15.
LE UOVA DI CRISTALLO

In cambio della musica e della danza offerte loro, le Bestie concessero ai ragazzi quanto avevano richiesto. A Nadia indicarono che doveva salire in cima al tepui, fino alle vette più alte, dove si trovava il nido contenente le tre uova prodigiose della sua visione. Dal canto suo, Alex sarebbe invece dovuto scendere negli abissi della Terra per prendere l'acqua della vita.

"Possiamo andare insieme, prima sulla vetta del tepui e poi sotto il cratere?" chiese Alex pensando che in due sarebbe stato tutto più facile.

I bradipi scossero lentamente la testa e Walimai spiegò che ogni viaggio nel regno degli spiriti è solitario. Aggiunse che avevano a disposizione soltanto la giornata successiva per portare a termine le loro missioni, perché lui doveva assolutamente tornare nel mondo esterno l'indomani verso sera, questo era l'accordo preso con gli dèi. Se non fossero ritornati per tempo, sarebbero rimasti intrappolati nel tepui sacro e da soli non avrebbero mai trovato l'uscita del labirinto.

I ragazzi passarono il resto della giornata in giro per la città di El Dorado a raccontarsi delle loro vite; prima della separazione volevano sapere il più possibile l'uno dell'altra. Nadia riusciva a stento a immaginare l'amico in California con la sua famiglia; non aveva mai visto un computer, non era mai andata a scuola né conosceva l'inverno. Da parte sua, Alex provava invidia per la vita libera e silenziosa della ragazzina, a stretto contatto con la natura. Nadia aveva un equilibrio e una saggezza che a lui sembravano irraggiungibili.

Nadia e Alexander ammirarono le magnifiche formazioni di mica e di altri minerali della città, la flora lussureggiante che cresceva ovunque e i curiosi animali che abitavano il luogo. Si resero conto che i dragoni simili a quello della caverna, che a volte vedevano volteggiare nell'aria, erano mansueti come pappagalli addomesticati. Ne chiamarono uno e questi si posò con eleganza ai loro piedi e si lasciò toccare. La sua pelle era morbida e fredda, come quella di un serpente; aveva uno sguardo da falco e l'alito profumato di fiori. Fecero il bagno nelle calde lagune e si cibarono di frutti, ma solo di quelli indicati da Walimai. Lo sciamano aveva spiegato loro che c'erano anche frutti e funghi che potevano provocare la morte o gli incubi o distruggere la volontà; altri ancora cancellavano la memoria per sempre. Durante la loro passeggiata, qua e là si imbattevano nelle Bestie, che trascorrevano la maggior parte dell'esistenza in uno stato letargico. Una volta mangiate le foglie e la frutta necessarie per nutrirsi, passavano il resto della giornata a contemplare il torrido paesaggio circostante e il tappo di nuvole che chiudeva la bocca del tepui. "Credono che il cielo sia bianco e della dimensione di quel cerchio" commentò Nadia, e Alex osservò che loro stessi avevano una visione parziale del cielo e che solo gli astronauti sapevano che non era azzurro, bensì molto profondo e scuro. Quella notte andarono a coricarsi tardi, esausti; dormirono vicini, senza toccarsi a causa del caldo, ma condivisero lo stesso sogno, come avevano imparato a fare con i frutti magici di Walimai.

All'alba del giorno successivo, l'anziano sciamano consegnò ad Alexander una zucca vuota e a Nadia una contenente acqua e una cesta, che la ragazza si legò sulla schiena. Li avvertì che, una volta intrapreso il viaggio verso le vette o verso le profondità, non potevano tornare indietro. Avrebbero dovuto superare gli ostacoli o morire nell'impresa: il ritorno a mani vuote non era contemplato.

"Siete sicuri che questo è ciò che davvero desiderate?" chiese lo sciamano.

"Io sì" disse Nadia.

Non sapeva a cosa sarebbero potute servire le uova né perché doveva andarle a cercare, ma credeva fermamente nella visione che aveva avuto. Dovevano essere preziose o molto magiche e per entrarne in possesso era pronta a vincere la sua più grande paura: le vertigini.

"Anch'io" aggiunse Alex, pensando che sarebbe andato fino all'inferno pur di salvare sua madre.

"Forse tornerete, forse no" fu l'indifferente commiato dello stregone, per il quale il confine tra la vita e la morte era una sottile linea di fumo che un alito di vento poteva spazzare via.

Nadia staccò Borobá dalla cintura e le spiegò che non poteva portarla con sé. La scimmietta si aggrappò a una gamba di Walimai gemendo e minacciandolo con un pugno, ma non osò disubbidirle. I due amici si abbracciarono forte, intimoriti e commossi. Poi partirono, ognuno nella direzione indicata da Walimai.

Nadia salì lungo la stessa scalinata tagliata nella roccia dalla quale era scesa con Walimai e Alex all'uscita del labirinto per raggiungere la base del tepui. Fino al terrazzamento non ebbe difficoltà, nonostante la gradinata fosse alta e priva di un corrimano al quale attaccarsi e gli scalini fossero stretti, irregolari e mezzi rotti. Lottando contro le vertigini, gettò un'occhiata verso il basso e vide il fantastico paesaggio verdeazzurro della valle, avvolto in una bruma leggera, con la splendida città d'oro nel centro. Poi guardò verso l'alto e i suoi occhi si persero nelle nubi. La bocca del tepui sembrava più piccola della base. Come poteva salire per quelle pareti inclinate? Avrebbe avuto bisogno di zampe da scarabeo. Quanto era alto veramente il tepui, a che punto si formava il tappo di nuvole? Dove era esattamente il nido? Decise di non pensare ai problemi ma alle soluzioni: avrebbe affrontato gli ostacoli uno alla volta, a mano a mano che si fossero presentati. Se era riuscita a risalire per la cascata, avrebbe potuto farcela anche ora, sebbene non fosse legata a Giaguaro con una corda e fosse sola.

Giunta al terrazzamento, capì che la scalinata era finita, che da lì avrebbe dovuto procedere verso l'alto aggrappandosi dove poteva. Sistemò la cesta sulla schiena, chiuse gli occhi e cercò la calma dentro di sé. Giaguaro le aveva spiegato che lì, nel centro del suo essere, si concentravano l'energia vitale e il coraggio. Respirò profondamente affinché l'aria pulita le riempisse i polmoni e le invadesse il corpo, fino a raggiungere le punte delle mani e dei piedi. Ripeté l'operazione tre volte e, sempre a occhi chiusi, riuscì a vedere l'aquila, il suo animale totemico. Immaginò che le sue braccia si dilatassero e si allungassero, trasformandosi in ali piumate, che le sue gambe diventassero zampe con artigli uncinati, che sul suo viso crescesse un becco feroce e che i suoi occhi si allontanassero fino a posizionarsi ai lati della testa. Sentì che i suoi capelli, ricci e crespi, diventavano piume rigide che lei poteva rizzare a piacimento, piume che contenevano il sapere delle aquile: erano antenne che captavano ciò che era nell'aria, anche l'invisibile. Il suo corpo perse elasticità ma in cambio acquisì una tale leggerezza, che poteva staccarsi da terra e fluttuare in mezzo alle stelle. Si sentì enormemente potente, perché tutta la forza dell'aquila le era entrata nel sangue e penetrava fin nell'ultima fibra del suo corpo e della sua coscienza. "Sono Aquila" disse a voce alta, e subito dopo aprì gli occhi.

Nadia si aggrappò a una piccola fessura nella roccia sopra la testa e pose il piede in un'altra, all'altezza della vita. Si sollevò e rimase ferma per riprendere l'equilibrio. Alzò la mano destra e cercò un appiglio più in alto, finché riuscì ad afferrare una radice mentre con il piede sinistro cercava a tastoni un gradino. Rifece lo stesso movimento con la mano sinistra, trovò uno scalino e salì ancora un po'. La vegetazione che cresceva sulle pareti, radici, arbusti e liane, le era di aiuto. Notò anche dei graffi profondi nella pietra e in alcuni tronchi e pensò fossero segni lasciati da artigli. Le Bestie dovevano essere a loro volta salite da li in cerca di cibo, oppure, non conoscendo la mappa del labirinto, ogni volta che entravano e uscivano dal tepui erano costrette ad arrampicarsi fino alla cima e scendere dal lato opposto. Calcolò che dovevano impiegarci giorni o forse settimane, vista l'incredibile lentezza di quei bradipi giganteschi.

La parte ancora attiva della sua mente comprese che l'incavo del tepui non era un cono rovesciato, come l'effetto ottico dal basso aveva suggerito, ma che si allargava leggermente verso l'alto. La bocca del cratere era in realtà più larga della base. Dopo tutto, non servivano zampe da scarabeo, ma solo concentrazione e coraggio. Scalò così per ore, metro dopo metro, con una determinazione ammirevole e una scioltezza del tutto nuova per lei. Tale destrezza proveniva dal luogo più recondito e misterioso, un luogo di pace racchiuso nel suo cuore, dove si trovava la nobile natura del suo animale totemico. Nadia era Aquila, l'uccello dal volo più alto, la regina del cielo, colei che costruisce il nido dove solo gli angeli possono arrivare.

La ragazza-Aquila continuò a salire poco alla volta. L'aria calda e umida della valle si trasformò in una brezza fresca che le diede la spinta verso l'alto. Si fermava spesso, stanchissima, trattenendo il desiderio di guardare in giù o di calcolare quanto ancora le rimaneva, concentrata esclusivamente sul movimento successivo. Aveva una sete terribile, si sentiva la bocca piena di sabbia, un sapore amaro, ma non poteva staccarsi dalla parete per prendere dalla schiena la zucca di acqua che le aveva dato Walimai. Berrò alla fine, mormorava, pensando all'acqua fredda e limpida che l'avrebbe bagnata internamente. Se almeno piovesse, si disse, ma le nuvole non regalavano nemmeno una goccia. Quando credeva di non farcela più, sentiva il talismano magico di Walimai appeso al collo e questo le dava coraggio. Era la sua protezione. L'aveva aiutata ad arrampicarsi sulle rocce nere e lisce della cascata, l'aveva fatta diventare amica degli indios, l'aveva protetta dalle Bestie; con il suo talismano era al sicuro.

Molto tempo dopo la sua testa toccò le prime nuvole, dense come meringhe, e allora venne avvolta da un biancore latteo. Proseguì a tentoni, aggrappandosi alle rocce e alla vegetazione, sempre più scarsa a mano a mano che saliva. Non si era resa conto che le mani, i piedi e le ginocchia stavano sanguinando, pensava solo al potere magico che la sorreggeva, e all'improvviso con una mano tastò una larga fenditura. Riuscì a sollevarsi del tutto e si trovò sulla cima del tepui, sempre nascosta dalle nubi. Dal petto di Nadia uscì un'esclamazione potente di trionfo, un urlo ancestrale e selvaggio come un grido fortissimo di cento aquile all'unisono che andò a schiantarsi contro le rocce delle altre cime, rimbalzando e amplificandosi, fino a perdersi nell'orizzonte.

La ragazzina attese immobile che l'eco del suo urlo si spegnesse fin nelle pieghe più remote del grande altopiano. Solo allora il tamburo del suo cuore si calmò e lei poté tirare un profondo respiro. Quando si sentì stabile sulla roccia, prese la zucca e ne bevve tutto il contenuto. Mai aveva desiderato così tanto qualcosa. Il liquido fresco si portò via la sabbia e l'amaro dalla bocca, le bagnò la lingua e le labbra secche, andò giù per la gola, e penetrò in tutto il corpo come un balsamo prodigioso in grado di curare l'angoscia e lenire il dolore. Nadia capì che la felicità consiste nel raggiungere ciò che si è atteso a lungo.

L'altezza e l'immane sforzo compiuto per arrivare fin lassù e per tenere a bada le sue paure ebbero l'effetto di una droga ancora più potente di quella degli indios di Tapirawa-teri o della pozione per il sogno collettivo di Walimai. Le sembrò ancora di volare, ma non aveva più il corpo di aquila, si era liberata della componente materiale, era puro spirito. Era sospesa in uno spazio glorioso. Il mondo era rimasto lontano, laggiù, nella dimensione delle illusioni. Fluttuò per un tempo incalcolabile e all'improvviso vide un varco nel cielo radioso. Senza esitazione si lanciò come una freccia in quell'apertura ed entrò in uno spazio vuoto e nero, infinito come il firmamento in una notte senza luna. Era lo spazio assoluto della divinità e della morte, lo spazio in cui anche lo spirito si dissolve. Lei stessa era il vuoto, non aveva più desideri né ricordi. Non aveva nulla da temere. Era fuori del tempo.

Ma dalla cima del tepui il corpo di Nadia la chiamava indietro, voleva che tornasse. L'ossigeno restituì alla sua mente il senso della realtà materiale e l'acqua le diede l'energia necessaria per muoversi. Lo spirito di Nadia compì allora il tragitto a ritroso, attraversò di nuovo come una freccia l'apertura nel vuoto, volò ancora qualche istante nel biancore immenso della volta gloriosa e tornò a essere Aquila. Dovette resistere alla tentazione di volare per sempre, sostenuta dal vento, e con un ultimo sforzo fece ritorno nel suo corpo di ragazzina. Si trovò seduta sulla cima del mondo e si guardò intorno.

Stava nel punto più elevato dell'altopiano, circondata dall'assordante silenzio delle nuvole. Non riusciva a vedere l'altezza o l'estensione del luogo che la ospitava, ma calcolò che la fossa dentro il tepui fosse poca cosa rispetto all'immensità della montagna che la conteneva. Il terreno si presentava spaccato da profonde voragini, con parti rocciose e altre ricoperte da una fitta vegetazione. Immaginò che sarebbe passato molto tempo prima dell'arrivo in quel luogo degli uccelli metallici dei nahab: era assurdo cercare di atterrare lì, anche con l'elicottero, e difficilmente una persona avrebbe potuto camminare su una superficie così impervia e irregolare. Sentì che le forze le venivano meno, che avrebbe rischiato di cercare il nido tra le fenditure per il resto dei suoi giorni senza mai trovarlo, ma poi ricordò che Walimai le aveva detto esattamente da quale parte salire. Si riposò un momento e quindi riprese il cammino, su e giù per le rocce, trascinata da una forza sconosciuta, una specie di certezza istintiva.

Non dovette andar lontano. A poca distanza, in una crepa formata da grandi rocce, c'era il nido e nel centro Nadia vide le tre uova di cristallo. Erano più piccole e brillanti di quelle della visione, ma meravigliose.

Stando attentissima a non scivolare dentro ai profondi crepacci dove si sarebbe sfracellata, Nadia strisciò fino al nido. Le sue dita si chiusero sulla perfezione brillante del cristallo, ma il suo braccio restò immobile. Stupita, fece per prendere un altro uovo. Non riuscì a sollevarlo e così fu per il terzo. Era impossibile che fossero così pesanti, non erano più grandi di uova di tucano! Cosa stava succedendo? Le esaminò singolarmente e constatò che non erano appiccicate né fissate, anzi, sembrava che quasi galleggiassero sul soffice materasso di ramoscelli e piume. La ragazza si sedette su una delle rocce senza riuscire a capacitarsi: non poteva credere che tutta l'avventura e la fatica per giungere fin lassù fossero state inutili. Aveva dimostrato una forza sovrumana per salire come una lucertola lungo le pareti interne del tepui e ora che finalmente si trovava in cima era così debole da non riuscire nemmeno a sollevare di un millimetro il tesoro che era andata a cercare.

Nadia esitò, confusa, e per lunghi minuti non trovò soluzione all'enigma. All'improvviso le venne in mente che magari le uova appartenevano a qualcuno. Forse erano state le Bestie a metterle là, ma potevano anche essere di qualche creatura favolosa, un uccello o un rettile o un dragone. In quel caso la madre sarebbe potuta arrivare in qualsiasi momento e, vedendo un'intrusa accanto al nido, si sarebbe scagliata all'attacco con comprensibile furia. Lì non poteva rimanere, ma non aveva intenzione di rinunciare alle uova. Walimai aveva detto chiaramente che non si poteva tornare indietro a mani vuote... Cos'altro aveva detto? Che bisognava essere di ritorno prima di notte. Fu allora che ricordò ciò che lo sciamano le aveva insegnato il giorno prima: la legge della reciprocità. Per prendere una cosa, se ne deve dare un'altra in cambio.

Si guardò sconsolata. Non aveva nulla da dare. Aveva solo una maglietta, un paio di pantaloncini corti e il cesto legato alla schiena. Osservandosi, notò per la prima volta i graffi, le ferite e i lividi provocati dalle rocce durante la scalata alla cima della montagna. Il sangue, dove si concentrava l'energia vitale che le aveva consentito di arrivare fino a lassù, era forse l'unica cosa preziosa che possedesse. Si avvicinò, mettendosi in modo che il sangue gocciolasse nel nido. Alcune macchioline rosse schizzarono le morbide piume. Chinandosi, sentì il talismano contro il petto e capì immediatamente che era quello il prezzo che doveva pagare per le uova. Esitò a lungo. Lasciarlo lì significava rinunciare alla protezione e ai poteri magici che la ragazza aveva attribuito all'osso intagliato regalatole dallo sciamano. Non avrebbe mai più avuto nulla di così magico come l'amuleto, per lei era molto più importante delle uova, che non sapeva nemmeno a cosa servissero. No, non poteva separarsene, decise.

Nadia chiuse gli occhi sfinita, mentre il sole che filtrava fra le nuvole cominciava a cambiare colore. Per alcuni istanti rivisse il sogno allucinante provocato dalla ayahuasca che aveva fatto al funerale di Mokarita e tornò a essere l'aquila che volava in un cielo bianco, sospesa nel vento, leggera e potente. Vide le uova dall'alto, brillanti nel loro nido, ed ebbe la stessa granitica certezza di allora: le uova contenevano la salvezza del Popolo della Nebbia. Allora aprì gli occhi con un sospiro, si tolse il talismano e lo posò nel nido. A quel punto allungò la mano e toccò un uovo, divenuto improvvisamente leggero. Prese le altre due uova con la stessa facilità. Le ripose tutte nel cesto con estrema cautela e si preparò a riprendere la strada del ritorno. La luce del sole filtrava ancora attraverso le nuvole. Nadia calcolò che avrebbe impiegato meno tempo per scendere e che sarebbe arrivata giù prima del buio, come si era raccomandato Walimai.