banana e alcune torte di tapioca, che Iyomi le aveva dato per il viaggio. Lo stregone non aveva bisogno di provviste perché, aveva detto, alla sua età si mangia pochissimo. Non sembrava umano: si nutriva con sorsi d'acqua e qualche noce che succhiava a lungo con le gengive sdentate, dormiva poco eppure aveva forze a sufficienza per proseguire anche quando i due giovani non ce la facevano più.

Cominciarono a camminare per le pianure boscose dell'altopiano in direzione del tepui più alto, una torre nera e brillante come una scultura di ossidiana. Alex consultò la bussola e vide che andavano sempre verso est. Non c'era un sentiero, ma Walimai procedeva nella vegetazione con sicurezza sorprendente, orientandosi tra gli alberi, le valli, le colline, i fiumi e le cascate come se avesse avuto una cartina tra le mani.

Via via che avanzavano la natura cambiava. Walimai indicò loro il paesaggio dicendo che si trattava del regno della Madre delle Acque e in effetti c'erano cascate ovunque. I garimpeiros alla ricerca di oro e pietre preziose non si erano ancora spinti fin lì, ma era solo una questione di tempo. I minatori formavano gruppi di quattro o cinque ed essendo troppo poveri per permettersi un aereo procedevano a piedi in un terreno irto di ostacoli o in canoa lungo i fiumi. Tuttavia, c'erano uomini come Carías che conoscevano le immense ricchezze della zona e avevano a disposizione risorse modernissime. L'unica cosa che li tratteneva dallo sfruttare le miniere con fiotti di acqua a pressione in grado di polverizzare la foresta e di trasformare il paesaggio in un ammasso di fango erano le nuove leggi per la protezione dell'ambiente e degli indigeni. Le prime venivano violate sistematicamente, ma non era così semplice ignorare le seconde perché gli occhi del mondo erano puntati su quegli indios dell'Amazzonia, gli ultimi sopravvissuti dell'età della pietra. Ormai non potevano più sterminarli a suon di pallottole, come avevano fatto fino a pochi anni prima, senza scatenare una reazione internazionale.

Alex pensò ancora una volta all'importanza dei vaccini della dottoressa Torres e del reportage della nonna per l'"International Geographic" che avrebbe richiamato l'attenzione di altri paesi sulla situazione degli indios. Che cosa significavano le tre uova di cristallo che Nadia aveva visto nel sogno? Per quale ragione dovevano intraprendere quel viaggio con lo sciamano? Gli sembrava più utile cercare di riunirsi alla spedizione, recuperare i vaccini e consentire alla nonna di pubblicare il suo articolo. Era stato designato da Iyomi "capo per negoziare con i nahab e i loro uccelli del rumore e del vento" ma, invece di compiere il suo dovere, si stava allontanando sempre più dalla civiltà. Quello che stavano facendo era privo di senso, pensò con un sospiro. Davanti a lui si ergevano i misteriosi e solitari tepui come costruzioni di un altro pianeta.

I tre camminarono di buon passo dall'alba al tramonto sostando per bere e rinfrescarsi i piedi nel fiume. Alex cercò di mirare a un tucano appollaiato su un ramo a pochi metri da loro, ma la freccia fallì il bersaglio. Ci provò con una scimmia, talmente vicina che si vedevano i suoi denti gialli, ma non la centrò. Lei gli rivolse delle boccacce che avevano tutta l'aria di essere sarcastiche. Alex constatò che le sue armi da guerriero nuove e fiammanti servivano a poco o nulla; se i suoi due compagni si fossero basati su di lui per mangiare, sarebbero morti di fame. Walimai indicò alcune noci, dal sapore delizioso, e i frutti di un albero che però il ragazzo non riuscì a raggiungere.

Gli indios avevano le dita dei piedi ben separate, forti e flessibili, e perciò potevano salire con agilità incredibile fino in cima. Anche i piedi, callosi come la pelle di coccodrillo, erano molto sensibili: li usavano persino per intrecciare canestri o corde. I bambini del villaggio cominciavano ad arrampicarsi appena si tenevano in piedi, ma Alexander, nonostante tutta la sua esperienza di scalatore di montagna, non fu capace di salire sull'albero per raccoglierne i frutti. Walimai, Nadia e Borobá morivano dalle risate nel vedere i suoi inutili sforzi e nessuno dei tre gli dimostrò un minimo di solidarietà quando rovinò al suolo da un'altezza rispettabile massacrandosi il fondoschiena e l'orgoglio. Si sentiva pesante e goffo come un pachiderma.

Verso sera, dopo aver camminato per molte ore, Walimai disse che potevano riposare. Entrò nell'acqua fino alle ginocchia, immobile e silenzioso, e i pesci, una volta dimenticata la sua presenza, cominciarono a nuotargli intorno. Quando ebbe una preda a portata di lancia, la infilzò e porse a Nadia un bel pesce argentato che si stava ancora dimenando.

"Ma come fa? Sembra così facile..." volle sapere Alex, ancora umiliato per le figuracce di prima.

"Ha chiesto il permesso al pesce, gli ha spiegato che doveva ucciderlo per necessità; poi lo ha ringraziato per avere offerto la propria vita a favore della nostra" rispose Nadia.

Alexander pensò che all'inizio del viaggio quest'idea lo avrebbe fatto sorridere, ma ora ascoltava con attenzione le parole dell'amica.

"Il pesce capisce, perché prima ha mangiato altri pesci e ora sa che è arrivato il suo turno. È la legge della natura" aggiunse lei.

Lo sciamano fece un fuocherello per arrostire la cena che ritemprò i ragazzi, lui invece si limitò a bere solo acqua. I giovani dormirono rannicchiati tra le grosse radici di un albero per difendersi dal freddo, visto che non c'era tempo di preparare amache con le cortecce, simili a quelle viste al villaggio; erano stanchi e avrebbero dovuto riprendere il viaggio molto presto. Ogni volta che uno dei due si muoveva, l'altro si sistemava di conseguenza cosicché restarono appiccicati tutta la notte, scaldandosi a vicenda. Intanto il vecchio Walimai, immobile sulle ginocchia, passò il tempo a osservare il firmamento, mentre la sua sposa-angelo vegliava accanto a lui come una fata trasparente, vestita unicamente dei suoi capelli bruni. Quando i ragazzi si svegliarono, l'indio era nella stessa posizione in cui lo avevano lasciato prima di addormentarsi, impassibile al freddo e alla fatica. Alex gli chiese quanti anni aveva, da dove gli venivano tutta l'energia e la formidabile salute. Il vecchio spiegò che aveva visto nascere molti bambini che poi erano diventati nonni e che li aveva visti morire mentre nascevano i loro nipoti. Quanti anni? Scrollò le spalle: non lo sapeva o non gli importava. Disse che era il messaggero degli dèi, che andava spesso nel mondo delle creature immortali dove non c'erano le malattie che uccidono gli uomini. Alex ricordò la leggenda di El Dorado, la città che, oltre alle ricchezze favolose, custodiva la fonte dell'eterna giovinezza.

"Mia madre è molto malata..." mormorò Alex con un nodo alla gola. L'esperienza del viaggio mentale all'ospedale del Texas in cui le aveva fatto visita era stata così reale che ne ricordava ogni dettaglio, dall'odore di medicinali che aleggiava nella stanza alle gambe magre della madre sotto il lenzuolo, sulle quali aveva appoggiato la testa.

"Tutti moriamo" disse lo sciamano.

"Sì, ma lei è giovane."

"C'è chi se ne va da giovane, e chi da vecchio. Io ho vissuto troppo a lungo, vorrei che le mie ossa potessero riposare nella memoria di altri" disse Walimai.

A mezzogiorno giunsero alle falde del tepui più alto dell'Occhio del Mondo, un gigante la cui cima era nascosta da una spessa corona di nubi bianche. Walimai spiegò che il cucuzzolo era sempre coperto e che nessuno, nemmeno il potente Rahakanariwa, aveva mai visitato quel luogo senza essere stato invitato dagli dèi. Aggiunse che dall'inizio della vita, migliaia di anni prima, quando gli esseri umani erano stati creati con il calore del Padre Sole, il sangue della Luna e il fango della Madre Terra, il Popolo della Nebbia sapeva dell'esistenza della dimora degli dèi situata sulla montagna. Per ogni generazione c'era una persona, sempre uno sciamano, che aveva superato molti riti d'espiazione, designata per visitare il tepui e fare da messaggero. A lui era toccata tale sorte ed era stato lassù molte volte, aveva vissuto con gli dèi e ne conosceva tutte le abitudini. Era preoccupato, disse, perché non aveva ancora addestrato il suo successore. E se lui fosse morto, chi sarebbe stato il messaggero? Lo aveva cercato in ciascuno dei viaggi spirituali intrapresi, ma nessuna visione era giunta in suo aiuto. Non tutti potevano essere addestrati, ci voleva qualcuno nato con l'anima da sciamano, qualcuno dotato del potere di guarire, di dare consigli e di interpretare i sogni. Questa persona dimostrava fin da giovane tale dono, doveva essere inflessibile nel vincere le tentazioni e capace di controllare il proprio corpo: un buon sciamano era privo di desideri e di bisogni. Questo fu, in sintesi, quello che i ragazzi compresero del lungo discorso dello stregone, che parlava con perifrasi e continue ripetizioni, quasi stesse recitando un'interminabile poesia. Capirono perfettamente che nessuno, oltre a lui, aveva il permesso di varcare la soglia del mondo degli dèi, anche se Walimai ricordava un paio di occasioni eccezionali in cui ad altri indios era stato concesso di entrare. Questa sarebbe stata la prima volta dal principio dei tempi in cui sarebbero stati ammessi dei visitatori stranieri.

"Com'è la dimora degli dèi?" chiese Alex.

"Più grande del più grande degli shabono, luccicante e gialla come il sole."

"El Dorado! Si tratta della leggendaria città d'oro che i conquistadores cercavano?" domandò ansioso il ragazzo.

"Forse sì, forse no" rispose Walimai, che non aveva punti di riferimento per sapere cosa fosse una città, come si riconosceva l'oro o chi fossero i conquistadores.

"Come sono gli dèi? Sono simili alla creatura che noi chiamiamo la Bestia?"

"Forse sì, forse no."

"Perché ci ha portato fin qui?"

"Per le visioni. Il Popolo della Nebbia può essere salvato da un'aquila e da un giaguaro; è per questo che voi due siete stati invitati alla dimora segreta degli dèi."

"Non tradiremo la fiducia. Non riveleremo mai come ci si arriva..." promise Alex.

"Non ce n'è bisogno. Se ne uscirete vivi, dimenticherete ogni cosa" disse l'indio per tutta risposta.

Se ne uscirò vivo... Alexander non aveva mai preso in considerazione l'ipotesi di morire giovane. Tutto sommato, considerava la morte come un evento assolutamente sgradevole che riguardava gli altri. Nonostante i pericoli affrontati nelle ultime settimane, non aveva mai messo in dubbio il fatto di tornare a casa dalla sua famiglia. Pensava addirittura alle parole con cui raccontare le sue avventure, sebbene nutrisse già poche speranze di essere creduto. Quale amico avrebbe potuto immaginare che lui si trovava in mezzo a esseri dell'età della pietra e che forse avrebbe trovato pure l'El Dorado?

Ai piedi del tepui, si rese conto che la vita riservava molte sorprese. Prima non credeva nel destino, gli sembrava un concetto fatalista, pensava che ognuno fosse libero di costruirsi la propria vita come meglio credeva e lui era ben determinato a giocarsi bene la sua, voleva avere successo ed essere felice. Adesso tutto ciò gli sembrava assurdo. Non poteva più contare solo sulla ragione, ora era entrato nel territorio incerto dei sogni, dell'intuizione e della magia. Il destino esisteva e a volte era necessario buttarsi nell'avventura e improvvisare qualcosa per uscirne vincitore, come aveva fatto a quattro anni, quando la nonna lo aveva gettato in acqua e lui aveva dovuto imparare a nuotare. Non restava che immergersi nei misteri che lo circondavano. Una volta di più si rese conto dei rischi. Era solo, nella zona più remota del pianeta, dove non vigevano le leggi a lui note. Doveva ammetterlo: la nonna gli aveva fatto un enorme favore strappandolo dalla sicurezza della California per scaraventarlo in quello strano mondo. Non erano stati solo Tahama e le formiche rosse a iniziarlo come adulto, lo aveva fatto anche l'ineffabile Kate.

Walimai lasciò che i suoi due compagni si riposassero nei pressi di un ruscello. Disse di aspettarlo e si allontanò. In quella zona dell'altopiano la vegetazione era meno fitta e il sole di mezzogiorno cadeva a picco sulle loro teste. Nadia e Alex si buttarono in acqua spaventando le anguille e le tartarughe che sonnecchiavano sul fondo, mentre sulla riva Borobá acchiappava le mosche e si grattava le pulci. Il ragazzo si sentiva perfettamente a suo agio con Nadia, si divertiva e aveva fiducia in lei, che in quell'ambiente si rivelava molto più saggia di lui. Gli sembrava strano provare tanta ammirazione per una persona dell'età di sua sorella Andrea. Talvolta cadeva nella tentazione di paragonarla a Cecilia Burns, ma non sapeva da che parte cominciare: erano troppo diverse.

Cecilia si sarebbe sentita perduta nella foresta, come Nadia lo sarebbe stata in una città. Cecilia si era sviluppata presto e a quindici anni era già una giovane donna; Alex non era l'unico spasimante, tutti i ragazzi della scuola avevano le stesse fantasie. Nadia, invece, era ancora lunga e dritta come un giunco, senza rotondità femminili, tutta ossa e pelle abbronzata, una creatura androgina che profumava di muschio. Nonostante l'aspetto infantile, ispirava rispetto: era disinvolta e piena di dignità. Forse perché priva di sorelle o di amiche coetanee, si comportava come un adulto; era seria, silenziosa, concentrata, non faceva la smorfiosa come molte ragazzine della sua età, cosa che lui non poteva sopportare. Alex detestava quando bisbigliavano e ridacchiavano tra loro, si sentiva insicuro, pensava lo prendessero in giro. "Non parliamo sempre di te, Alexander, ci sono anche argomenti più interessanti" gli aveva detto una volta Cecilia davanti a tutta la classe. Pensò che Nadia non lo avrebbe mai umiliato in quel modo.

Il vecchio sciamano tornò dopo circa un'ora, fresco e sereno come sempre, con due bastoni ricoperti da una resina simile a quella adoperata dagli indios per risalire le pareti della cascata. Annunciò che aveva trovato l'ingresso per la montagna degli dèi e, dopo avere nascosto arco e frecce che non avrebbero potuto usare, li invitò a seguirlo.

Sotto il tepui la vegetazione era costituita da enormi felci, che crescevano aggrovigliate come stoppa. Dovevano procedere con molta attenzione e lentezza, separando le foglie e aprendosi un varco con difficoltà. Una volta che i viaggiatori si furono addentrati sotto quelle piante gigantesche, il cielo sparì e si trovarono immersi in un universo vegetale nel quale il tempo si era fermato e la realtà aveva perso le forme conosciute. Entrarono in un dedalo di foglie palpitanti di rugiada profumata di muschio, di insetti fosforescenti e fiori carnosi, dai quali stillava un miele azzurro e denso. L'aria si fece pesante come l'alito di un felino, c'era un ronzio continuo, le pietre bruciavano come brace e la terra era colore del sangue. Alexander si aggrappò con una mano alla spalla di Walimai e con l'altra afferrò Nadia, consapevole che, se si fossero separati di qualche centimetro, le felci li avrebbero inghiottiti e loro non si sarebbero mai più ritrovati. Borobá era abbarbicata al corpo della padroncina, silenziosa e attenta. Dovevano allontanare dagli occhi le delicate ragnatele ricamate dai moscerini imperlate da gocce di rugiada, che come un pizzo univano le foglie. Riuscivano a stento a vedere i loro piedi e smisero di chiedersi cosa fosse quella sostanza colorata, viscosa e tiepida nella quale affondavano fino alla caviglia.

Il ragazzo non riusciva a capire come lo sciamano potesse riconoscere la strada, forse era guidato dalla sposa-angelo, e avrebbe giurato che stavano girando in tondo senza avanzare mai. Mancavano punti di riferimento, c'era solo la vegetazione vorace che li inghiottiva nel suo abbraccio lucente. Cercò di controllare sulla bussola, ma l'ago sembrava impazzito, e confermava l'impressione che stessero girando intorno allo stesso punto. All'improvviso Walimai si fermò, spostò una felce del tutto identica alle altre e si trovarono di fronte a un'apertura su un lato della montagna molto simile a una tana di volpe.

Lo stregone entrò gattoni e loro lo seguirono. Era un passaggio stretto, lungo circa tre o quattro metri, che portava in una grotta spaziosa, illuminata debolmente da un raggio di luce proveniente dall'esterno, dove poterono alzarsi nuovamente in piedi. Walimai si mise con pazienza a strofinare le sue pietre per fare un fuoco, mentre Alex pensava che non sarebbe mai più uscito di casa senza fiammiferi. Infine una scintilla fece ardere un filo di paglia che Walimai usò per accendere la resina di una torcia.

Nella luce tremante videro alzarsi una nuvola scura e compatta di migliaia e migliaia di pipistrelli. Si trovavano in una caverna, circondati dall'acqua che colava dalle pareti coprendo il suolo trasformato così in una laguna nera. Diversi tunnel naturali, alcuni più ampi degli altri, prendevano varie direzioni formando un intricato labirinto sotterraneo. Senza esitazione, l'indio si diresse in uno di quei corridoi, con i ragazzi alle calcagna.

Alex ricordò la storia di Arianna, che secondo la mitologia greca permise a Teseo di tornare dai meandri del labirinto, dopo avere ucciso il feroce Minotauro. Ma lui non aveva un filo per segnare il cammino e si chiese come sarebbero potuti uscire di lì senza Walimai. Visto che l'ago della bussola oscillava in tutte le direzioni, dedusse che si trovavano in un campo magnetico. Decise di lasciare delle tracce sulle pareti con il coltello, ma la roccia era dura come granito e avrebbe impiegato ore per incidere un segnetto. Andavano di galleria in galleria, continuando a salire nell'interno del tepui, con la torcia improvvisata come unica difesa contro le tenebre assolute che li circondavano. Nelle viscere della Terra non regnava un silenzio di tomba, come Alex aveva immaginato, ma si udivano battiti d'ali di pipistrelli, squittii di topi, il tramestio di piccoli animali in fuga, lo sgocciolio dell'acqua e un colpo ritmico e sordo, come il palpito cardiaco di un organismo vivo, un enorme animale a riposo dentro cui stavano camminando. Nessuno parlava, ma a volte Borobá lanciava un grido spaventato e l'eco del labirinto restituiva il suono moltiplicato. Il ragazzo si chiese che tipo di creature abitassero a quella profondità, forse serpenti o scorpioni velenosi, ma decise di non pensare a nessuna di quelle eventualità e di restare lucido, come sembrava essere Nadia che camminava dietro Walimai muta e fiduciosa.

A poco a poco intravidero la fine del lungo tunnel. Scorsero un tenue chiarore verde e quando si affacciarono si ritrovarono in una grande caverna la cui bellezza era quasi impossibile descrivere. Da qualche parte entrava abbastanza luce da illuminare un vasto spazio, ampio come una chiesa, nel quale si ergevano meravigliose formazioni di roccia e minerali, simili a sculture. Il labirinto che si erano lasciati alle spalle era di pietra bruna, ma ora si trovavano in una sala circolare illuminata, sotto una volta altissima, circondati di cristalli e pietre preziose. Alex non sapeva molto di minerali, ma riuscì a riconoscere opali, topazi, agate, frammenti di quarzo e alabastro, giada e tormalina. Vide cristalli lucidi come diamanti, altri opachi, alcuni che sembravano illuminati dall'interno, altri venati di verde, violetto e rosso, quasi contenessero smeraldi, ametiste e rubini. Stalattiti trasparenti scendevano dall'alto come pugnali di ghiaccio, gocciolando acqua calcarea. C'era odore di umidità e, stranamente, di fiori. La miscela era un aroma rancido, intenso e penetrante, un po' nauseabondo, un misto profumato e sepolcrale. L'aria era fredda e crepitante, come in inverno dopo una nevicata.

All'improvviso videro un movimento all'estremo opposto della grotta e dopo un istante da una roccia di cristallo azzurro si staccò qualcosa che sembrava uno strano uccello simile a un rettile alato. L'animale dispiegò le ali, preparandosi a spiccare il volo e allora Alex lo riconobbe: assomigliava ai disegni raffiguranti i dragoni leggendari, ma le dimensioni erano quelle di un grande e bellissimo pellicano. I terribili dragoni delle leggende europee, sempre di guardia a un tesoro o a una donzella prigioniera, erano orribili. Questo, invece, sembrava più uno di quei dragoni che aveva visto nelle feste del quartiere cinese di San Francisco: era tutto allegria e vitalità. A ogni modo aprì il coltellino svizzero per essere pronto a difendersi, ma Walimai lo tranquillizzò con un gesto.

La sposa-angelo dello sciamano, leggera come una libellula, attraversò volando la grotta e andò a posarsi tra le ali dell'animale. Borobá strillò terrorizzata e digrignò i denti, ma Nadia, abbagliata dalla vista del dragone, la fece tacere. Quando riuscì a riprendersi, la ragazzina cominciò a parlargli nel linguaggio degli uccelli e dei rettili con la speranza di attirarlo, ma il favoloso animale si limitò a esaminare da lontano i visitatori con le sue pupille colorare e ignorò i richiami di Nadia. Poi spiccò il volo, elegante e leggero, per fare un giro solenne nella volta della grotta, con la sposa di Walimai sul dorso, quasi volesse semplicemente mostrare la bellezza delle sue linee e delle sue squame fosforescenti. Infine, si posò nuovamente sulla roccia di cristallo azzurro, ripiegò le ali e attese, impassibile come un gatto.

La sposa-angelo tornò dal marito e lì restò fluttuando sospesa nell'aria. Alex pensava a come avrebbe potuto descrivere in futuro quello che i suoi occhi stavano vedendo; avrebbe dato qualsiasi cosa pur di avere con sé la macchina fotografica della nonna e poter poi dimostrare che quel luogo e quelle creature esistevano davvero e non erano il frutto delle sue allucinazioni.

Lasciarono a malincuore la caverna incantata e il dragone alato, senza sapere se mai li avrebbero rivisti. Alex cercava ancora spiegazioni razionali per ciò che stava succedendo, mentre Nadia accettava il meraviglioso senza porsi domande. Il ragazzo ipotizzò che quei tepui, così isolati dal resto del pianeta, fossero le ultime isole dell'era paleolitica, nelle quali la flora e la fauna di migliaia e migliaia di anni addietro si erano conservate intatte. Forse si trovavano in una sorta di Isole Galàpagos, in cui le specie più antiche erano sfuggite alle mutazioni o all'estinzione. Quel dragone probabilmente era solo un uccello sconosciuto. Creature del genere comparivano nei racconti popolari e nella mitologia dei luoghi più disparati. C'erano tanto in Cina, dove venivano considerati simbolo di buon auspicio, quanto in Inghilterra, dove servivano a dimostrare il coraggio di cavalieri come san Giorgio. Forse, concluse, erano stati gli animali che avevano convissuto con i primi esseri umani del pianeta e che la superstizione popolare aveva sempre ricordato come rettili giganteschi che sputavano fuoco dalle narici. Il dragone della grotta però non emanava fiammate, bensì un penetrante profumo dolciastro. Ma una spiegazione per la moglie di Walimai, quella fata dall'aspetto umano che li accompagnava nel loro strano viaggio, proprio non gli veniva in mente. Be', forse l'avrebbe trovata in futuro...

Seguirono Walimai in nuove gallerie, mentre la luce della torcia si faceva via via più fioca. Attraversarono altre grotte, nessuna spettacolare quanto la prima, e videro altre bizzarre creature come uccelli dalle piume rosse con quattro ali e dal ringhio canino e gatti bianchi e ciechi che rinunciarono ad attaccarli solo quando Nadia li tranquillizzò rivolgendosi a loro nella lingua dei felini. Quando passarono per una grotta inondata e dovettero procedere con l'acqua fino al collo con Borobá appollaiata sulla testa della padroncina, videro pesci dorati con le ali, che nuotavano tra le loro gambe e di colpo spiccavano il volo, scomparendo nell'oscurità delle gallerie.

In un'altra caverna, nella quale aleggiava una densa nebbia purpurea simile a quella di certi tramonti, crescevano incredibili fiori sulla roccia nuda. Walimai ne sfiorò uno con la lancia e subito dai petali emersero tentacoli carnosi che si allungarono alla ricerca di una preda. In un'ansa di uno dei corridoi, alla luce rossastra e tremolante della torcia videro nella parete una nicchia in cui riposava una specie di bambino pietrificato nella resina, simile a quegli insetti che restano imprigionati nell'ambra. Alex immaginò che la creatura si trovasse nella sua tomba ermetica dagli albori dell'umanità e che vi sarebbe restata, intatta, per migliaia di anni a venire. Ma come era arrivata là? Come era morta?

Il gruppo percorse infine l'ultimo corridoio dell'immenso labirinto. Si ritrovarono allora in uno spazio aperto e per qualche istante vennero abbagliati da un fascio di luce bianca. Si resero conto successivamente di essere su una specie di terrazzamento naturale, una sporgenza nella roccia che si affacciava sull'interno di una montagna cava, simile al cratere di un vulcano. Il labirinto che avevano attraversato penetrava le profondità del tepui, collegando l'esterno al mondo fantastico racchiuso nelle sue viscere. Capirono di essere saliti di molti metri attraverso le gallerie. Le pareti della montagna, coperte di vegetazione, si protendevano ancora verso l'alto, perdendosi tra le nuvole. Al posto del cielo si scorgeva una sorta di spesso soffitto di bambagia attraverso il quale filtrava la luce del sole, provocando uno strano fenomeno ottico: sei lune trasparenti galleggiavano in un firmamento di latte. Erano le lune delle visioni di Alex. Nell'aria volavano uccelli mai visti, alcuni traslucidi e leggeri come meduse, altri grandi come condor neri, altri ancora simili al dragone incontrato nella grotta.

Vari metri più in basso si estendeva una grande valle rotonda, che osservata dall'alto sembrava un giardino verdeazzurro immerso nel vapore. Cascate, fili d'acqua e rigagnoli scendevano dai pendii alimentando i laghetti della valle, così simmetrici e perfetti da sembrare artificiali. E al centro, scintillante come una corona, si ergeva superba El Dorado. Nadia e Alex soffocarono un'esclamazione, accecati dallo splendore incredibile della città d'oro, la dimora degli dèi.

Walimai diede loro il tempo di riprendersi dalla sorpresa e poi indicò la scalinata intagliata nella montagna che a partire dal loro terrazzamento serpeggiava giù fino a valle. Via via che scendevano, si rendevano conto che la flora era straordinaria quanto la fauna che avevano potuto ammirare: le piante, i fiori e gli arbusti erano davvero unici. Il calore e l'umidità andavano aumentando, la vegetazione si faceva più folta e rigogliosa, gli alberi più alti e ricchi di fronde, i fiori più profumati e i frutti più turgidi. Il panorama, eccezionalmente bello, risultava tuttavia piuttosto inquietante, vagamente minaccioso, simile a un misterioso paesaggio venusiano. La natura pulsava, ansimava, cresceva davanti a loro, li spiava. Videro mosche gialle e trasparenti come topazi, scarafaggi azzurri dotati di corna, grandi chiocciole dai mille colori che da lontano sembravano fiori, esotiche lucertole a strisce, roditori dalle zanne affilate e ricurve, scoiattoli senza pelo che saltavano tra i rami come gnomi nudi.

Quando giunsero a valle e si avvicinarono a El Dorado, i ragazzi constatarono non solo che non era una città, ma che non era nemmeno d'oro. Si trattava di formazioni geometriche naturali, simili ai cristalli che avevano visto nelle grotte. Il colore dorato era dovuto alla mica, un minerale non prezioso, e alla pirite, a ragione definita "l'oro degli stolti". Alex abbozzò un sorriso, pensando che, se i conquistadores e molti altri avventurieri fossero riusciti a superare gli impossibili ostacoli del percorso e giungere a El Dorado, sarebbero tornati indietro più poveri di prima.